MODULO 20 – Io o lui? Sono o fu?

 
Girano tante, troppe sciocchezze, in fatto di tecniche di scrittura, per la ragione alla base di ogni circolo di sciocchezze: una maggioranza rumorosa che si sente autorizzata a parlare senza aver mai studiato.

Col tempo ci si abitua, sino a non farci più caso, ma in fatto di scelta della persona (Prima o Terza) e del tempo di narrazione (Presente o Passato) i pregiudizi sono così intensi, persistenti e variegati da produrre una continua meraviglia di fronte alla fantasia con cui gli ignoranti li rimescolano, per poi sfornare – calda, calda – la propria minchiata opinione.


Mettiamo un minimo d’ordine, per quanto l’impresa possa apparire disperata.
 

I fatti stilizzati

Gli economisti chiamano fatti stilizzati una realtà ridotta a elementi essenziali, sufficientemente stabili e regolari da rendere significativa la loro indagine attraverso la teoria economica e l’analisi statistica.

I fatti stilizzati – per dirlo alla buona – sono una rappresentazione della realtà as simple as possible, but not simpler, suscettibile di analisi formale.
 
Abbiamo almeno tre fatti stilizzati, relativamente alla scelta sulla persona (Prima o Terza) e sul tempo di narrazione (Presente o Passato).

Tradizione e innovazione

La tradizione letteraria è nella Terza al Passato: si è iniziato a scrivere narrativa mostrando tutti i personaggi in terza persona e declinando la storia al passato remoto.

Non sono mancate soluzioni alternative, ma la Terza al Passato si è affermato come standard, e quindi è stato preso a riferimento dai nuovi autori, anche perché più familiare ai lettori, in un processo circolare di cui è puramente convenzionale individuare il punto di inizio (“scrivo in Terza al Passato perché piace alle persone, piace alle persone perché leggono principalmente in Terza al Passato, ma leggono in Terza al Passato perché tutti scrivono in Terza al Passato, e tutti scrivono in Terza al Passato perché piace di più…”).

Da almeno una decina d’anni si sta diffondendo la Prima persona, in particolare al tempo Presente, specialmente in alcuni generi (ad esempio il rosa). 
 
La Terza al Passato continua ad avere una notevole ricorrenza, ma non è più la soluzione stilistica monopolizzante.
  

Il presente narrativo

Uno scrittore è libero di adottare il tempo narrativo che desidera, ma per il lettore esiste solo il presente.

Le frasi:

Davide calciò il pallone

Davide calcia il pallone


evocano la stessa immagine: un personaggio (Davide) che adesso calcia un pallone.

Perché la lettura è un processo di evocazione di immagini, e noi siamo capaci di visualizzare solo al presente, o se preferisci, siamo incapaci di visualizzare tempi differenti dal presente.

Quando ricordiamo – un evento, un fatto, una persona – noi attualizziamo: riportiamo sempre qui e ora, come fosse presente, un qualcosa che si trova lì e allora, che è ormai passato.

Lo stesso avviene quando ci proiettiamo nel futuro: il domani retroagisce sull’oggi, diventa ora, il nostro presente.

Girala come ti pare, ma dal qui e ora non si scappa. Può essere un qui e ora effettivo (tempo presente) oppure ideale (passato o futuro) ma è sempre qui e ora: tutto è “come se” stesse accadendo qui e ora.
 

Il successo arride a tutti

Se come metro di riferimento – grossolano quanto vuoi, ma oggettivo – prendiamo la risposta commerciale, il numero di di vendite, troviamo una sostanziale equivalenza tra scelte stilistiche: Prima al Presente (Cinquanta sfumature di grigio), Prima al Passato (L’amica geniale), Terza al Passato (scegli tu l’opera che preferisci) si equivalgono in termini di gradimento del pubblico.
 
I lettori non sembrano avere una preclusione ideologica verso nessuna scelta.


Cosa ci dicono i fatti stilizzati?

Che la Terza al Passato ha la sua forza nella prepotenza dell’abitudine, che il lettore immagina sempre al presente, che una storia accattivante sovrascrive la scelta stilistica.

E cosa ce ne facciamo di questi fatti?
 
Può essere d’ispirazione – sul piano del metodo – un articolo del 1923 di Cesare Vivante sulla “Nuova Antologia”, dedicato alla riforma dei codici di commercio e al ruolo dei giudici per il corretto funzionamento del mercato.

