Modulo 24I – Analisi del personaggio Don Vito Corleone (trilogia “Il Padrino”)


 
Ogni sotto-modulo di analisi si apre con lo stesso disclaimer, per ricordarti l’obbligo di aver fruito l’opera, e provato a capirla in autonomia, prima di leggere la mia analisi.

Ma se parliamo della trilogia Il Padrino – un capolavoro di sceneggiatura – è così ovvio che l’hai già vista, probabilmente anche più volte, che sarebbe irrispettoso dubitare di alcunché: tutti conoscono Il Padrino, e persino quei pochi che non lo hanno visto ne hanno comunque presenti alcune scene, e spesso dicono di averlo visto per intero, perché si vergognano della loro mancanza.

Il Padrino è tra le migliori produzioni cinematografiche al mondo, una delle poche a vantare un successo sia di critica (svariati Premi Oscar e numerosi altri riconoscimenti, tra cui il terzo posto nella classifica dei migliori film dell’American Film Institute) che di pubblico (oltre un miliardo di dollari d’incasso al botteghino e un pubblico continuamente rinnovato e fedele, anche tra le nuove generazioni).

Il Padrino è un classico, un film ancora in dialogo col nostro tempo, la più potente saga familiare mai concepita per lanciare  un atto d’accusa alla perdita dei valori nella società (americana).
 
Il Padrino è un’opera about lifelarger than life.
 
 
 
 Dall’introduzione di Francis Ford Coppola, il regista del film,
a una delle riedizione del romanzo di Mario Puzo da cui è tratto il film.
Il libro di Puzo vendette nove milioni di copie, solo nel 1969:
un evento mediatico, più che un best-seller,
destinato fatalmente a una trasposizione cinematografica.
Già nel 1967 il vicepresidente della Paramount Pictures,
dopo aver letto appena le prime sessanta pagine dell’opera,
 offrì a Puzo più di 12.000 dollari per ultimarlo
e gliene promise altri 80.000 se avesse accettato di portarlo sul grande schermo.
  “Un’offerta che non si poteva rifiutare”, per riprendere la frase più iconica dell’opera,
anche perché Puzo era dipendente dal gioco d’azzardo e sommerso dai debiti.
La stessa Paramount, per quanto gloriosa fosse la sua storia,
attraversava una crisi finanziaria per i numerosi flop al botteghino delle produzioni più recenti.
Chiamarono tutti i registi più famosi dell’epoca,
da Sergio Leone a Elia Kazan passando per Peter Bogdanovich.
Nessuno accettò, e si fu così obbligati a virare sul giovane Francis Ford Coppola,
 già vincitore di un Oscar per la sceneggiatura, ma ancora sconosciuto come regista.
Il rapporto tra la Paramount e Coppola fu costellato di litigi e malumori
– sul tono del film, sul casting, sulle location
ma alla fine creò uno dei capolavori della storia del cinema,
un successo che salvò la Paramount
e rese Coppola una delle figure più importanti di Hollywood.
 
Non analizzerò la trilogia né alcuna delle sue parti, ma mi concentrerò sul personaggio di Don Vito Corleone, per mostrare un eccellente caso di scuola di costruzione dell’empatia verso un cosiddetto “cattivo”.
 
Parlerò di “mafiosi” e di “organizzazione mafiosa” solo per speditezza di linguaggio, ma è ben noto che questi termini non sono mai presenti nell’opera. La leggenda racconta che fu la Mafia stessa a proibirli…
 

Empatizzare con un "cattivo"

Richiamiamo anzitutto le tre regole dell’empatia: un personaggio empatico è competente, proattivo e sottoposto a sofferenza ingiusta.

Sono tre requisiti naturali, e anche relativamente facili da applicare – pur di non cedere alla pigrizia – se si ha tra le mani un personaggio “buono”; ma come regolarsi con un “cattivo”?

In cosa mai consisterebbero la competenza e la proattività? Quali sarebbero le abilità da mostrare? Rapinare banche, commettere omicidi, maltrattare la moglie, bullizzare i compagni di classe, o dare fuoco ai formicai?

Che dire, poi, della sofferenza ingiusta? Il cervello umano è affamato di nessi causali, ha bisogno di credere che tutto abbia una spiegazione – un perché, un motivo – e se sottoponi un “cattivo” a una sofferenza ingiusta, se gli fai accadere qualcosa di brutto di cui lui, il “cattivo”, non ha nessuna colpa, i meccanismi di funzionamento del cervello porteranno comunque a dire che  “se l’è meritato e ben gli sta”, che il karma, il destino, Dio o l’Universo lo hanno punito per la sua malvagità, anche quando – a normale buon senso – non c’è nessun collegamento tra la sua cattiveria e l’evento negativo che l’ha colpito.

Il primo passo, quando si maneggia un “cattivo”, è farlo sembrare un “buono”: relativamente buono, un buono rispetto allo schifo che lo circonda, in modo che la sofferenza che vivrà possa apparire effettivamente ingiusta. Ti rimando al modulo 23B, per le accortezze da avere in questa opera di relativizzazione. In breve: fai attenzione a non rendere “lo schifo che lo circonda” così tanto schifoso da privare il tutto di verosimiglianza, solo per far sembrare “buono” il tuo protagonista.

Quanto alla competenza e alla proattività, poi, c’è da recuperare una visione di assieme del personaggio. Sarà pure un “cattivo”, ma non può essere – non deve essere – un kattivo-kattivissimo, cattivo perché sì. Avrà anche lui – per elementari esigenze di realismo – delle qualità positive. Mostrale. E fallo prima di ogni altra cosa, perché l’ordine in cui presenti le informazioni è cruciale, e se prima vediamo i pregi del personaggio, poi saremmo meglio disposti ad accettarne i difetti.

