Modulo 24N – Costruzione di un profilo caratteriale: il giocatore 218 della serie tv “Squid Game”


Sistemi valoriali a confronto: 456 vs 218

Il giocatore 218 è l’altro finalista del gioco, uno dei tre personaggi – insieme al 456 e al Front-Man – che vediamo per tutte le 9 puntate della serie, e che ci offre lo spunto per alcune osservazioni generali, prima di addentrarci nell’analisi del suo profilo caratteriale.
 
Chi sono il protagonista e l’antagonista di Squid Game?
 
Domanda piuttosto impegnativa.
 
Il protagonista – detto alla buona – è il personaggio che più visibilmente degli altri è sottoposto al “giusto cambiamento”, a un cambiamento che gli consente di preservare la posta in gioco. L’antagonista – per contro – è il personaggio (o l’insieme di personaggi, potenzialmente anche un luogo) che ostacola il cambiamento del protagonista, o lo induce a cambiamenti errati, per indurlo a rinunciare alla posta in gioco.

Verrebbe quindi da dire che i protagonisti sono i giocatori e l’antagonista è tutta la giostra con i suoi vari rappresentati (VIP, Front-Man, soldati, reclutatore).

L’argomento porterebbe lontano a volerlo sviluppare a modo (qual è la posta in gioco, per cosa stanno lottando i giocatori?) e ci allontanerebbe dall’oggetto del modulo (il profilo caratteriale del giocatore 218).

Quel che rileva è la presenza di un conflitto macroscopico tra protagonista e antagonista (i giocatori contro la giostra) e di un conflitto più circoscritto tra giocatori, all’interno del gioco, che non è solo e banalmente di natura fisica o intellettiva, ma soprattutto valoriale.

Qual è l’atteggiamento “giusto” da tenere dentro la giostra? E cosa vuol dire “giusto”? Chi decide cosa è “giusto” e cosa no, in un simile contesto?
 
A discuterne come si dovrebbe si finirebbe di nuovo col divagare, con l’affrontare argomenti di per sé interessanti, ma disallineati rispetto all’obiettivo.

Mettiamola così: il comportamento “giusto” è quello che consente – quanto meno – di essere tra i finalisti del gioco, o di portare alla fine del gioco coloro che si ritengono meritevoli della vittoria.

E chi arriva all’ultimo gioco, sino allo squid game? I giocatori 218 e 456. Sono loro, il 218 e il 456, a contendersi il montepremi, affrontandosi nel gioco del calamaro, e sono arrivati fin lì – hanno tenuto il comportamento “giusto” – obbedendo a due sistemi valoriali speculari.

Il 456 c’è arrivato attraverso un processo di trasformazione che da individuo inetto, incurante e a tratti approfittatore (come ci viene presentato nel primo episodio, fuori dal gioco, a costo di perdere qualcosa in empatia) lo ha portato a diventare un’anima attenta e premurosa, pronta al sacrificio: la giostra lo ha cambiato “in meglio”.

Il 218 – per contro – c’è arrivato attraverso un processo di trasformazione che ha mutato un individuo della “buona società” – uno che ha studiato, l’orgoglio del quartiere, con un impiego eccellente nel mondo della finanza – in un’anima feroce e sanguinaria: la giostra lo ha cambiato “in peggio”.

Nell’ultimo gioco – il calamaro – assistiamo allo scontro finale tra due sistemi valoriali, e il fatto che i due sistemi si incarnino in due personaggi che sono amici d’infanzia, ma con un vissuto sino a quel momento opposto, dona una poesia particolare allo scontro, come se fossero due parti di una stessa anima, ora chiamate al momento della verità.

La differenza strutturale tra il 218 e il 456 è comunicata già al momento delle foto per il censimento dei giocatori (vediamo un 218 serio e impassibile, e un 456 allegro e sorridente); viene chiarita in uno scambio di battute al rientro dal gioco della bambola (col 456 in balia dei ricordi e il 218 che lo richiama a un brutale pragmatismo); e infine la si riassume in un nuovo scambio di battute in prossimità del gioco finale (col 456 che ricorda al 218 come la loro diversa personalità, il loro vissuto opposto, li ha comunque condotti nello stesso luogo).
 

La diversità di espressioni facciali lascia presagire differenze profonde tra il 218 e il 456.

 
 
Giocatore 456: “Te lo ricordi? Alle elementari avevamo una stufetta a carbone in mezzo alla classe:
ci mettevamo i portapranzo e… diventavano bollenti!”
Giocatore 218: “Invece di pensare ai ricordi, prova a capire quale sarà il prossimo gioco”
 
 
 
Giocatore 456: “Hai ragione: è colpa mia, se sono finito così. Io sono stupido, e anche incompetente.
Sono un poveretto che vive ancora alle spalle di sua madre, hai ragione, sono un fallito.
Però… perché mai il genio e l’orgoglio dell’Università di Seul
è in questo buco di merda, insieme a un fallito come me?”
 
Quest’ultima battuta del 456 ha un significato che trascende lo scontro diretto col 218 e trasmette un messaggio generale: tutti, ma proprio tutti, possono ritrovarsi dentro la giostra.

La giostra non è un luogo popolato da individui che si sono per così dire “auto-selezionati”, come può esserlo ad esempio un carcere, in cui si trovano solo persone che di sicuro hanno compiuto delle azioni oggettivamente sbagliate.

Al contrario, tutti possono ritrovarsi in un percorso di vita che li condurrà dentro la giostra, e in effetti noi vediamo rappresentate tutte le classi sociali: c’è il manager dell’alta finanza (218) e il disoccupato che vive d’espedienti (456); ci sono il delinquente, l’immigrato e la rifugiata politica (101, 199, 67); c’è un chirurgo (111), un professore di matematica (62) e un vetraio (17); ci sono due ragazzini (250 e 324) e poi una coppia, marito e moglie, come tante altre (69 e 70).

Tutti possono ritrovarsi dentro uno Squid Game. Nessuno – là fuori, nel mondo reale – è al sicuro.
 

