MODULO 26 – Esercizi di editing (o quasi…)
Il line editing
è una procedura di controllo della qualità di un testo narrativo, che
opera riga per riga, parola per parola, alla ricerca di sbavature
logiche, lessicali, strutturali e soprattutto tecnico-stilistiche; muove
dall’unicità del linguaggio artistico – le regole con cui uno
scrittore progetta e scrive la sua storia sono le stesse con cui
l’editor la revisiona – ed è condotta con spirito intransigente, perché
solo la tolleranza zero verso gli errori permetterà di non commetterne troppi e realizzare un testo presentabile.
Tutta la forza del line editing è nella sua oggettività: il riferimento continuo ed esclusivo a standard di scrittura esterni al
soggetto che lo esegue, conosciuti e accettati all’interno della comunità degli
autori, libera il giudizio dagli incontrollabili gusti personali,
legittimamente variabili da un individuo all’altro, ma irrilevanti per
una valutazione razionale, non sviata dalle proprie fissazioni.
Con il line editing si segna un confine netto tra il gusto personale e la
norma, tra ciò che piace a noi e ciò che si può
definire ben scritto, se non proprio oggettivamente, di sicuro per largo accordo intersoggettivo.
Nessun autore può sottrarre il suo testo al line editing – neanche i più bravi – perché tutti gli autori – anche i più bravi – fronteggiano almeno tre limitazioni che solo un line editing può aiutare a superare: forzature, eccessive riletture, attaccamento emotivo.
Uno scrittore può forzare
la storia – senza accorgersene, in buona fede – quando non riesce più a
svilupparla secondo le migliori regole di sceneggiatura; oppure – pressato dalla necessità di andare avanti – può illudersi che uno strappo alle regole di scrittura non sia poi così grave, ché la prosa in fondo non
è matematica, e un minimo di flessibilità bisognerà pur averla (e
dimentica che le norme di scrittura e sceneggiatura sono nativamente
flessibili, nascono già malleabili proprio per adattarsi all’inventiva
di ogni autore, e allentarle ancora equivale a violentarle).
Generalmente,
poi, lo scrittore legge ciò che ha scritto e lo corregge, perché la
prima stesura è per definizione solo unabozza. Ma spesso lo sono anche la seconda, la terza e la quarta (citando la dodicesima regola della Pixar: “scarta la prima idea che ti viene in mente. E anche la seconda, la terza, la quarta, la quinta – togli di mezzo le ovvietà. Sorprenditi”) e così lo scrittore riscrive e si
auto-corregge più volte, e a furia di correggersi da sé – di scrivere,
leggere e riscrivere – perde di sensibilità e tutto gli
sembra chiaro, perfetto, fluido. Non perché lo sia davvero – il più
delle volte non lo è – ma per effetto delle eccessive riletture, che inducono una confidenza così stretta col testo, da impedirgli di riconoscere gli errori.
Il tempo dedicato alle stesure determina infine un legame affettivo via via più intenso tra l’autore e il suo testo: “è il tempo che hai dedicato alla tua rosa che ha reso la tua rosa così importante”,
leggiamo nel libro Il piccolo principe, e il crescente coinvolgimento
emotivo dell’autore, tutto quel tempo speso a coltivare la sua opera,
priva il giudizio della necessaria lucidità, sino a vivere una critica
tecnica al testo come una gratuita offesa personale.
E allora che arriva l’editor, col suo line editing, a salvare lo scrittore da… sé stesso: l’editor agisce come un secondo cervello creativo a sostegno (tecnico) dell’autore; è un occhio esperto, neutro rispetto alla storia, che mostra solo ciò che è evidente e che tuttavia l’autore, da solo, non riesce più a vedere.
Vivere un line editing con serenità d’animo – interpretarlo come un passaggio necessario per la propria crescita autoriale, di cui essere grati – è segno di maturità artistica.
Questo è un line editing, questo è il modo corretto di interpretarlo, ma…
Questo è un line editing, questo è il modo corretto di interpretarlo, ma…
… ha senso avventurarsi in line editing di testi scelti ad arbitrio?
Ragioniamo.
Ragioniamo.
Il line editing muove dall’idea che la scrittura sia una tecnica, quindi un’attività assoggettata a principî e regole attuative, e presume un largo accordo intersoggettivo su cosa sia la “buona scrittura”, su come codificare il concetto di “scritto bene”: vi deve essere – in pratica – una base comune e condivisa di conoscenze, che disciplini la discussione e il confronto.
Per contro, se ogni schema di scrittura viene visto come un oltraggio alla propria libertà espressiva, se non si capisce che l’espressione sarà sì totalmente libera, ma la comunicazione segue invece un percorso finalizzato a massimizzarne l’efficacia, e se non si ha chiaro che chi scrive per un pubblico lo fa per comunicare e non per esprimersi, allora cosa vuoi mai analizzare tramite un line editing?