E ora vediamo come tutti ciò sia stato messo meravigliosamente all’opera per creare Don Vito Corleone, il Padrino.
 

Don Vito Corleone: il mafioso buono

Signore e Signori, la mitica scena di apertura del film Il Padrino.
 

Siamo al matrimonio della figlia di Don Vito Corleone, il Padrino: se avete una supplica da rivolgergli, ebbene, fatelo oggi, nel giorno del matrimonio della figlia, perché oggi è così felice che sicuramente non potrà dirvi di no.

Il primo supplicante è un uomo come tanti, di professione becchino: la figlia è stata sfregiata da due ragazzi, per il suo rifiuto a concedersi, e ora l’uomo, il padre, vuole giustizia, chiede che i due ragazzi siano puniti, visto che il tribunale li ha riconosciuti sostanzialmente innocenti.

La prima reazione di Don Vito Corleone è bonaria, ma al tempo stesso decisa. Perché l’uomo sta venendo solo ora da lui? Perché non ci si è rivolto subito, quando il fatto è accaduto? Perché ha preferito affidarsi – senza successo – alla giustizia ordinaria? Ovvio: perché chiamare in causa il Padrino significa entrare in contatto con una figura fosca, ambigua, diciamo pure malavitosa, vuol dire sporcare il proprio nome, semmai quel contatto divenisse di dominio pubblico.

Il Padrino e il becchino si conoscono da tempo, eppure “è la prima volta che vieni da me per consiglio o per aiuto. Nemmeno me lo ricordo l'ultima volta che mi invitasti a casa tua a pigliare un caffè, anche se mia moglie fece pure da madrina a tua figlia. Ma diciamoci la verità: la mia amicizia tu non la volevi, avevi paura di trovarti in debito”.

Don Vito Corleone soffre nell’essere percepito come una persona negativa, da cui stare lontano. Vorrebbe – prima di tutto – un minimo di rispetto: “tu non offri amicizia, non ti sogni nemmeno di chiamarmi Padrino”.

Osserva poi il senso della misura di Don Vito nel dipingere il quadro della cosiddetta società civile. “Trovasti il paradiso tuo in America. Commercio avviato, vita sicura, polizia che ti protegge, giustizia in tribunale. A che ti serviva un amico come me? Ma ora vieni da me e mi dici: Don Corleone, fatemi giustizia!”.

Don Vito non attacca le istituzioni, non le critica, anzi le elogia. Solo che a volte le istituzioni girano a vuoto, e qui, nel caso della figlia del becchino, è pacifico che la giustizia ordinaria abbia clamorosamente fallito. Ogni spettatore, nell’ascoltare il racconto del becchino, empatizza con sua figlia e prova un senso di rabbia verso l’inefficacia di un sistema giudiziario prigioniero dei suoi stessi meccanismi. Ogni spettatore vuole che si faccia giustizia, e se non la si può avere in un tribunale, allora ben venga la lunga mano di Don Vito.

E ora osserva il colpo di genio degli sceneggiatori: il becchino – un lavoratore onesto, un uomo di sani principi, timoroso di farsi vedere accanto a un personaggio chiacchierato come Don Vito – chiede l’omicidio dei due ragazzi e si offre addirittura di compensare il delitto (“Dicite o prezzo e io pago”).

Questo non lo chiedere” – è la replica secca di Don Vito – “Questa non è giustizia. Tua figlia è ancora viva”.

Don Vito mostra una saggezza salomonica: quel che è successo alla ragazza è tremendo – è vero – ma qui dobbiamo fare giustizia, perciò la pena va commisurata alla colpa – secondo la classica immagine della bilancia, che tiene in equilibrio le due cose – e se la ragazza, pur sfregiata per sempre, è ancora viva, allora anche i due ragazzi, pur da punire, devono restare vivi.

Don Vito Corleone – il Padrino, un mafioso – recupera quella ragionevolezza e quella lucidità che hanno abbandonato un padre per bene, sconvolto dal dolore.

La frase di chiusura – “noi non siamo assassini, anche se quel beccamorto ne sembra convinto” – è il suggello di tutto ciò che abbiamo visto, e così, alla fine della scena, ci viene restituita una meravigliosa istantanea dell’intero personaggio: noi siamo mafiosi, non siamo assassini; non siamo contro le istituzioni, ma siamo il loro complemento (dove non arrivano loro, ci siamo noi); e siamo persone ragionevoli che agiscono in modo ragionevole (“questo incarico diamolo a Clemenza, voglio gente di affidamento, uomini che non si fanno prendere la mano”).

Come ci sentiremmo tutti più tranquilli, se a governarci fosse Don Vito, non è vero?

Se un onest’uomo come te si trovasse dei nemici, quelli diventerebbero nemici miei: e avrebbero paura di te”.

Già, proprio così: è precisamente questo ciò che vorremmo tutti noi, uomini onesti.
 

La sofferenza ingiusta di un personaggio "relativamente buono"

Don Vito Corleone e la sua famiglia saranno pure mafiosi, ma di là delle etichette che si possono appiccicare ai personaggi – e che spesso attacchiamo pure alle persone, nel mondo reale – ciò che conta è quel che vediamo e sentiamo.
 