Dopo tanto sforzo dialettico dei civilisti, bisogna riprendere il contatto con la realtà. Io e i miei colleghi discepoli abbiamo considerato il diritto commerciale come una scienza di osservazione, vivendo nei porti fra i capitani, nelle aziende di assicurazione fra gli assicuratori, nelle società fra amministratori e azionisti, raccogliendo tutti i frammenti che l’attività umana ci offriva, reputando che nulla sia estraneo al diritto perché composto di tutti gli elementi della vita: abbiamo cercato la conoscenza di fatti fuori dalla logica, per poter poi porre e costruire saldamente a rigore di logica”.

L’insegnamento – cercare la conoscenza di fatti fuori dalla logica, per poter poi costruire a rigore di logica – è prezioso anche per i cultori dell’arte della scrittura, e dà la chiave interpretativa del modulo.
 

Ricordati che

Essere come Dio nella creazione è stata la prima indicazione fornita dal manuale.

Tu, autore, sei dappertutto nel mondo della pagina, non c’è un solo segno che non sia opera tua, una tua creazione, e però non ti si deve mai vedere da nessuna parte, in nessun luogo, come nessuno vede Dio nel mondo reale.

Tu crei per mezzo della scrittura, attraverso sequenze di parole, ed essere come Dio nella creazione significa che nessuno deve accorgersi della tua scrittura, notare cioè le parole in sé, ma vivere solo l’esperienza suscitata dalla scrittura, sentire esclusivamente l’emozione indotta dalle parole.

Tu, autore, devi sì creare un mondo, ma dopo averlo creato non devi mai intrufolarti nella tua creazione.
 
  Estratto dalla “Introduzione” di John D. MacDonald ad A volte ritornano, di Stephen King. 
 
L’intrusione più grave – che le riassume tutte – è la violazione del “Punto di Vista”.

Tu, autore, dio creatore, devi farti uomo nel personaggio “Punto di Vista”, diventare la sua carne e il suo sangue, cosicché il mondo narrativo sarà conosciuto e percepito dal lettore solo attraverso il filtro del “Punto di Vista”, in senso sia fisico che psicologico, nei modi e nelle forme con cui il “Punto di Vista” lo conosce e lo percepisce.

Si può essere sbalzati fuori dal “Punto di Vista” per un’infinità di motivi – un errore nel registro comunicativo, un’azione incongruente, un’inversione del flusso narrativo, un infodump – ma l’effetto sul lettore è invariabilmente lo stesso: un mondo che va in frantumi, un’illusione che svanisce, la consapevolezza di stare solo leggendo parole.

 Estratto dalla “Introduzione” di John D. MacDonald ad A volte ritornano, di Stephen King.
 
Ti è stato anche raccomandato di curare l’estetica della pagina: naturalezza, sobrietà e leggerezza sono caratteristiche divine, per l’appunto.

Se hai scelto di scrivere (di creare) in “Garamond 12, interlinea singola, rientro 0.5, spaziatura automatica” la gran parte del tuo testo dovrà rispettare lo standard che autonomamente ti sei voluto dare.

Ogni scostamento dallo standard – un diverso font, un diverso rientro, l’utilizzo del corsivo o del grassetto, l’impiego delle maiuscole, e qualsiasi altra scelta disallineata dall’impronta iniziale – deve avere una giustificazione precisa all’interno del patto col lettore, essere cioè finalizzata ad agevolare la decodifica della pagina, ma deve anche esser gestita con accortezza, per evitare sia il proliferare di scostamenti sia la presenza di punti isolati.

Poniamo che tu voglia prenderti il rischio di rappresentare la musica nel mondo della pagina, e di voler adottare la soluzione plain-vanilla: riportare testualmente le strofe di una canzone. Devi di necessità deviare dallo standard, perché il lettore deve capire all’istante che ciò che ha sotto gli occhi è musica. Potresti ad esempio racchiudere le parole della canzone tra i simboli ♫…♬, che rappresenterebbero l’equivalente musicale delle virgolette (alte o caporali) entro cui si chiudono le battute di dialogo. È una scelta, nulla quaestio in sé.

Qual è il problema? Che se hai fatto questa scelta – in sé legittima – devi poi governare due dimensioni speculari.