Il giocatore 218: egoista, ma non solo, e anche no



Egoismo: possiamo distillare in questa parola – egoismo – il tratto caratteriale dominante del giocatore 218.

Il giocatore 218 è egoista, pensa solo a sé e si preoccupa solo di sé, come se la sua vita valesse oggettivamente più di quella degli altri, e ogni azione per salvaguardarla fosse quindi legittima e giustificabile, per quanto scorretta, subdola o violenta.

Il giocatore 218 è un egoista, d’accordo.

Ma sai qual è il marchio del dilettante, quando si ritrova a forgiare un personaggio? Concentrarsi solo ed esclusivamente sul tratto dominante e dimenticare gli altri – come se il personaggio fosse egoista e nient’altro che egoista – e magari senza neppure adombrare una giustificazione a quel tratto caratteriale, cosicché il personaggio diventa una macchietta, un puro e semplice egoista perché sì, senza ragione.

Squid Game – per contro – è popolato da personaggi profondi e credibili, in una parola tridimensionali, e il giocatore 218 ne è una manifestazione particolarmente significativa.

Il giocatore 218 è egoista, ma oltre a essere egoista – e prima di essere egoista – è tante altre cose, tutte ben comunicate.

Sicuramente è intelligente e determinato, perché sennò non sarebbe riuscito a chiamarsi fuori dal suo originario ambiente sociale, a laurearsi tra i migliori della sua classe e a diventare un leader in una società di investimenti finanziari. Il 456 ne tesserà le lodi a più riprese, lo presenterà a tutti come l’uomo che è riuscito nella scalata sociale (che qui assume un significato particolare, se si ha presente che in Corea vige ancora la divisione della popolazione in caste, che la famiglia di provenienza è indice del ruolo di una persona nella società, e perciò il 218, col suo emergere dal contesto nativo di povertà, è l’eccezione che ha spezzato il sistema).

Della sua intelligenza ne abbiamo chiare e diverse manifestazioni all’intero dei giochi: ad esempio quando – in un ambiente in preda al panico, dopo il gioco della bambola – mantiene il sangue freddo per ricordare a tutti che la clausola 3 consente di porre fine ai giochi, se la maggioranza è d’accordo; o quando inferisce correttamente lo scopo del gioco delle formine, venendo a sapere dalla giocatrice 67 che i soldati stavano bollendo dello zucchero; e poi nel gioco alla fune, quando ha la brillante intuizione di far compiere a tutti tre passi avanti – una scelta peraltro coraggiosa – per sbilanciare e far cadere l’altra squadra.
 
C’è di più. Il 218 è egoista, sì, ma non è un egoista perché sì, sempre e comunque, anche quando non c’è motivo per esserlo. Quando non si sente minacciato, nelle situazioni di (relativa) normalità, si mostra amichevole, sensibile, coraggioso, e addirittura altruista, in particolare con il giocatore 199, con cui finisce per sviluppare una connessione emotiva.
 

 Il 218 regala del denaro al 199, per consentirgli di prendere un autobus per tornare a casa.
 
 
 
Il 218 offre la sua colazione al 199.
 
 
 
Il 218 difende i suoi amici, durante una guerriglia notturna.

 
 
Il 218 suggerisce al 199 di nascondere la mano menomata,
per non essere discriminato nella formazione delle squadre.
 
Questo è – prima di tutto, prima di essere egoista – il giocatore 218.

E perché – poi – diventa egoista? Cosa c’è all’origine della sua incapacità di vedere oltre sé stesso? Come si spiega il suo comportamento?

Il 218 – come succede a tanti manager del mondo della finanza – si è lasciato prendere la mano: ha sottratto del denaro dai conti dei propri clienti, con l’idea di speculare in contratti derivati, guadagnare grosse cifre e poi rimettere a posto le somme prese silenziosamente a prestito; solo che la sua scommessa si è rivelata perdente, così ha dovuto raddoppiare la puntata per recuperare, cioè ha dovuto continuare a usare impropriamente il denaro dei clienti, ma ha finito con l’accumulare perdite sempre più ingenti, sino a dover ipotecare la casa e il negozio della madre, per tenere aperte le posizioni sul mercato finanziario; ora la sua insolvenza è conclamata ed è ricercato dalla polizia.

Vive una situazione oggettivamente complicata da sbrogliare, ma soprattutto deve fare i conti con un senso di colpa che lo sta divorando: sente tutto il peso delle sue azioni sbagliate, si vergogna di ciò che ha fatto, dei debiti che ha accumulato, ma anche del cumulo di bugie che ha dovuto raccontare alla madre, da sempre così orgogliosa di lui.

Il 218 avrà pure commesso degli errori – ma chi non ne ha mai fatti in vita propria, chi non è mai stato attratto dalla prospettiva di un guadagno facile? – e però non è un delinquente insensibile a tutto, col solo obiettivo di salvare il proprio culo, e nessun’altra preoccupazione. Non vuole finire in prigione – ovvio: chi lo vorrebbe? – ma la sua disperazione è reale e va ben oltre la perdita della libertà personale, come viene perfettamente comunicato – nel secondo episodio – nella scena nella stanza del motel, dove è a un passo dal suicidio.

C’è una tutta una complessità, intorno alla vita del 218, che magari non ci consentirà di giustificare ciò che gli sentiremo dire e gli vedremo fare, ma sicuramente ci permette di capire perché dice e fa certe cose, e questo è tutto ciò che è richiesto per avere un personaggio tridimensionale: capire perché.  
 

Egoismo step-by-step

L’egoismo finirà con l’essere il tratto qualificante del giocatore 218: lo vedremo prendere progressivamente le distanze da chi gli sta intorno, attenuare i suoi legami affettivi con gli altri giocatori, per poi smarrire il senso della vita, e divenire spietato pur di vincere, in un percorso di disumanizzazione graduale ma ben percepibile, mai forzato e comunque spiegabile, che proprio per ciò colpisce e rimane impresso.