Sì, è vero, vediamo all’opera dei mafiosi e non dimentichiamo mai che lo sono, eppure empatizziamo con loro perché per la maggior parte del tempo li vediamo insieme, a casa, a svolgere faccende quotidiane, come  una famiglia normale, come fosse la nostra. Per dirlo con le parole di Francis Ford Coppola, “anche se la nostra famiglia non è mai stata gangster […] la vera realtà quotidiana inserita nel film era basata sulla mia famiglia e su ciò che ricordo da bambino. Non puoi fare film senza che siano personali in una certa misura”.
 
Il cerchio familiare è la loro salvezza, come spesso lo è per tutti, e non a caso gli eventi peggiori accadono ogni volta che qualcuno se ne allontana: Sonny lascia la casa per uno scatto d’ira, rimane da solo, e viene trucidato; Don Vito si allontana un momento dal figlio per comprare un’arancia al banco di frutta, e viene colpito da un sicario; nessuno è al sicuro, nemmeno i più potenti, appena manca la protezione più intima della famiglia.
 
I Corleone hanno la fama di essere spietati, ma non uccidono mai un solo innocente, sino all’avvicendamento tra Don Vito e Michael: non vediamo mai atti di racket, prostituzione o spaccio; tutte le azioni più cruente non sono mai mostrate; vengono piuttosto narrate da altre persone – rimanendo sul crinale tra realtà e leggenda – o sono compiute indirettamente.
 
Michael Corleone: “Johnny, quand’era appena agli inizi,
aveva firmato un impegno di esclusiva con un famoso maestro.
Ma, dato che la sua carriera andava di bene in meglio, se ne voleva liberare.
E chiese aiuto a mio padre che è suo padrino.
Allora mio padre andò a trovare quel maestro, e gli offrì diecimila dollari per sciogliere il contratto.
La risposta fu no. Il giorno appresso, papà andò a trovarlo di nuovo accompagnato da Luca Brasi,
e questa volta quello firmò la rinuncia, in cambio di un assegno di cento dollari”
Key Adams: “E come si era convinto?” 
Michael Corleone: “Papà gli aveva fatto un’offerta che non poteva rifiutare” 
Key Adams: “Offerta in che senso?” 
Michael Corleone: “Luca gli puntò una pistola alla testa,
e mio padre disse che in quel documento ci sarebbe stata la sua firma o il suo cervello.
È una storia vera”
 
Don Vito Corleone – in particolare – ha una fisicità prorompente e una mimica malformata; è gentile nei modi e nelle parole, ma deciso nelle azioni; vive di etica mafiosa e amicizia vera, di carezze al proprio gatto e teste mozzate di cavalli dentro al letto di chi non vuole ascoltarlo; sarà pure pieno di ipocrisie, ma rimane fondamentalmente ricco di morale, di saggezza; possiede un nucleo di valori che non fatichiamo a condividere, perché centrati su un’idea di “famiglia” intesa in senso di sangue – moglie, figli, nuore, nipoti – e non in senso mafioso, come dimostra un campionario di sue citazioni.
 
“Un uomo che sta troppo poco con la famiglia non sarà mai un vero uomo”

“Mai dire a una persona non della famiglia ciò che ti passa nella testa”

“I miei figli li ho viziati: parlano invece di ascoltare”

“La vera ricchezza di un uomo sono i figli”
 
“Io ho sempre lavorato e non ho rimorsi, ho avuto cura della mia famiglia

Lo stesso Michael Corleone – il figlio di Don Vito che diventerà il nuovo Padrino, ma che all’inizio marca le distanze da quel mondo – mette in prospettiva “l’essere mafioso” del padre, qualificandone l’essenza in un celebre dialogo con l’allora fidanzata (e poi moglie).
 
 
Michael Corleone: “Mio padre non è diverso da qualunque altro uomo di potere” 
Kay Adams: “Già…”
Michael Corleone: “Da chiunque abbia la… responsabilità di altri uomini,
come un senatore, un presidente”
Kay Adams: “Non vedi come è ingenuo quello che dici?”
Michael Corleone: “Perché?”
Kay Adams: “Senatori e presidenti non fanno ammazzare la gente”
Michael Corleone: “Chi è più ingenuo, Kay?”    
 
Don Vito Corleone è semplicemente un uomo di potere, come un senatore o un presidente.
 
Forse senatori e presidenti non fanno ammazzare la gente, forse; ma di sicuro noi non vediamo mai – nel primo episodio della trilogia – un omicidio eseguito o commissionato da Don Vito Corleone. Noi vediamo sempre e solo un uomo di potere, che esercita il suo potere con ragionevolezza, anche grazie a una base di valori sani, condivisibili.

E a Don Vito Corleone, a questo personaggio “relativamente buono”, possiamo ora infliggere una sofferenza ingiusta, sicuri di trovare l’adesione empatica dello spettatore.
 
La morte del figlio di Don Vito Corleone.
Assistiamo a un momento spettacolarmente tragico,
quando il consigliere più fidato di Don Vito gli comunica l’omicidio del figlio Sonny. 
Lui, Don Vito, potrebbe piangere, urlare, disperarsi, o anche rimanere impassibile,
oppure invocare la più spietata delle vendette,
e invece fa solo un piccolo movimento, un singolo sussulto,
e in quel sussulto c’è tutto il dramma,
che peraltro non lo priva del dominio di sé
(“non voglio sapere chi è che l’ha ammazzato, non voglio che fate vendetta”)
e anzi lo spinge a cercare una soluzione a una situazione divenuta insostenibile
(“mi devi combinare un meeting coi capi delle cinque famiglie: questa guerra finisce qua”).
 
Questo non è giusto, proprio no!