La prima: tu non vuoi un testo pieno zeppo di canzoni, cioè di simboli ♫…♬, perché tutto ciò che si allontana dallo standard è un elemento di potenziale distrazione, e se si eccede nel suo utilizzo allora la distrazione non è più un rischio ma una certezza (“uh, guarda quante note musicali ci sono in questo testo: che buffo!”) e se il lettore si distrae, tu hai fallito.

La seconda: tu non vuoi neppure che quei simboli non-standard (♫…♬) compaiano una sola volta, perché, di nuovo, finirebbero col notarsi proprio perché isolati, come si noterebbe un koala aggrappato su un lampione dei Fori Imperiali (“che buffo: nel libro a un certo punto comparivano delle note musicali”).

Tanto più lo scostamento dallo standard è evidente – come lo sono i simboli ♫…♬, sicuramente irrituali – quanto più deve essere ricorrente all’interno del testo, per dargli le sembianze di un elemento naturale della narrazione, senza però diventare così ricorrente da farsi notare per la sua invadenza.

Sembra di fronteggiare la sfida del Re alla contadina furba. “Presentati a corte né a piedi né a cavallo, né nuda né vestita, né di giorno né di sera, né sazia né affamata”.

E la contadina arrivò in groppa a un asino (né a piedi né a cavallo) con indosso solo una rete da pescatore (per cui non si poteva dire che fosse nuda, ma neppure vestita) ai primissimi chiarori dell’alba (né di giorno né di sera) e con in bocca una noce (non era affamata, ma non si poteva certo dire che fosse sazia).

E tu come ti regolerai per gestire gli scostamenti dagli standard, se probabilmente non sai governare neppure gli standard stessi?

 
La demolizione del successo editoriale Il fabbricante di lacrime.
Dal minuto 4.12 al minuto 4.40:
“Abbiamo letto mezza pagina, e ci sono già sei frasi con i punti di sospensione.
Punti di sospensione che rappresentano praticamente la cifra stilistica di tutto il romanzo:
in questo romanzo ci sono meno frasi che terminano con il punto fermo
che frasi che terminano con i punti di sospensione.
È tutta un’allusione continua a cose che ovviamente non hanno nessuna importanza”.

Pensa in prima al presente, scrivi come vuoi

Ama e fa ciò che vuoi”.

È virtualmente impossibile uguagliare sintesi e potenza delle parole di Sant’Agostino.

Ti viene concessa una libertà assoluta (“fa ciò che vuoi”) sotto un vincolo all’apparenza naturale (“ama”). Perché se ami, se lo fai con amore – il che però non è affatto scontato come sembra – allora qualunque cosa tu stia facendo è sicuramente fatta bene, nel modo giusto, e perciò, sì, fa pure come vuoi.

Io non sono Sant’Agostino – lo avresti mai detto? – e mi arrabatto come posso. Quel che posso dirti è “pensa sempre in Prima al Presente, e poi scrivi pure come vuoi” (ammesso che tu ne sia capace).

Pensa in prima al presente

In linea teorica – di pura teoria – Prima al Presente, Prima al Passato, Terza al Presente, Terza al Passato sono semplicemente quattro lingue diverse. Ognuno può avere la sua preferenza, ma stare a discutere della superiorità tecnica di una forma espressiva sull’altra – in teoria – non ha più senso del discutere su quale sia il vero nome di quell’astro che gli inglesi chiamano “moon”, i tedeschi “mond”, i francesi “lune” e gli italiani “luna”. Ognuno la chiama con la parola propria della sua lingua, ognuno scrive nella lingua narrativa che vuole. In teoria.

In pratica le cose sono un (bel) po’ diverse.

Quand’è che puoi dire di conoscere una lingua straniera? Quando smetti di pensare in italiano per poi tradurre, e meglio ancora, quando pensiero e parola in lingua sono sincronizzati come nella tua lingua madre, quando il pensiero si traduce in parola pressoché in simultanea alla sua formulazione. Questo risultato può essere raggiunto solo trascorrendo un periodo prolungato all’estero, perché è solo allora che si viene obbligati a “pensare nella lingua straniera”. Se penso in italiano e poi traduco, e magari verifico pure mentalmente la correttezza della traduzione, e prima di allora non mi azzardo ad aprir bocca, la discussione nel frattempo se ne sarà bella che andata altrove rispetto a ciò che volevo dire.