La bambola: sfrutta gli altri

Giocatore 218: “Non girarti e ascoltami. Se resti così morirai.
Credo che la bambola abbia un sensore di movimento. Mettiti dietro qualcuno e sarai salvo”
 
Siamo nel mezzo del gioco della bambola, nei momenti successivi all’esatta comprensione da parte dei giocatori di cosa voglia dire “essere visti in movimento”, e quindi “eliminati”.

Nessuno è ancora a conoscenza dell’entità del montepremi, ma tutti hanno capito che essere beccati in movimento significa morire.

E qui inizia a manifestarsi l’egoismo del 218, in una forma massimamente coerente con la situazione.

Non sapendo ancora nulla dei 45,6 miliardi di won in palio, il 218 non ha motivo di non venire in soccorso del giocatore 456, suo fraterno amico. Ma il modo con cui lo fa, il consiglio che gli rivolge, tradisce una sfaccettatura del suo egoismo. “Mettiti dietro qualcuno e sarai salvo”.

Già. Mettiti dietro “qualcuno”, sfrutta “qualcun altro”, lascia che sia lui, un anonimo “qualcun altro”, a farti da scudo per l’intero tragitto. E sarai salvo. Non pensa che “qualcuno” è anche lui un essere umano, una vita da rispettare. “Qualcuno” è solo uno strumento – quasi un oggetto – funzionale alla tua sopravvivenza. Manda lui – il Signor “Qualcuno” – a morire al posto tuo.

Si opera così una prima cesura: da un lato le persone che si hanno a cuore, delle quali ci si preoccupa, e dall'altro tutte le altre, di cui ci si strafotte sovranamente. Che è esattamente il principio dell’egoismo, dell’incapacità di percepire le ragioni degli altri (chiunque essi siano).

Non è un caso se, nel gioco della bambola, assistiamo anche a un episodio di segno opposto, con cui viene implicitamente rimarcato l’egoismo del 218: il giocatore 199 blocca la caduta accidentale del 456, e lo tiene immobile per tutto il tempo necessario affinché la bambola si volti.

Eppure il 199 non conosceva il 456, non aveva idea di chi fosse, ma gli ha comunque salvato la vita – correndo il rischio di perdere la sua – perché sentiva che era la cosa giusta da fare, a prescindere.

Egoismo da un lato (218), altruismo dall’altro (199).
 

Le formine: pensa solo a te stesso

Giocatore 456: “Che gioco è?”
Giocatore 218: “Non lo so”
 
La situazione è radicalmente diversa, in prossimità del gioco delle formine. Ora tutti sanno cosa c’è in palio – 45,6 miliardi di won – e i più scaltri hanno capito che non ci sono, non possono esserci, dei veri amici, ma solo alleati da sfruttare fin quando possibile (prima che diventino dei nemici, degli ostacoli verso il montepremi).
 
E qui assistiamo a una virata nell’atteggiamento del 218, ancora una volta coerente con la situazione.

Il 218 si è accorto della scorribanda notturna della giocatrice 67 – il che è già un segnale di quanto sia attento all’ambiente circostante – e la incalza per sapere cosa ha visto, prospettandole la possibilità di intuire il tipo di gioco. L’informazione ricevuta – “bollivano dello zucchero” – non sembra dirgli molto, ma non appena vede le formine nello spiazzale dei giochi, ecco che fa 2+2. Si ricorda di un dolce della sua infanzia che prendeva proprio le forme ora di fronte a lui, e intuisce – il che non è banale – che conviene scegliere la forma più semplice.

Ma questa sua intuizione la tiene per sé – non la condivide con la squadra che si è appena formata con gli altri giocatori, i numeri 1, 199 e 456 – e per di più suggerisce di dividersi nella scelta, invocando niente meno che un mantra degli investimenti finanziari (“non mettere tutte le uova in uno stesso paniere”, come a dire “scegliamo tutti formine diverse”) e sviando così gli altri dalla scelta più conveniente – il triangolo – che lui si è affrettato a compiere per primo. Finge – sostanzialmente – di pensare in termini di squadra, di gruppo, per cui sarebbe rischioso indirizzarsi tutti verso una stessa formina, quando invece sa bene che il gioco sarà individuale e sarebbe meglio per tutti optare per la formina più semplice .

Qui l’egoismo prende tratti più marcati, ma preserva ancora una dimensione di preoccupazione verso chi ha a cuore. Vediamo un 218 sinceramente in apprensione, quando il 456 sceglie l’ombrello (la forma più complessa). Vorrebbe dirgli qualcosa, sembra sia lì per farlo, ma poi lascia stare e va a mettersi in fila per ritirare la sua formina. Il senso di angoscia ritorna quando l’altoparlante annuncia “il 218 passa”, e il 456 rivolge uno sguardo all’amico: il 218 lo distoglie subito, per l’imbarazzo e la vergogna.

Tutti i giocatori della squadra, alla fine, riescono a superare la prova, e l’espressione di sollievo del 218 nel vederli rientrare nello stanzone ci restituisce la sua consapevolezza di aver compiuto un gran brutto gesto: poteva far sì che il gioco fosse semplice per tutti, e invece ha lasciato ognuno in balia delle sue complessità.

Lo stato d’animo sarà blindato in un rapido scambio di battute col 456, che da un lato manifesta il pentimento del 218, ma dall’altro – vista la replica del 456 – finisce con l’enfatizzare la viltà del gesto.  
 
Giocatore 218: “Scusami: quello di dividerci è stato un errore”
Giocatore 456: “Tranquillo! Non potevi mica saperlo”
 
Non è vero che il 218 non lo sapeva. Aveva capito tutto quel che si doveva capire, ma ha tenuto per sé l’informazione, perché, se non altro inconsciamente, sarebbe stato felice se qualcuno fosse stato eliminato.

Com’è tipico di un animo egoista.
  

Il tiro alla fune: voglio solo chi conviene e me

Giocatore 218: “Chi è stato a portarti da noi? Avevo detto che volevo solo uomini”
 
L’egoismo ritorna nella fase di preparazione al tiro alla fune.