Già la perdita di un figlio, di per sé, è un evento sconvolgente, a cui l’animo umano non può mai essere preparato, perché contrario al fluire della vita: ogni figlio sa – consciamente o inconsciamente – di dover seppellire i propri genitori, ma nessun genitore riesce anche solo a immaginare di dover seppellire i propri figli.

La morte di un figlio è tra le più grandi sciagure in senso assoluto, e qui, poi, colpisce un personaggio – Don Vito – con uno spiccato senso della famiglia, che ha fatto di tutto per proteggere la sua famiglia (in senso di sangue) e contrario per principio a soluzioni estreme come gli omicidi (ricorda il “noi non siamo assassini”, e tieni a mente anche il modo con cui regola una supplica ricevuta al matrimonio della figlia, con la decapitazione di un cavallo, e non certo di un uomo).

Questa sofferenza, Don Vito, non la merita, proprio no. Noi siamo con lui, partecipiamo al suo dolore, lo comprendiamo, empatizziamo; e ci tocca nel profondo il fatto che trovi ancora la lucidità per pensare agli altri, a sua moglie, con la richiesta al becchino di rimettere in sesto i volto del figlio morto, per non far vedere quello scempio alla signora, alla mamma.

Noi siamo con Don Vito Corleone, dall’inizio alla fine. Gioiamo e soffriamo con lui. Temiamo per lui, quando provano a ucciderlo, e tifiamo affinché rimanga in vita. E ci commuoviamo quando lo vediamo morire – nel secondo episodio – nel mezzo dei giochi col suo nipotino.
 
La morte romantica e dolce di Don Vito Corleone.

C’è da sorprendersi se la Sicilia continua a tributargli i suoi omaggi, se la parola “Sicilia” viene fieramente associata al nome di Don Vito Corleone?


L’omaggio della Sicilia a Don Vito Corleone.
 

"Non siamo comunisti, non siamo avvocati"

La costruzione dell’empatia verso un personaggio “cattivo” – così dice la regola – passa per una relativizzazione del suo status: deve sembrare “buono” rispetto all’ambiente in cui si trova.

Questa regola generale ammette sempre una modalità attuativa sciatta, banale, stereotipata: calcare la mano sull’ambiente circostante, presentarlo come un covo di pazzi furiosi, di kattivi-kattivissimi, cattivi perché sì.

Sostanzialmente, si inasprisce oltre modo il metro con cui si misura il personaggio – con cui se ne apprezzano le qualità, pregi e difetti – affinché ne venga fuori una figura nel complesso pienamente accettabile.

È il classico caso in cui può dirsi “l’operazione è riuscita, il paziente è morto”.

Non vi è dubbio che il personaggio apparirà “buono”, se lo si circonda di pezzi di merda al 100%, ma il realismo – della storia, dell’ambientazione, delle vicende in cui i personaggi si trovano convolti –  va a puttane.

Nella realtà – del mondo reale o della pagina – non esistono individui o personaggi cattivi, non esistono cioè figure che amano compiere il male per il puro piacere del male (e, se pure esistessero, sarebbero dei malati da cui non ci sarebbe nulla da imparare nel mondo reale e nulla da rappresentare nel mondo della pagina).

Tutti hanno le loro buone ragioni per fare quel che fanno, per dire quel che dicono e pensare ciò che pensano, e il gioco dell’empatia sta nell’aderire allo stato d’animo di un determinato personaggio (di regola, il protagonista) lasciando sullo sfondo – ma sempre intravedendole – le buone ragioni di tutti gli altri.

Ma se i cosiddetti “cattivi” diventano dei cattivi perché sì – cattivi solo ed esclusivamente per far sembrare buoni gli altri – la storia implode, perché incapace di risuonare con i più elementari stati d’animo del lettore-spettatore.

Il Padrino offre un esempio di estrema raffinatezza nel concepire i cosiddetti “cattivi”.

Si parte del presupposto che – nell’immaginario collettivo – i mafiosi sono già percepiti abbastanza “cattivi”, e quindi non serve calcare la mano più di tanto, perché c’avrà già pensato lo spettatore – con il suo settaggio standard – a conferirgli connotazioni fosche e cupe: il mafioso nasce già cattivo, nella percezione dello spettatore, quindi l’autore è per così dire “sgravato” dall’onere di farlo sembrare tale.

Piuttosto ci si dovrà preoccupare di attenuare la tendenza all’esagerazione implicita nel settaggio standard, come effettivamente viene fatto a più riprese.

A me non me piace la violenza, Tommy: sono un uomo d’affari e il sangue costa troppo”, sentiamo dire a Virgil Sollozzo.

A’ pistola lasciala. Pigliami i cannoli” è il bonario suggerimento di Peter Clemenza.

Tanto basta a recuperare quel minimo di umanità che occorre, ad aggiustare una visione delle cose che rischia di essere deviata da un’immaginazione povera.

I mafiosi saranno pure… mafiosi, d’accordo; ma rimangono persone ragionevoli, che vogliono – per così dire – “vivere in pace”, e a cui sicuramente non piace trovarsi in situazioni in cui si è costretti a “calcare la mano”.
 
Quindi – con un tocco di gran classe – non solo non vengono esasperati i lati cattivi di chi circonda Don Vito Corleone (perché non c’è n’è bisogno) ma addirittura vengono in parte smorzati per ricondurli alla realtà delle cose.

Don Vito Corleone appare particolarmente buono, in un ambiente sì malavitoso, ma non illogico o irrazionale, e comunque con tratti di umanità ben riconoscibili. È questo “senso della misura” – sapientemente realizzato – che permette allo spettatore di restare incollato alla storia.