Le cose stanno in modo radicalmente diverso, quando entrano in gioco i linguaggi narrativi: devi sempre pensare in Prima al Presente – sempre! – e poi, se proprio ci tieni, tradurre il tuo pensiero dalla Prima al Presente nella forma che ti piace di più.

Il motivo lo dovresti capire da solo, se ti stai applicando nello studio del manuale.

L’unica narrativa a cui riconosciamo valore artistico è realizzata con la tecnica del mattoncino e messa all’opera con un personaggio “Punto di Vista”: la nostra scrittura è tutta “qui e ora”, scorre con flussi di azioni, pensieri, percezioni e dialoghi, interpretati da un personaggio che fa da filtro tra il lettore e il mondo della pagina.

Tutto il problema dello scrivere bene si riduce quindi – si fa per dire – a costruire un flusso narrativo coerente (a cementare i mattoncini) senza mai uscire dal “Punto di Vista”.

E non c’è nessuna forma di pensiero, come la Prima al Presente, che ti costringe a rimanere immerso nel “Punto di Vista”, e di conseguenza a garantire la più fedele replicazione possibile del suo flusso esperienziale.

Ovviamente gli errori sono sempre in agguato, e per molti versi inevitabili, ma la Prima al Presente è sicuramente la forma di pensiero che minimizza gli errori “di flusso” e “di Punto di Vista”, che sono i più gravi.

Devi quindi obbligatoriamente pensare in Prima al Presente, “per proteggerti da te stesso”, per salvaguardarti dalla naturale tendenza a sbagliare che ci accomuna tutti. 
 
Il lettore, tra l’altro, immagina sempre al presente (perché non ha alternative) e si immedesima nel personaggio (questo è lo scopo della narrativa scritta) e allora perché non proporgli la forma stilistica – la Prima al Presente – già allineata al suo settaggio naturale, di là delle abitudini di lettura?
 
Pensa e ragiona (e possibilmente scrivi) in Prima al Presente, ma passa pure a tradurre in Terza al Passato, se preferisci questa forma espressiva. Il punto è: sai farlo?
 
 Estratto da L’Inumano, di Massimiliano Parente (edizione Mondadori 2012).
 
 
 

Il cinema si danna l’anima nel tentativo di realizzare quel che gli è precluso.
E a te, scrittore, sembra una cosa furba indebolire il tuo unico punto di forza,
per un malinteso ossequio alla tradizione della Terza al Passato?
 

scrivi come vuoi, se ne sei capace

Tradurre non è mai un’operazione meccanica e automatica, non si esaurisce nell’associazione formale tra una parola (da tradurre) e un’altra (tradotta) mediante un vocabolario. Se così fosse – per fare l’esempio più stupido – “of course” sarebbe tradotto “di corsa”.

La traduzione non è mai una traduzione parola-per-parola; la traduzione deve restituire il senso di un testo, in una lingua diversa da quella originaria, tenendo conto delle diverse strutture formali sottostati a lingue diverse.
 
Traduttore-traditore è l’accoppiata con cui si denuncia l’impossibilità materiale di restituire esattamente il significato di un testo in tutte le sue sfumature, spesso decisive, quando si passa dalla lingua in cui era stato concepito a una lingua diversa.
 
Tradurre non è mai facile, e in alcuni casi può diventare un’autentica mission impossible.

#1: Io, lui, lei vs Lui, lei, lui

In Prima (al Presente) c’è un “io” portare del “Punto di Vista” che rimane strutturalmente distinto da tutti i “lui” e le “lei” che si trovano nella storia.

Perciò non avrai mai bisogno di nominare il personaggio “Punto di Vista”, per distinguerlo dagli altri personaggi.

Quando passi in Terza ecco che anche il “Punto di Vista” si trasforma in un “lui” (o in una “lei”), ora indistinguibile dagli altri “lui” (“lei”) che popolano il mondo della pagina.

Quando scrivi in Terza, quindi, ti troverai a dover nominare spesso il personaggio “Punto di Vista”, per evitare ambiguità, per non confonderlo con gli altri personaggi. E siccome il “Punto di Vista” è sempre in scena – è lui la porta di accesso al mondo della pagina – la ripetizione del suo nome avrà inevitabilmente una frequenza elevata, che infastidirà anzitutto te scrittore.