I giocatori – come sempre – non conoscono il gioco; sanno solo di dover giocare in squadra, quindi immaginano di dover affrontare altre squadre, e – nel dubbio – preferiscono far parte di squadre fisicamente forti, il che vuol dire – in pratica – niente donne e persone anziane.

Le indicazioni del 218 al gruppo sono chiare, prima di dividersi per cercare i compagni mancanti – abbiamo già una donna e un uomo anziano, quindi abbiamo bisogno di altri uomini” – e le vediamo coerentemente messe in opera proprio dal 218 (che avvicina un uomo per invitarlo a entrare in squadra, ma poi lo lascia andare quando viene a sapere che lui deve necessariamente giocare insieme alla moglie).

Il punto sarà ribadito a selezione conclusa, quando il 218 si accorgerà della presenza di una donna in più rispetto a quella già inclusa nella squadra. “Avevo detto che volevo solo uomini”.

Come a dire: voglio solo elementi utili alla mia sopravvivenza, perciò o mi sei utile, o altrimenti puoi pure morire; non sono neppure sfiorato dall’idea di poter essere io d’aiuto ad altri, o di poter fare squadra nel senso più nobile; così come non prendo in considerazione il fatto che, forse, gli elementi apparentemente più deboli – le donne – potrebbero essere avvantaggiati (un’eventualità astrattamente possibile, che viene prospettata dal 456) perché “statisticamente gli uomini sono più bravi in più giochi: qui è messa in discussione la nostra vita”, e perciò la discussione finisce qui.
 
Dopodiché, diciamolo, il gioco della fune era iniziato bene – grazie alle indicazioni del numero 1 – ma si era poi messo male e stava evolvendo per il peggio, per essere infine reindirizzato vittoriosamente proprio da un’intuizione coraggiosa del 218.

Ma a gioco finito torna fuori il vero animo del 218. Durante il turno di guardia notturno, il giocatore 199 insiste affinché il 218 accetti una pannocchia da mangiare, come ringraziamento simbolico per avergli salvato la vita con la sua audace strategia, e la risposta del 218 – con un tono d’insofferenza – è rivelatrice di cosa realmente lo abbia animato: “in realtà, ho salvato me stesso”.
 

Le biglie: prevaricazioni, cecità, inganni

L’egoismo del 218 si manifesta in almeno tre modi diversi, nell’intorno del gioco delle biglie: nella fase preparatoria, con la prevaricazione; durante lo svolgimento, con la cecità verso la condizione del compagno-avversario; e infine con la strategia di gioco, basata sull’inganno.

Dopo il tiro alla fune si è rafforzato in tutti i giocatori il desiderio di “fare squadra” con qualcuno di fisicamente forte, robusto, massiccio, ben piazzato. E il 199 sembra proprio il compagno ideale.

Nessuno sa ancora che il gioco non ha nulla fisico, e meno che mai immagina che la propria scelta determinerà l’avversario e non l’alleato, ma tutto ciò ha un’importanza relativa. Per quello che i giocatori conoscono, e che possono ragionevolmente congetturare, conviene stare alla larga da persone fisicamente deboli, come viene esplicitato in uno scambio di battute.

Giocatore 67: “Diciamo la verità: voi non volete né una donna né un anziano
Giocatore 195: “Certo che no! Siamo quasi morti al tiro alla fune

Nessuno vuole donne e anziani, tutti preferiscono un uomo, meglio ancora se giovane e forte: il 199, insomma.

Così, dopo vari momenti di esitazione diffusa, il 456 si rivolge al 199 per invitarlo a fare squadra con lui, ma non riesce a formulare più di mezza frase: il 218 lo interrompe, lo prevarica, si rivolge al 199 con un atteggiamento e un e tono deciso, argomenta che loro due, insieme, saranno una coppia perfetta, un mix di forza fisica (il 199) e capacità di ragionamento (il 218), virtualmente imbattibile, qualunque sarà il gioco.


Giocatore 218: “Gioca con me: possiamo battere quasi tutti gli altri”
 
Il 199 vive alcuni istanti di evidente imbarazzo: lancia uno sguardo al 456, come per chiedere il permesso di allearsi col 218, perché consapevole che il primo invito – seppur morto sul nascere – stava provenendo da lui, dal 456. Ma anche il 218 rivolge lo sguardo al 456, consapevole di averlo prevaricato, e tuttavia deciso a tenere il punto.

Solo quando il 456 dà il via libera al 199 (“non preoccuparti, va bene: voi due farete un’ottima squadra”) scatta l’alleanza: il 199 e il 218 giocheranno insieme.

Giocatore 218: “Non essere nervoso, noi due insieme vinceremo di sicuro”
Giocatore 199: “Ora che sono insieme a lei, penso che potremmo riuscirci”
Giocatore 218: “Sì, vinciamo, e usciamo da qui,
prendiamo i soldi e torniamo dalle nostre famiglie”
Giocatore 199: “D’accordo”
 
Il dramma si manifesta al momento della rivelazione del gioco: sono solo delle biglie, delle stupidissime biglie, da sottrarre al proprio compagno secondo regole che ogni coppia di giocatori può decidere da sé, ma senza contemplare alcuna forma di violenza fisica.

Il 199 è come paralizzato da una situazione totalmente inattesa (non serve nessuna forza e nessuna particolare intelligenza, e il compagno non è un alleato ma l’avversario); il 218, per contro, sta già pensando a come superare il gioco e arriva addirittura a prospettare al 199 di morire al posto suo.

Giocatore 218: “Giochiamo”
Giocatore 199: “Significa che uno di noi dovrà morire”
Giocatore 218: “Allora preferisci che non giochiamo e moriamo insieme?
Oppure, magari, pensi di morire al posto mio?”

Il gioco prende una piega favorevole al 199, che si ritrova a un passo dalla vittoria.

E qui accade un fatto interessante: il 218 viene prima colto da un attacco d’ira (su cui tornerò in seguito con una discussione mirata) a cui segue un repentino pentimento (anche perché un soldato lo richiama all’ordine, puntandogli una pistola alla testa) con toni melodrammatici che sono ancora una volta una chiara manifestazione del suo egoismo.
 