Qui, in questo blog, avrebbe senso fare line editing solo su testi inviati da lettori del blog che abbiano letto (e riletto e riletto e riletto…) tutti i post pubblicati e si siano sforzati di applicarne i contenuti al meglio delle loro possibilità. Perché – appunto – serve una base culturale comune per discutere con profitto, una sorta di statuto costituzionale, che lascia sì liberta di opinione, ma all’interno di un campo ben perimetrato, per quanto ampio.
Non solo il line editing – in questo blog – presume un testo scritto da un lettore assiduo, dedito allo studio e all’applicazione, ma il testo dovrebbe in più essere un incipit, perché solo attraverso l’analisi di un incipit si può capire se l’autore ha interiorizzato la tecnica simulativa alla base della scrittura dei mattoncini (setting della scena, flusso narrativo, ordine di presentazione degli eventi, e così via). Una pagina generica – diciamo la 191 di un ipotetico romanzo di 345 pagine – si presterebbe fatalmente a discussioni sterili. L’editor potrebbe rilevare dei difetti nell’empatia, o sequenze narrative poco chiare, o infiniti altri problemi potenziali, e l’autore potrebbe replicare che, no, nessuna delle osservazioni è legittima, avendo presenti le 190 pagine precedenti a quella sotto esame (che però nessuno ha letto, e perciò non si può dire se siano scritte bene o no).
In sintesi, un line editing – qui, in questo blog – ha senso se e solo se:
Ha senso rifare qualcosa che è già abbondantemente disponibile altrove, per di più con una varietà di approcci in grado di accontentare qualsiasi palato?
Per contro, se ogni schema di scrittura viene visto come un oltraggio alla propria libertà espressiva, se non si capisce che l’espressione sarà sì totalmente libera, ma la comunicazione segue invece un percorso finalizzato a massimizzarne l’efficacia, e se non si ha chiaro che chi scrive per un pubblico lo fa per comunicare e non per esprimersi, allora cosa vuoi mai analizzare tramite un line editing?
Qui, in questo blog, avrebbe senso fare line editing solo su testi inviati da lettori del blog che abbiano letto (e riletto e riletto e riletto…) tutti i post pubblicati e si siano sforzati di applicarne i contenuti al meglio delle loro possibilità. Perché – appunto – serve una base culturale comune per discutere con profitto, una sorta di statuto costituzionale, che lascia sì liberta di opinione, ma all’interno di un campo ben perimetrato, per quanto ampio.
Non solo il line editing – in questo blog – presume un testo scritto da un lettore assiduo, dedito allo studio e all’applicazione, ma il testo dovrebbe in più essere un incipit, perché solo attraverso l’analisi di un incipit si può capire se l’autore ha interiorizzato la tecnica simulativa alla base della scrittura dei mattoncini (setting della scena, flusso narrativo, ordine di presentazione degli eventi, e così via). Una pagina generica – diciamo la 191 di un ipotetico romanzo di 345 pagine – si presterebbe fatalmente a discussioni sterili. L’editor potrebbe rilevare dei difetti nell’empatia, o sequenze narrative poco chiare, o infiniti altri problemi potenziali, e l’autore potrebbe replicare che, no, nessuna delle osservazioni è legittima, avendo presenti le 190 pagine precedenti a quella sotto esame (che però nessuno ha letto, e perciò non si può dire se siano scritte bene o no).
In sintesi, un line editing – qui, in questo blog – ha senso se e solo se:
- l’autore ha studiato (possibilmente più volte) l’intero manuale;
- il testo (prodotto dallo studio ripetuto del manuale) è un incipit.
Ha senso rifare qualcosa che è già abbondantemente disponibile altrove, per di più con una varietà di approcci in grado di accontentare qualsiasi palato?
Potrebbe pure avere un senso – forse – aggiungere la cinquantunesima sfumatura di grigio allo spettro di colorazioni già esistente, ché in fondo il pubblico è potenzialmente così vasto, che ognuno può ritagliarsi la sua nicchia giocando proprio sui dettagli.
Però, almeno per il momento, preferisco fare altro, qualcosa a mio giudizio di più interessante, e non già visto sino allo sfinimento.
Però, almeno per il momento, preferisco fare altro, qualcosa a mio giudizio di più interessante, e non già visto sino allo sfinimento.
Ci
saranno sì dei line editing, ma qui, in questo modulo, ci saranno
soprattutto esercizi di lettura e interpretazione dei testi a 360 gradi,
che offriranno lo spunto per parlare del mondo dell’editoria e delle
scuole di formazione, di trattare meccanismi psicologici, di scovare il buono anche in pagine mal
scritte, di mostrare alcuni degli errori più ingenui e… tanto altro
ancora.
Si parte per l’ultimo giro di giostra.
Si parte per l’ultimo giro di giostra.
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