I casi sono due: o sei incredibilmente bravo a tradurre la scena – dalla Prima alla Terza – in modo da non aver bisogno di nominare il “Punto di Vista”, oppure – come fa ad esempio Donato Carrisi, autore di thriller best-seller – ricorrerai alla stupidata colossale di usare denominazioni alternative che in qualche senso lo possono qualificare (Carrisi alternava il nome proprio del personaggio con “lo psicologo”, “lo psicologo infantile”, “l’ipnotizzatore”, perché il personaggio era tutte queste cose).
 
Prova e vedrai. Buona fortuna e fammi sapere.

#2: Pensieri diretti vs pensieri indiretti

Quando scrivi in Prima al Presente non hai bisogno di marcare il mattoncino del pensiero, per distinguerlo dagli altri mattoncini narrativi.
 
Il pensiero è semplicemente un fraseggio interiore, equivalente a tutti gli effetti a un dialogo, e siccome le battute di dialogo hanno già un loro segno identificativo – le virgolette che le avvolgono – non ne serve un altro per i pensieri, che possono essere scritti in conformità allo standard usato per tutto il resto (azioni e percezioni).
 

Le cose cambiano, e di parecchio, quando scrivi in Terza (al Passato). Perché tu puoi pure scrivere in Terza (al Passato) ma i pensieri diretti rimangono sempre formulati in Prima Persona al Presente.

Quindi hai un flusso narrativo in Terza (al Passato) in cui, di quando in quando, fanno capolino frasi in Prima al Presente. Succede lo stesso con i dialoghi, se ci pensi, ed è la presenza delle virgolette a segnalarne la natura e a farli riconoscere a colpo d’occhio, non appena lo sguardo si posa sulla pagina, ancor prima di leggerli. Ma ora, in Terza (al Passato), hai bisogno di un segno identificativo anche per i pensieri, ti serve una convenzione di scrittura per far capire subito al lettore cosa è pensiero diretto (e quindi lo si trova in Prima al Presente) e cosa no. La convenzione standard è l’uso del corsivo: i pensieri si scrivono in corsivo, quando si scrive in Terza (al Passato).

Qual è il problema? Dimmelo tu, dai.

Il pensiero è uno strumento potente per conoscere l’interiorità del personaggio, per qualificare le azioni che compie, per trasmettere al lettore – è proprio il caso di dire – ciò che il personaggio ha in testa quando dice o fa certe cose. Il mattoncino [P] interviene quindi con frequenza notevole nella narrazione (se ricordi le tecniche di cementazione dei mattoncini, la sequenza [A]-[PS]-[P] è l’unica codificabile a priori, quindi il pensiero è spesso il mattoncino più naturale da usare dopo aver avuto una percezione sensoriale).

Ma i pensieri – ora, in Terza (al Passato) – si scrivono in corsivo, e tu non vuoi inzeppare la pagina di frasi in corsivo, perché il corsivo distrae, e anzi è il più distraente degli elementi, secondo solo al cambio di font. C’è il serio rischio che il lettore si fermi nella lettura della tua storia a causa dell’eccesso di corsivo: “oh, quante frasi in corsivo ci sono in questo libro!”.

E cosa abbiamo detto sino allo sfinimento? Che l’attenzione del lettore deve essere monopolizzata dalle emozioni veicolate dalle parole, non dalle parole in sé, e men che meno – Dio ce ne salvi – dalle mere convenzioni di scrittura. Tu vuoi una pagina il più possibile pulita, sobria, discreta, senza continue deviazioni dallo standard. Il lettore ha sospeso l’incredulità nell’approcciarsi alla tua storia, è convinto che ciò che si trova sulla pagina sia vero, ma se su quella stessa pagina vede corsivi a ogni piè sospinto, quanto potrà andare avanti prima di realizzare che sta solo leggendo parole?

Come se ne viene fuori? In due modi, uno limitante e l’altro pericoloso.

Soluzione numero uno (limitante): scrivere con notevole parsimonia di mattoncini [P].

Non sembra una cosa furba o una gran trovata. Disponi solo di cinque mattoncini narrativi per creare la tua storia, e dai la sensazione di auto-castrarti se volutamente rinunci a uno, come un musicista che s’mponesse un uso limitato del “re” nel suo spartito.