Giocatore 218: “Io non posso morire così.
Se muoio in questo posto, morirà anche tutta la mia famiglia”

Qui serve fermarsi un attimo e tornare indietro, precisamente al turno di guardia notturno svolto insieme dal 199 e dal 218, dopo il gioco del tiro alla fune.

In quel frangente i due giocatori avevano avuto occasione di conoscersi un po’ meglio, e il 199 aveva parlato al 218 della sua famiglia, di sua moglie e suo figlio che lo stavano aspettando.

Ora, di fronte a un gioco delle biglie che lo vede perdente, il giocatore 218 invoca la sua famiglia, e dice di non poter morire così, in questo posto, altrimenti anche la sua famiglia morirà.

Ma anche il 199 ha una famiglia, e il 218 lo sa bene (o pensavi che fosse un caso la loro collocazione in coppia al turno di guardia?).
 
Perché mai la famiglia del 199 dovrebbe valere meno di quella del 218?

Anzi, a un’analisi lucida  e spassionata, si potrebbe arrivare a dire che la famiglia del 199 (una donna giovane e un bambino) “vale di più” della famiglia del 218 (una donna anziana) perché più numerosa e con tutta la vita ancora davanti.

Sono ragionamenti complessi, che rischiano di diventare capziosi, per la materiale impossibilità di commisurare le vite umane a un metro comune; eppure – poco distante – assistiamo esattamente a un esercizio di razionalità estrema, con la giocatrice 240 capace di soppesare nel modo più obiettivo possibile il diverso valore delle vite in gioco, della sua vita in contrapposizione alla vita della giocatrice 67 con cui fa coppia, e di concludere che, sì, la vita dell’altro vale più della sua.

Non è così per il 218, che vede solo sé stesso, che si percepisce diverso (più importante) di tutti gli altri, e a cui ben poco dice la supplica del 199 (“anch’io ho una famiglia”). Perché, sì, anche tu hai una famiglia, certo, ma la tua famiglia – diamine! – non è la mia, quindi non vale quanto la mia, anzi, non ha alcun valore, rispetto alla mia.

Il 218 si caverà d’impaccio con l’inganno – incurante della fairness del gioco, che al fondo esprime il rispetto per la vita dell’altro – sfruttando il suo ascendente sul 199: gli darà a intendere che c’è la possibilità di sopravvivere entrambi, se solo farà quel che lui gli dice di fare, e nella confusione emotiva del momento troverà il modo di sottrargli le biglie e sostituirle con dei sassolini.
 
Voce fuori campo: “Giocatore 199: eliminato”
 
Allo sparo che uccide il 199, la smorfia di dolore del 218  cede subito il posto a uno sguardo assente e glaciale, che diventerà una maschera fissa sino al momento della redenzione.
 
E quando, a gioco concluso, il 456 manifesterà il proprio senso di colpa per la (apparente) morte del numero 1 con cui faceva coppia, l’invito del 218 a “non farne un dramma” – ché in fondo “era soltanto un vecchietto che hai conosciuto qui” – sembra rivolto più a sé stesso che non al 456.
 

Il ponte di vetro: io, prima di tutto, sopra a tutto 

Giocatore 456: “Perché l’hai fatto? Perché l’hai spinto giù? Mi avresti spinto, se fossi stato io?”
 
Nel gioco delle biglie abbiamo assistito a una manifestazione sottile dell’egoismo del 218: una raffinata violenza psicologica, con cui trarre in inganno (e mandare a morire) il giocatore 199.
 
Nel gioco del ponte di vetro, per contro, assistiamo a un comportamento platealmente egoistico: una spinta al giocatore che ha davanti, per sapere quale sia l’ultima lastra giusta (una conoscenza acquisita al prezzo della vita del malcapitato, ma pazienza: perché è tipico di un egoista pensare che la propria vita valga di più di quella di chiunque altro).
 
A gioco concluso, una volta tornati nello stanzone, il 456 incalza il 218, gli snocciola degli oggettivi dati di fatto – ormai si era alla fine, il giocatore si sarebbe mosso senz’altro da solo, e poi era merito suo se si era arrivati sin lì – fino a metterlo con le spalle al muro, col più aggressivo degli interrogativi: “mi avresti spinto, se fossi stato io?”.
 
Ma il 218 non si smuove dalla sua convinzione di essere nel giusto, ribatte colpo su colpo, ha una giustificazione per tutto, e si toglie dall’angolo mortificando oltremodo l’amico.

Vuoi sapere perché la tua vita è così patetica?
Perché fai domande del cazzo anche in una situazione di merda come questa.
Ti impicci degli affari degli altri con quel cervellino bacato che ti ritrovi,
e non sapresti distinguere il tuo culo dal tuo gomito neanche allo specchio”   
 

Egoismo e perdita di lucidità

Il problema di un difetto non è tanto, o solo, nelle sue manifestazioni più immediate, quanto nella cascata di conseguenze indirette che, cumulandosi, conducono a una distorsione dell’intera personalità.

L’egoismo del 218 – il non saper vedere nulla oltre la propria vita – lo porta a una perdita di lucidità che sconfina spesso in accuse insensate.

Giocatore 218: “Sei un bastardo… stai barando, vero? Com’è possibile che vinca solo tu?
Le probabilità sono al 50%. Questa situazione è assurda, non ha nessun senso!
Stronzo, mi hai ingannato, hai fatto l’ingenuo fin dall’inizio!
Hai detto che non c’hai mai giocato. Che cosa hai fatto? Dimmelo!”
 
Vediamo per la prima volta  il 218 “uscire di testa” nel corso del gioco delle biglie, quando le partite volgono a favore del 199. Il 218 lo accusa di imbrogliare, perché – così dice – la probabilità di vittoria (di indovinare se le biglie nascoste nella mano dall’avversario siano pari o dispari) è 50%, e perciò “com’è possibile che vinca solo tu?”.