Dopodiché, però, le dinamiche tra famiglie mafiose sembrano sfuggire di mano a tutti e conducono laddove nessuno avrebbe voluto. Non c’è da meravigliarsi: non accade così anche nel mondo reale, tra persone cosiddette “civili”? Gli eventi che condussero alla Prima e alla Seconda Guerra Mondiale sono un esempio di meccanismi che, una volta avviati, funzionano da sé e non possono più essere arrestati da nessuno, individualmente, sebbene tutti vogliano evitare l’esito tragico.

Le cose sono sfuggite di mano, tra le famiglie mafiose. Ci sono stati dei morti, troppi morti, più di quanti delle persone ragionevoli ne possano sopportare, e perciò ora bisogna sedersi attorno a un tavolo per bloccare un meccanismo che altrimenti finirà col travolgere tutti. 

Il meeting tra i capifamiglia mafiosi.
 
Ci sono da cogliere due passaggi generali – “di inquadramento”, che fanno da sfondo a tutto – prima di entrare nel merito delle specifiche dinamiche tra i personaggi.

Il boss a capotavola, nel riepilogare i fatti e indirizzare una possibile soluzione, conclude con un emblematico “dopo tutto non siamo comunisti”.

Siamo in America, nel 1945, immediatamente dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Il grande nemico – il nemico per eccellenza, ciò di cui si deve realmente aver paura, quel che va sul serio combattuto con tutte le forze – non è uno Stato, un’organizzazione, o un singolo individuo. Ciò che terrorizza – e va contrastata – è un’ideologia: il comunismo. Gli unici, veri, autentici nemici sono loro: i comunisti.

E il boss a capotavola ci tiene a precisare che, dopo tutto, loro non sono comunisti. Lo dice agli altri boss, ma implicitamente lo dice a tutti gli spettatori, trasmettendogli così un messaggio neanche troppo subliminale: gli unici nemici sono i comunisti, noi non siamo comunisti, e quindi non avete nulla da temere da noi. Si prendono le distanze da un’ideologia nemica delle “persone civili”, e quindi, indirettamente, ci si avvicina alla “società civile”. Quelle persone sedute intorno al tavolo – quei mafiosi – se non proprio figure familiari, di sicuro non sembrano più così lontane.

Non solo. Uno dei boss manifesta le sue preoccupazioni per eventuali ritorsioni future da parte di Don Vito Corleone, che ora si sta mostrando ragionevole, ma un domani – se dovessero mutare i rapporti di forza – potrebbe fargliela pagare. Vuole delle garanzie, a tutela della sua posizione, ma il boss a capotavola lo liquida – un filo scocciato – con una battuta che restituisce la labilità del confine tra bene e male. “Siamo tutte persone ragionevoli, non dobbiamo mica dare garanzie come fossimo avvocati”.

Qui, a questo tavolo, siamo tutte persone ragionevoli. Mica avvocati, che pretendono garanzie. È una battuta meravigliosa, che ribalta la percezione comune, la confonde e la fa traballare, e induce a ripensare alle categorie di bene e male, di giusto e sbagliato.

L’avvocatura è una professione ordinaria, legittima, parte costitutiva del sistema giudiziario e più in generale della società civile, che richiede studi universitari, formazione sul campo, praticantato, e sottoposta a una precisa regolamentazione. Eppure questi signori avvocati sembrano incapaci di rapportarsi l’uno all’altro – per la difesa dei propri clienti – senza richiedere continuamente delle garanzie. E chiedono garanzie perché – al fondo – sanno bene di essere uno più figlio di puttana dell’altro, perché – alla fine – non aspettano altro che fottere l’altro in quell’unico punto dove lo sventurato non ha chiesto garanzie. Che bel mondo!

Noi, qui, invece, non abbiamo bisogno di garanzie. Perché noi siamo persone ragionevoli. Mica avvocati.
 
Questi mafiosi – occorre ammetterlo – non fanno più così paura.

E quel che vediamo – su questo sfondo – è un Don Vito Corleone di un’ammirabile saggezza e lungimiranza.
 
“Come ha fatto la situazione a sfuggirci di mano? Io non lo so.
È tutto così miserabile, così inutile.
Io sono disposto a che le cose ritornino com’erano prima.
Quando mai mi sono rifiutato ad un accomodamento?
Tutti voi mi conoscete.
Quando mai mi sono rifiutato? Solamente una volta. E perché?
Perché questo affare degli stupefacenti, un giorno ci distruggerà, credetemi.
Non è un affare come il gioco, i liquori o le donne,
che è tutta roba che molta gente cerca oggi,
e che è solo proibita solo da pezzi da 90 della Chiesa.
Perfino la polizia, che in passato ha chiuso un occhio per il gioco e per il resto,
si rifiuterà di aiutarci, se ci buttiamo nei narcotici.
Ecco, io speravo che riunendoci qui si potesse ragionare,
e sono sempre pronto a fare tutto quello che è necessario
per trovare una soluzione pacifica a questi problemi”
 
Don Vito Corleone è proattivo: è da lui che è partita l’iniziativa di organizzare il meeting con gli altri capifamiglia, per riprendere il controllo di una situazione sfuggita di mano; è lui che si mostra “disposto a che le cose ritornino com’erano prima”.

Però mantiene i suoi dubbi, le sue perplessità, sulla scelta di entrare nel business degli stupefacenti, per quanto possa essere redditizio nell’immediato, perché alla lunga non può reggere, perché “un giorno ci distruggerà” e “perfino la polizia si rifiuterà di aiutarci”.