Una storia vive di azioni, ma sono i pensieri a qualificarle per restituirci l’interiorità del personaggio; sono i mattoncini [P] a “colorare” i mattoncini [A] per trasformare il lettore nel personaggio, ed è proprio la possibilità di essere il personaggio a differenziare la scrittura dal cinema, a porla in una posizione di superiorità; i film “d’azione” – movimentati, dinamici, veloci – non hanno un equivalente sulla pagina, dove la rielaborazione psicologica rimane il punto di forza.
 
 Dalla Lezione 33 Se non c’è curiosità, l’incipit è sbagliato”, di Giuseppe Pontiggia.

Limitare i pensieri potrebbe forse tornare utile nelle storie corali – io sconsiglio di scriverle, quanto meno all’inizio – quando non si riescono a differenziare i profili caratteriali dei molteplici “Punti di Vista”, e ridimensionare la componente psicologica può allora far gioco per recuperare una loro maggiore riconoscibilità. Capisci però che sono situazioni particolari, che dovresti evitare, e non andarti a cercare.
 
Soluzione numero due (pericolosa): introdurre un sesto mattoncino, il cosiddetto “pensiero indiretto libero” (e così si spiega la presenza di sei mattoncini nella prima immagine del modulo 9, anche se il titolo era “I cinque mattoncini narrativi”).

Non sai cos’è il pensiero indiretto libero? Sì che lo sai. Lo hai studiato alle scuole medie, e poi lo hai dimenticato, come si dimentica tutto ciò di cui non si capisce il senso.

Il pensiero indiretto libero – facciamola semplice – è una sintesi dell’originario pensiero diretto del personaggio (del contenuto del mattoncino [P]) che consente di preservare il tempo di narrazione.

Vediamolo su uno stralcio del racconto L’ultimo caffè.

VERSIONE IN PRIMA AL PRESENTE COL MATTONCINO [P]
 
Chiudo gli occhi, sospiro: voglio solo credere che non se lo sia scopato proprio qui, sul nostro letto… non qui, ti prego, dopo cinque anni insieme, cinque anni, cazzo…
 
 
VERSIONE IN TERZA AL PASSATO COL MATTONCINO [PI]
 
Chiuse gli occhi e sospirò: c’era solo da sperare che non se lo fosse scopato proprio su quel letto, dopo cinque anni di fidanzamento.

Capito il giochino? Si prende il pensiero originario del personaggio e se ne restituisce il senso in una forma abbreviata che mantiene il tempo di narrazione (o meglio: che dà la sensazione di mantenerlo, perché spesso si transita dal passato remoto all’imperfetto) senza bisogno quindi di ricorrere al corsivo.

Quali sono i problemi? Almeno due.

Il primo: manca un criterio univoco e sensato per decidere quando un pensiero va formulato in modo diretto e quando per via indiretta.

Perché alcune cose le scriverai (in corsivo) come pensieri diretti e altre (in modalità standard) come pensieri indiretti? Potresti dirmi che i pensieri diretti li riserverai alle cose “più importanti”, ma è un modo pericoloso di ragionare perché si enfatizza una gerarchia che, ammesso esista, deve rimanere sfumata, perché tutto è importante in una storia ben fatta, tutto ha uno scopo e un significato, anche le parti minori o i passaggi secondari.

Secondo –  mostruoso –  problema: quando si usa il mattoncino [PI] cresce esponenzialmente il rischio di rompere la quarta parete.

Bisogna essere bravi – ma davvero bravi, altroché – per scrivere pensieri indiretti liberi senza dare l’impressione al lettore di un personaggio che gli parla dal mondo della pagina, o addirittura di un autore che gli sta “spiegando cose”, senza la mediazione della storia.

Prova e vedrai. Buona fortuna e fammi sapere.

#3: Salto, mangio, infilo vs saltò, mangiò, infilò

Tu sei uno scrittore, non un poeta: tu hai orrore delle rime.

Evita le allitterazioni anche se allettano gli allocchi” è – non a caso – la prima delle quaranta regole di Umberto Eco sull’arte della scrittura; e il riferimento non va limitato alle allitterazioni, ma esteso a ogni sequenza di parole che produce scampanellii, assonanze e din-don-dan, di cui le allitterazioni sono solo la manifestazione più evidente.