Qui c’è una finezza matematica che non so in quanti abbiano colto, ma che di sicuro conferisce un notevole spessore culturale alla scena.

Un’intuizione ingenua suggerisce che in un gioco dove le probabilità siano 50% a favore e 50% contro – un classico “testa o croce”, per intendersi – sia altamente improbabile assistere a lunghe sequenze di vittorie o di sconfitte, perché – appunto – l’equi-probabilità determinerebbe un’alternanza grossomodo regolare tra vittorie e sconfitte.

Ma si tratta – appunto – di un’intuizione ingenua e fallace, di una comprensione errata del concetto di equi-probabilità, di cui ci potrebbe ben rendere conto se solo si osservassero con attenzione i gli esiti effettivi di una serie di lanci di moneta.

Un professore lo propose come esercizio alla classe: da un lato, lanciare per 10 volte una moneta e registrare i risultati effettivi dell’esperimento reale; dall’altro compiere una simulazione mentale, immaginando come si sarebbero distribuite “teste” e “croci” in 10 lanci ideali.

Da un lato c’era quindi una sequenza effettiva (generata dall’esecuzione materiale dei lanci) e dall’altro una sequenza teorica (ipotizzata dall’immaginazione dello studente).

Il professore riusciva a distinguere la sequenza effettiva dalla teorica osservando proprio la lunghezza dei tratti con uno stesso esito: gli studenti, nell’immaginare una possibile sequenza, evitavano di inanellare troppi esiti uguali (del tipo “croce-croce-croce-croce”, cioè “croce” per quattro lanci consecutivi) laddove le sequenze reali le mostravano più di frequente.

Estratto da An Introduction to Probability Theory and Its Applications, di William Feller.

Nessun trucco, nessun inganno, quindi. Semplicemente un asettico calcolo delle probabilità: le lunghe sequenze di “croci” (o di “teste”) – così come di “neri” (o “rossi”) alla roulette –  sono molto più probabili di quanto le nostre euristiche ci inducono a ritenere.
 
Perciò l’accusa del 218 al 199 è doppiamente insensata: anzitutto perché – lo abbiamo capito sin dal gioco della bambola – il 199 è uno spirito puro (che nel gioco delle biglie aveva persino manifestato una certa confusione sul significato stesso di “pari” e “dispari”); e poi perché si è soltanto verificata una configurazione che in fondo non è probabilisticamente così straordinaria.
 
Giocatore 218: “Che fortuna scegliere lultimo posto, eh? Scommetto che ti sentivi generoso”
 
Vediamo il 218 “uscire di testa” anche nei momenti immediatamente successivi al gioco del ponte di vetro.

Il 456 lo mette di fronte al suo gesto criminale (“puoi continuare a discolparti quanto vuoi, hai comunque ucciso un povero uomo innocente”); ma il 218 svia il discorso, ribalta l’accusa, e arriva a rinfacciargli la scelta della pettorina col numero più alto (che dava diritto a giocare per ultimi, quindi a beneficiare degli errori di tutti gli altri).

Qui la perdita di lucidità è totale, per almeno tre motivi.

Primo: nessuno sapeva, al momento della scelta, se conveniva giocare per primi o per ultimi (e come ricorderà uno dei VIP – guardando la fase di assegnazione delle pettorine – in molti sono stati eliminati nel gioco della bambola proprio perché partivano troppo indietro).

Secondo: il 456 – a ogni buon conto – non aveva scelto l’ultima pettorina, bensì la prima, che ha poi ceduto a un altro giocatore che insisteva per essere il primo a cimentarsi nella prova.

Terzo: è lo stesso giocatore 218, durante lo svolgimento del gioco, a far presente al 456 che trovarsi troppo indietro ha comunque i suoi svantaggi, perché se pure gli altri giocatori dovessero completare il ponte, e quindi rivelare a tutti il percorso da seguire, chi è in fondo potrebbe non avere il tempo di coprire il tragitto (visto, tra l’altro, che il primo della fila – chiunque sia – esita sempre parecchio prima di decidersi a compiere il proprio passo).

L’accusa, quindi, è totalmente insensata (e addirittura mette il 218 in contraddizione) e ci dà la conferma definitiva delle micidiali distorsioni percettive a cui può condurre l’egoismo.
 
Quando diventiamo irrazionalmente emotivi, e ci mettiamo troppo sulla difensiva” – ci allerta Will Storr – “spesso lasciamo emergere quelle parti di noi che richiedono di essere difese in modo più violento”.     
  

Tra il ponte di vetro e il calamaro: l'auto-assoluzione

Le nostre imperfezioni – soprattutto gli errori che facciamo in merito al mondo degli umani e a come vivere con successo al suo interno – non sono semplicemente idee relative a questo e a quello, il che ci permetterebbe di individuarle facilmente e scrollarcele di dosso. Sono profondamente connaturate ai nostri modelli allucinatori. Le imperfezioni che ci caratterizzano fanno parte della nostra percezione, del nostro modo di sperimentare la realtà. E questo non potrà che rendercele, in larga misura, invisibili.

Correggere le nostre imperfezioni presuppone, anzitutto, di riuscire a vederle. Quando veniamo messi in discussione, spesso ci rifiutiamo di riconoscerle. Gli altri ci accuseranno di ‘negare
l’evidenza’. E a ragione: noi non le non vediamo proprio. Anche se riuscissimo a vederle, ci appariranno quasi sempre non come difetti, bensì come virtù”.
 
L’analisi di Will Storr offre un’eccellente chiave di lettura dei ragionamenti portati avanti dal giocatore 218, all’approssimarsi della fine dei giochi, per giustificare comportamenti progressivamente più violenti.
 
Giocatore 218: “E se quello si fosse impuntato come quell’altro delinquente e non si fosse mosso?
Quell’uomo era in grado di distinguere il vetro temperato,
eppure ha lasciato che quelle persone morissero”

Il ponte di vetro ha segnato un punto di rottura: per la prima volta il 218 ha agito in modo fisicamente violento, di fatto determinando la morte di uno dei giocatori.