Non fatichiamo a schierarci dalla parte di Don Vito, nell’America di metà anni ’40 del secolo scorso, sapendo come sono poi andate le cose: sesso, alcol e gioco d’azzardo – nel nostro animo – sono divertimenti tutto sommato leciti, anche quando condotti borderline, perché comunque mai realmente suscettibili di pregiudicare la tenuta della società.

Ma le cose cambiano, se parliamo di droga. Lo dice anche uno dei mafiosi al tavolo, sebbene in modo strumentale alla sua tesi. “Pure io sono contrario alla droga. La droga deve essere controllata come un’industria per mantenerla rispettabile. Non la voglio vicino alle scuole, non la voglio in mano ai bambini. Questa è un’infamità”.
 
La lungimiranza di Don Vito – “un giorno ci distruggerà” – diventa un segno distintivo di competenza: lui sa come condurre i propri affari in sicurezza, lui ha trascorso la vita a “prevedere ogni pericolo”, la droga la vede come un rischio eccessivo – come noi sappiamo che effettivamente è – e ora, se non altro, è riuscito a mediare.
 

“Tu parli di vendetta, ma credi che la vendetta ti restituirà tuo figlio, o mio figlio a me?
Io non voglio vendicare mio figlio ucciso.
Vi prometto e vi giuro, sulla testa dei miei nipotini,
che non sarò io il primo a rompere la pace stipulata oggi”
 
Dagli affari, poi, si slitta sul piano personale.

Vediamo un Don Vito Corleone con un pieno dominio di sé, nonostante il dolore per la perdita del figlio. “Credi che la vendetta ti restituirà tuo figlio, o mio figlio a me?”.

È un’osservazione se vogliamo ovvia, ma che rischia di sfuggire, quando ci si ritrova in una spirale di odio reciproco. Non sarà la vendetta a restituirci i nostri figli, perché alla fine i nostri figli, ormai, non ce li può più restituire nessuno. Ma – a un livello al tempo stesso più profondo e pragmatico – non sarà la vendetta a sistemare le cose in cui ora tutti noi ci troviamo coinvolti, da vivi. La vendetta può solo aggravarle. Ecco perché “io non voglio vendicare mio figlio ucciso”, perché – appunto – non voglio peggiorare una situazione che si è già fatta parecchio complicata.

Quindi – statene certi – “non sarò io il primo a rompere la pace stipulata oggi”.

Don Vito Corleone non è solo un personaggio competente e proattivo. Don Vito Corleone è un uomo eccezionale.
    

Non approvo, ma capisco

Ci è stato insegnato che in una società civile, evoluta, nessuno può farsi giustizia da sé, meno che mai con l’uso della violenza.
 
L’amministrazione della giustizia è una prerogativa esclusiva dello Stato, delle sue istituzioni, dei suoi apparti formali, burocratici e operativi: codici, tribunali, giudici, avvocati, gradi di giudizio, corpi di polizia, carceri, sentenze; e da qui che passa – che deve necessariamente passare – la giustizia.

E anche se a volte le leggi appaiono ingiuste, se pure talvolta le sentenze sembrano contrarie al senso comune, e per quanti errori giudiziari si possano esibire, per quante storture e devianze si possano registrare nella macchina della giustizia – che alla fine è pur sempre composta da uomini, per loro natura fallibili – il punto alto e generale rimane: in una società civile, evoluta, nessuno si fa giustizia da sé, tutti si affidano allo Stato, perché – se non proprio in tutti i singoli casi – sicuramente in aggregato, macroscopicamente, il sistema funziona.

Questa è la nostra cultura, questo è il sistema di valori a cui siamo stati educati e in cui crediamo, rispetto al quale ci formiamo un’opinione – di assoluzione o condanna – nell’osservare il comportamento di chi ci sta intorno: nessuno, nella nostra società, giustifica il ricorso a una giustizia privata, perché la nostra società – civile, evoluta – affida allo Stato, e solo allo Stato, il compito di appurare le colpe e di stabilire le eventuali pene, e nessuno può arrogarsi il diritto di sovrascrivere l’architettura istituzionale, per quanto grande sia il torto che ritiene di aver subito, per quanto grande sia il dolore che gli è stato causato.

Noi – persone civili, evolute – la vediamo così, e non saremo mai disposti a mettere in discussione questa nostra visione del mondo, che consideriamo un punto fermo nell’evoluzione della vita sociale.

Tutto giusto, tutto vero. Eppure… 
   
 
Il secondo episodio della trilogia Il Padrino ci riporta indietro nel tempo, agli arbori, all’infanzia di Don Vito Corleone, quando non si chiamava ancora così, quando era semplicemente Vito Andolini.

Lo conosciamo in un momento triste: la processione per il funerale del padre, nelle campagne di un paesino della Sicilia. Già questa, da sola, è la più classica delle sofferenze ingiuste – un bambino che perde prematuramente il padre –  accentuata dal fatto che si tratta di un regolamento di conti all’interno della piccola mafia locale.

Non solo. Durante il funerale – un momento comunque solenne, da rispettare – viene compiuto un secondo omicidio, e stavolta ad andarci di mezzo è il fratello maggiore di Vito, ancora ragazzino, per mano dello stesso clan che ha ucciso il padre.