E pure le rime non scherzano in quanto a scampanellii. Tu non vuoi rime nel tuo testo narrativo. Non le vuoi perché distraggono, perché la rima balza subito all’attenzione (“uh, guarda: cuore-amore”) e l’attenzione deve essere invece monopolizzata dalle emozioni veicolate dalle parole (e non dalle parole in sé).

Se stai scrivendo in Terza, è molto probabile che tu stia declinando al passato, per sfruttare l’assuefazione dei lettori verso questa forma espressiva (la Terza al Presente sarebbe una forma di autolesionismo: si incontrerebbero i due problemi precedenti, senza il vantaggio della preferenza implicita di molti lettori).

Quindi, se non sei un coglione menomato – letteralmente: un coglione lo ha in mezzo alle gambe e l’altro sei tu in tutta la tua persona – stai scrivendo in Terza al Passato.
 
Ma la Terza al Passato fa sbucare rime inogniddove, avrebbe detto lo storico direttore della Gazzetta dello Sport, Candido Cannavò.
 
Molti verbi finiscono con una vocale accentata, quando li declini in Terza al Passato, quindi è probabile che si materializzerà un concerto di din-don-dan, di scampanellii, di suoni buffi o ridicoli.

Prova e vedrai. Buona fortuna e fammi sapere.
 
 
Due parole, per chiudere, sulla Prima al Passato.

Anche qui – se stai studiando come dovresti – hai sicuramente già individuato il problema.

Per quanto tu possa essere abile, per quanto impegno puoi mettere, la Prima al Passato incorpora “l’effetto diario”, che di per sé dà la chiara sensazione che “qualcuno sta raccontando qualcosa”, esattamente ciò che tu non vuoi, da cui rifuggi.

Nella nostra narrativa – nella narrativa a cui riconosciamo valore artistico – nessuno racconta niente a nessuno, semplicemente il lettore vive l’esperienza del personaggio, diventando il personaggio.
 
La Prima al Passato alza invece un muro tra il lettore e il personaggio, proprio per come è congegnata, per sua natura. E – come se non bastasse – è esposta al rischio di una mostruosa fratellanza siamese tra scrittore e personaggio, col registro comunicativo del primo che di quando in quando sovrascrive quello del secondo.
 
Prova e vedrai. Buona fortuna e fammi sapere.
 

Prendi le corna da terra e mettitele in testa

Non ti pigghiari i conna di ’nterra pe mittitilli supra a testa – non devo tradurre, vero? – è un’espressione siciliana che mette in guardia da una vasta classe di atteggiamenti auto-lesionisti, che spaziano dal non farsi i cazzi propri sino all’infilarsi volutamente in situazione problematiche.

In questo manuale – me ne darai atto – ti è stato fornito non solo un corpo di teoria, ma soprattutto un flusso di esempi e controesempi, di esempi in positivo e in negativo su come scrivere bene oggi, anno 2023, affinché la teoria non rimanga teoria, ma diventi pratica spicciola, avendone colto i significati e le potenzialità.

Qui, però, ho deciso di fare un’eccezione: non ti darò nessun esempio delle difficoltà gigantesche della scrittura in Terza, a corredo delle spiegazioni teoriche.

Perciò hai solo due possibilità: o mi credi sulla fiducia – se sono riuscito a conquistarmela – oppure… pigghiati i conna in terra e mittitilli in testa.

Ma sì, dai! Prendi pure un bel paio di corna da terra e mettitele in testa, e magari rompitele pure, schiantandoti contro un bel muro di cemento armato.

Ma sì, che vuoi che sia? Scrivi pure in Terza al Passato, se hai di questi fetish, così scoprirai a quanti diavoli dovrai dar soddisfazione mentre lo fai.

♫ Qual è il grado di dolore

che riesci a sopportare

prima di fermare l’esecuzione

chiedere soccorso a me…

E poi – sempreché tu sia sopravvissuto – spediscimi pure il tuo bel testo in Terza al Passato (pitigrilli373@gmail.com) affinché io lo possa demolire analizzare nel modulo 26.

Non ho visto mai nessuno

andare incontro a un calcio in faccia

con la tua calma, l’indifferenza,

sembra quasi che ti piaccia…
 

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