Il 456 lo mette di fronte alla brutalità del gesto compiuto – all’errore che ha commesso, per dirlo in termini asettici – ma il 218 riesce ancora a giustificare la propria azione: e se anche il 17, come già aveva fatto il 101, si fosse piantato lì, paralizzato dalla paura, condannando tutti alla morte? e poi, insomma, era in grado di distinguere le lastre di vetro, e però non ha detto una parola, non ha aiutato nessuno, ha mandato tutti a morire; ergo, meritava di morire, e io non ho nulla da rimproverarmi.

Il cervello” – esattamente come scrive Will Storr – “difende il nostro modello imperfetto del mondo trincerandosi dietro le più scaltre faziosità”.

Si potrebbe argomentare – come in effetti argomenta il 456 – che ormai si era arrivati all’ultima lastra, perciò il 17 si sarebbe mosso sicuramente, senza bisogno di spinte (anche se il tempo avrebbe comunque giocato contro chi stava dietro, se il 17 non si fosse deciso in fretta); ma c’è qualcosa di più sottile.
 
Durante lo svolgimento del gioco, quando si viene a scoprire che il 17 è un vetraio in grado di distinguere tra le due tipologie di lastre, il 456 esprime tutta la sua meraviglia, e gli fa notare che si sarebbero potuti salvare tutti, se lui, il 17, avesse preso d’imperio il posto di primo della fila. E il 17 cosa replica? “E perché? Quelli hanno provato a farmi fuori in ogni modo”.

Già. Siamo in un mondo in cui la maggior parte delle persone prova a far fuori gli altri in tutti i modi. L’accusa del 218 al 17 – “quell’uomo era in grado di distinguere il vetro temperato, eppure ha lasciato che quelle persone morissero” – appare perciò ingiusta, ed è comunque incoerente, perché anche il 218 aveva lasciato che altre persone affrontassero rischi di gran lunga maggiori, tenendo per sé l’intuizione sulla natura del gioco delle formine (un comportamento vile, a prescindere dal fatto che poi tutti erano sopravvissuti).

Ciò di cui il 218 accusa il 17 relativamente al ponte di vetro – “ha lasciato che quelle persone morissero” è al fondo la stessa accusa che dovrebbe rivolgere a sé stesso – se solo riuscisse a capirlo – perché anche lui, il 218, ha lasciato altri in balia di pericoli enormi nel gioco delle formine, quando aveva la possibilità di ridurli.

Giocatore 218: “Sono ancora vivo soltanto perché mi sono fatto il culo per sopravvivere.
Per uscire da qui, e vincere quei soldi, dobbiamo uccidere tutti gli altri.
Dovresti dirmi grazie, per aver fatto il lavoro sporco al posto tuo”

Dopo l’auto-assoluzione, il 218 passa al contrattacco per rafforzare la razionalità della propria condotta: “dovresti dirmi grazie per aver fatto il lavoro sporco al posto tuo”.

Non solo, quindi, sono nel giusto, ma sono anche a credito verso di te, perché ho fatto qualcosa che si doveva fare, che tu non eri in grado di fare – per scrupolo, codardia o scarsa comprensione – e che io ho fatto al posto tuo, salvandoti la vita.

E il cervello continua così ad arroccarsi dietro le più scaltre faziosità, che appaiono indiscutibilmente fondate e restituiscono la sensazione che tutti gli altri siano in qualche modo prevenuti: solo il 218 vede la realtà per quella che è, e visto che la realtà gli appare chiara e insindacabile, pensa che chiunque la vede in altro modo sia necessariamente un idiota o un bugiardo.
 
È un esempio meraviglioso di narrativa eroicizzante finalizzata all’auto-giustificazione, a convincerci che ogni nostro atto – per quanto violento o immorale – è giusto e necessario: vediamo ovunque riprove a sostegno della nostra falsa convinzione, e neghiamo – tralasciamo o screditiamo – qualunque dato che la smentisca.
 
Esperienza dopo esperienza, sembra davvero he tutto concorra per dimostrare che abbiamo ragione.
 

Giocatore 218: “Lei sarebbe morta comunque: ho solo messo fine al suo dolore”
Giocatore 456: “Non raccontarmi stronzate: lei era viva, e si poteva salvare”
Giocatore 218: “Per questo l’ho ammazzata, perché so come sei fatto.
Perché pur di salvarla, saresti arrivato a rinunciare a tutto”
Giocatore 456: “E per questo? Avevi paura che mi ritirassi?”
Giocatore 218: “Sì! Se vi foste ritirati tutti e due, sarebbe finito tutto:
avrei dovuto lasciare questo posto senza un soldo”
 
Nell’intermezzo tra il ponte di vetro e il calamaro, il 218 si macchia di un atto ancora più brutale – una coltellata alla moribonda giocatrice 67, che ne determina la morte – e ancora una volta riesce a trovare una giustificazione, una via per auto-assolversi: “sarebbe morta comunque: ho solo messo fine al suo dolore”.
 
D’altra parte – gli sentiamo dire – “per uscire da qui, e vincere quei soldi, dobbiamo uccidere tutti gli altri”, e quindi che differenza vuoi che faccia se uccido in un modo o in un altro, visto che comunque devo uccidere?

Tutto torna, tutto quadra, ancora una volta: dobbiamo uccidere gli altri, lei sarebbe comunque morta da lì a poco, e cosa vuoi che sia un po’ prima o un po’ dopo, se il suo destino era già segnato; quindi era giusto fare quel che ho fatto; anche perché, se non lo avessi fatto, c’era il rischio che la 67 (di fatto fuori dai giochi, visto il suo precario stato fisico) si alleasse con il 456 (dall’animo sciocco e ingenuo) per decretare la fine anticipata dei giochi, rendendo così inutile tutto ciò che si è fatto sinora.

L’eventualità di un patto tra la 67 e il 456 era concreta, non solo per una generale sintonia che era sorta tra i due giocatori, ma anche per un preciso gesto altruista della 67 a favore del 456, durante il gioco del ponte di vetro: era stata lei, la 67, a indicare la lastra su cui saltare al 456, che per il nervosismo l’aveva dimenticata.