A capo di tutto questo orrore c’è il boss del paese, Don Ciccio. La madre di Vito si presenta nella sua bella casa, si inginocchia, bacia le mani in segno di rispetto. Ricorda quel che è successo – l’omicidio del marito, perché non si voleva piegare; l’omicidio del figlio più grande, perché aveva giurato vendetta – e supplica di risparmiarne almeno Vito, l’unico affetto che gli è rimasto  (“ha solo 9 anni, è un’anima innocente, e non parla, non apre mai bocca”). Ma Don Ciccio resta fermo nelle sue convinzioni, insensibile: quel ragazzino, ora, magari non è un pericolo, ma domani chissà, e a nulla valgono le suppliche della madre (“tu con un soffio l’abbatti… lo mando fuori, lontano dal paese… fatemi la grazia, vi giuro che non farà niente, lasciatemelo”). Don Ciccio pretende che il ragazzino resti con lui, che cresca con lui, affinché sia educato a dovere, e non rappresentare mai un pericolo, per quanto remota sia l’eventualità.

La madre lo fa scappare, il piccolo Vito corre via, e si scatena una “caccia all’uomo” – anzi, “al bambino” – che lascia sgomenti. Gli scagnozzi di Don Ciccio fanno il giro del paese, intimando – a chi nasconde Vito – di consegnarlo immediatamente, se non si vogliono conseguenze peggiori, se si vuole preservare “la stima di Don Francesco”. Niente da fare. Vito non si trova.

Una giovane coppia, all’alba, lo nasconde dentro un carro, e lo porta via, lontano. Lo ritroviamo a bordo di una nave, direzione America.

Noi saremo pure persone civili ed evolute, consapevoli che la giustizia passa di necessità per vie formali, e che non può esserci vera giustizia al di fuori di quelle vie, ma quel che abbiamo visto ci fa ribollire il sangue e ci contorce lo stomaco, perché pigia sui nostri stati d’animo più primordiali.

Questa storia non può – non deve – finire così.
 
 
 
Passa il tempo, e il piccolo Vito Andolini diventa un uomo, diventa Don Vito Corleone, il Padrino.

Vive in America praticamente da sempre, è lì che ormai ha la sua vita, la sua famiglia e i suoi affari, il suo business (anzi bisiniss, come dicono i siciliani emigrati).

Ma non dimentica da dove viene.
 
Non può – non vuole, non deve – dimenticare.


Qualcuno – secondo me, in molti – avranno approvato appieno il gesto del piccolo Vito divenuto Don Vito, e allora non serve aggiungere altro.

Ma anche chi lo abbia stigmatizzato – perché un omicidio rimane pur sempre un omicidio, quindi un atto sbagliato, da censurare – ha comunque capito: ha capito perché Don Vito ha fatto quel che ha fatto, tanto più che questo è uno dei due soli atti realmente estremi che vedremo commettergli.
 
E qual è, invece, il primo omicidio di Don Vito? Quello dell’odioso boss del quartiere, detestato da tutti, di cui tutti si sarebbero voluti liberare, e di cui tutti sono grati a Don Vito per aver avuto il coraggio di farlo, come conferma la scena immediatamente successiva – quando la voce si è evidentemente  sparsa – col fruttivendolo che lo omaggia delle arance e insiste affinché le accetti in regalo.

E qual è la prima azione di Don Vito Corleone, nel suo nuovo ruolo di boss del quartiere? Un’azione buona, un’azione giusta: far riavere la casa a una vecchia signora a cui il proprietario non voleva rinnovare l’affitto, adducendo la scusa che il suo cane dava fastidio. Dopo una prima trattativa andata male – durante la quale si ha modo di apprezzare la grande generosità di Don Vito –  non solo la signora rimane in casa, non solo può tenere il cane, ma – grazie a Don Vito – il proprietario le accorda pure uno sconto notevole, senza bisogno che Don Vito dica una parola.
 

In definitiva, per quanto possiamo essere civili ed evoluti, tutti noi capiamo, e facciamo nostre, le ragioni di Don Vito Corleone.
 
E questo è ciò che ti è richiesto, da autore: far capire perché il tuo personaggio fa quel che fa, dice quel che dice, pensa quel che pensa.
 

Don Vito vs Michael: facile, no?

Diego Armando Maradona.


 
Roberto Baggio.
 
 
 
George Weah.

Facile, no? Prendi la palla, corri verso la porta avversaria, superi i giocatori dell’altra squadra quando ti si parano davanti, e appena pensi di esserti avvicinato abbastanza, tiri e fai goal. Che ci vuole?

Già. A vederlo fare a loro – a Maradona, a Baggio, a Weah – sembra il gesto più naturale del mondo. Ma prova a farlo tu, se ne sei capace. Non solo non ci riuscirai, ma non sarai neppure in grado di immaginare una cosa simile, di concepire anche solo l’idea di percorrere il campo in solitudine, palla al piede, come se i compagni non esistessero. E non sei in grado di immaginarlo perché sai bene di non essere nelle condizioni di farlo.
 
Lo stesso avviene con l’empatia verso un “cattivo” (un mafioso, ad esempio).
 
Quando è realizzata a regola d’arte – quando ci troviamo a capire le sue ragioni, le ragioni di un mafioso ad esempio – sembra una costruzione semplicissima da realizzare: è tutto così spontaneo, naturale, fluido, o almeno così sembra. Che ci vuole?
 
Già. Prova a farlo tu, allora. E quando provi tu, senza riuscirci, ti rendi conto di quanta arte, finezza, precisone, riflessione e fatica stanno dietro a quell’esito così naturale.
 
La costruzione del personaggio di Don Vito Corleone è un capolavoro alla stregua dei goal di Maradona, Baggio e Weah: dovrai accontentarti di ammirarli, perché replicarli sarà oltre le tue capacità, per quanto tu possa allenarle.
 
Qui – a chiudere – voglio farti osservare il giro di vite finale che è stato dato all’empatia verso Don Vito, in modo riflesso: lo stile sanguinario del suo erede, Michael Corleone.
 