Quel gesto non sarebbe potuto scivolare via, nell’animo buono del 456, che avrebbe sicuramente avvertito un debito di gratitudine, da saldare nell’unico modo in cui era possibile fare: interrompendo i giochi.

E quel gesto avrebbe dimostrato che, no, non si devono necessariamente “uccidere tutti gli altri” per sopravvivere nella giostra, che atti di altruismo e condivisione del dolore rimangono ancora possibili, se lo si vuole.

Ma credere di avere ragione, pensare di aver colto la verità ultima delle cose, ha un’attrattiva così potente, e trasmette un piacere così intenso e pervasivo, che serve necessariamente un’esperienza estrema per riacquistare un minimo di equilibrio e obiettività.
  

La redenzione

Giocatore 218: “Siamo andati troppo in là, per tornare indietro”
 
Il gioco del calamaro – l’ultimo da superare, per mettere le mani sui 45,6 miliardi di won – ha un andamento oscillante: ora sembra favorire il 456, ora il 218, ora si mantiene in una fase di stallo. Fino a quando il 218 si reimpossessa del coltello e assesta due colpi decisi alla gamba e allo stomaco del 456. La situazione, ora, è tutta a vantaggio del 218 e l’ultima frase che gli sentiamo dire (prima della redenzione) è la sintesi di tutto il suo agire. “Siamo andati troppo in là, per tornare indietro”.

È uno stato d’animo che risuona con noi, che c’appartiene, che riusciamo a capire: quante volte – nella vita – siamo andati troppo in là, ci siamo spinti troppo oltre, per pensare di tornare indietro?

E non serve scomodare eventi drammatici. È sufficiente la più piatta normalità. Quante volte ci siamo imposti di finire un libro o una serie tv, anche se ci stava annoiando, perché ormai eravamo andati troppo in là nella sua fruizione? Quante volte abbiamo aspettato una persona ritardataria a un appuntamento, perché avevamo la sensazione di rendere vana la nostra attesa se fossimo andati via?

E dalle dinamiche più semplici, sino alle casistiche più complesse, il meccanismo psicologico è sempre lo stesso (e ben noto agli scienziati cognitivi): investire risorse – tempo, denaro, emotività – su un progetto, una prospettiva, una situazione di vita, può creare un legame a cui diventa complicato sottrarsi, anche quando sarebbe razionale farlo, perché il cervello contabilizzerebbe allora una “perdita” – di tempo, di denaro, di emozioni – che sente di non poter sopportare.

Serve un atto volitivo per far propria – interiorizzare e attuare – la battuta di Mark Twain: non è mai sbagliato fare la cosa giusta.

Se puoi salvare del tempo – dopo averne buttato parecchio dietro a tante pagine di un brutto libro, o ad aspettare un ritardatario a un appuntamento – allora salvalo senz’altro: perché è sciocco continuare a perdere tempo in qualcosa che non lo merita, solo perché ormai ve ne hai allocato così tanto da sentirti stupido nel tirarti indietro; perché la vera stupidaggine è continuare a riempire d’acqua un secchio bucato.

Questo è ciò che realizza il 456, a un passo dalla vittoria: non è continuando a fare del male che daremo un senso a tutto il male fatto in passato, illudendoci magari di nobilitarlo per il vantaggio materiale che possiamo trarre (45,6 miliardi di won) nel perseverare nel nostro atteggiamento malvagio; non è mai troppo presto per arrestare un comportamento sbagliato, ma non è mai neppure troppo tardi; non è mai sbagliato fare la cosa giusta, perciò non importa quanta strada tu abbia fatta su un cammino sbagliato, semplicemente, ora, devi fermarti e tornare indietro. 
 
Giocatore 456: “Ho chiuso. Mi ritiro” 
 
Il 456 invoca la terza clausola del gioco – i giochi possono terminare, se così vuole la maggioranza – e la maggioranza, ora, sono soltanto lui, il 456, e il suo fraterno amico d’infanzia, il 218.

Non è mai sbagliato fare la cosa giusta, e la cosa giusta è tornare a casa insieme, come il 456 offe di fare al 218.

Ma la proposta del 456 ha l’effetto di restituire una visione nitida delle cose al 218.

Ora, finalmente, il 218 vede e capisce tutto il male che ha fatto nel corso dei giochi, sente che il peso di quel male lo perseguiterebbe per la vita intera, rendendola un inferno, se accettasse l’offerta del 456 di fermare il gioco; e intuisce di avere ancora una via di salvezza, di redenzione, la possibilità di compiere un atto di generosità estrema verso l’amico, togliersi la vita per consegnargli la vittoria senza fargli sporcare la mani di sangue, con l’ultimo pensiero rivolto alla madre, affinché il 456 se prenda cura ed eviti che le venga confiscato il negozio.
 

 Il suicidio (la redenzione, il riscatto morale) del giocatore 218.
 
La fine dei giochi rivela la realtà delle cose: l’antagonista visibile – “il cattivo” sotto gli occhi dello spettatore – non era il 218, ma l’intera giostra, che risveglia la bestia sonnecchiante in ogni essere umano e lo spinge a commettere atti progressivamente più feroci.
 
Ma il vero antagonista – “il cattivo” occulto, latente dietro a tutto ciò – è in ultima istanza la stessa “società civile”, con tutte le sue storture e iniquità, che rende possibile e tollera la giostra, e fa sì che chiunque possa finirci dentro.

Commenti

  1. L'antagonista è il giocatore numero 1. È lui, con i suoi soci e delinquenti vari, che organizza la giostra; è lui che più di ogni altro ostacola la trasformazione del personaggio 456; e mi sento di dire anche che, nell'episodio finale, quando i due s'incontrano di nuovo, è ancora una volta _lui_ che vuole persuadere il 456 della logica perversa della giostra e giustificarla.

    Il 218, così come il 456, è vittima di un sistema che premia prendere rischi folli nella speranza di un successo facile e sproporzionato rispetto al proprio merito.

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