Michael – al principio – viene presentato come un figlio che vuol tenere le distanze dal padre, sebbene ne capisca le ragioni (“mio padre non è diverso da qualunque altro uomo di potere”); Michael è una persona “per bene”, diremmo noi; poi, però, gli eventi lo portano a capo dell’organizzazione mafiosa, e qui avviene la sua trasformazione, che rivela chi sia il vero protagonista dell’intera storia.
 
Il titolo “Il Padrino” indirizza la nostra attenzione verso Don Vito Corleone, perché è lui, Don Vito, il Padrino per eccellenza. Ma il protagonista di una storia – ormai dovresti saperlo – non è necessariamente il personaggio su cui sono puntati i riflettori, bensì il personaggio chiamato a un cambiamento, il personaggio che affronta l’arco di trasformazione. E Don Vito non cambia, o almeno non in maniera così pronunciata da giustificare il ruolo di protagonista, anche perché è così vecchio e saggio da non avere poi così tanti spazi di trasformazione.
 
Il protagonista della trilogia è Michael Corleone, il figlio di Don Vito, sulle prime distaccato dalla logica e dalle dinamiche mafiose, ma poi nuovo capo dell’organizzazione, il nuovo Padrino. E il ruolo di Don Vito – dal punto di vista tecnico della sceneggiatura – è nell’indicare a Michael la giusta strada, il corretto stile di comando, fornirgli un modello da imitare, da replicare, che al tempo stesso diventa una sfida: Michael riuscirà a essere all’altezza di suo padre?
 
Estratto da Inside Story, di Dara Marks.
 
L’uomo che risolleva la sorte della famiglia Corleone è il più inaspettato: il figlio Michael, l’unico che si era sempre rifiutato di entrare in quel mondo, ma il più rapido nel prendere l’iniziativa dopo l’attentato al padre, per convincere i fratelli a rispondere con altrettanta violenza.
 
E noi vediamo Michael Corleone scivolare pian piano verso la sua personale tragedia: si illude di controllare il coinvolgimento emotivo, di poterlo ricondurre alla ragione quando vuole, ma una volta sporcatosi le mani di sangue non riuscirà più a lavarle, si ritroverà impossibilitato a rinunciare a quella inebriante sensazione di potere e dominio, ne diverrà dipendente, e così scenderà in quell’inferno che sino ad allora lo aveva disgustato.
 
Finirà vittima di un travisamento tragico degli insegnamenti del padre, e andrà incontro a una realtà progressivamente più vuota e desolante.
 
Estratto da Inside Story, di Dara Marks.
 
Noi vediamo Michael Corleone mettere tutto sé stesso per diventare un autentico leader mafioso, e assistiamo a numerosi apparenti successi che restituiscono la sensazione immediata di un potere in continua crescita; ma capiamo anche che è sempre più isolato, che si sta trasformando negativamente, che le vittorie esteriori sul mondo circostante non corrispondono a un sano sviluppo interiore – come era avvenuto per suo padre, Don Vito – per l’accentuarsi del suo disinteresse verso le più elementari relazioni umane.
 
Sarà ormai troppo tardi, quando comincerà a intravedere i propri errori di valutazione nel definire le priorità della vita. Afferma di voler diventare un onesto uomo d’affari, di voler riportare il suo agire all’interno della legalità, ma è una buona intenzione che viene perseguita – ancora una volta – con atteggiamenti e metodi mafiosi, gli unici che conosce.
 
Michael sta raccogliendo ciò che ha seminato, perché non può fare altro. Ha basato la vita sul dominio con la forza bruta, sull’inganno e l’intolleranza, e quando muore – dopo aver visto la morte della figlia ed essersi salvato da un attentato –  è triste e solo. Non ha nessuno accanto, non un’anima a preoccuparsi per lui, o ad addolcire quel momento, com’era invece accaduto a suo padre, Don Vito, che se n’era andato giocando col nipotino.
 
La morte triste e solitaria di Michael Corleone.
 

La storia – la vita – di Michael Corleone ci restituisce una lezione sulla nostra vita, ci dà la comprensione profonda di come si svolgerà il nostro dramma se, come il protagonista, ci rifiuteremo di mettere tutto l’impegno necessario per superare quegli ostacoli che ci sfidano a crescere, a raggiungere una genuina e totale realizzazione personale.
 
Estratto da Inside Story, di Dara Marks.
 
Citando Marco Carrara, il celeberrimo Duca di Baionette:
 
Come sarebbe stato Il Padrino senza la discesa morale del protagonista, sempre più in basso, da eroe di guerra ad assassino del proprio stesso fratello?

È quella lealtà che porta al crimine a essere il centro dell’opera, fino a quando la fedeltà alla famiglia (nel senso mafioso) porta alla distruzione della famiglia (nel senso dei parenti), abbinando alla premessa iniziale una deliziosa atmosfera di fallimento del protagonista come Uomo, nonostante l’apparente successo come Padrino.

E anche quella sensazione di fallimento si sentiva da molto prima, da quando il padre Don Vito gli dice di essere soddisfatto di quello che ha fatto nella propria vita e che ora tocca a lui continuare a rendere grande la famiglia. Era annunciato e si costruisce lentamente. Come nelle grandi tragedie greche o di Shakespeare.

Il fallimento completo di un personaggio che vive all’ombra del padre, i cui successi sono stati più modesti, ma sono anche stati molto più chiari e privi di rimpianti. Michael vive l’essenza della tragedia moderna, la perdita dello scopo nella vita e il fallimento umano
”.

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