Modulo 26 – Esercizio #5

Riproviamoci: altro testo scritto con la tecnica del mattoncino, ancora una volta ideato come incipit.

Il risultato stavolta è migliore: abbiamo effettivamente un incipit, che per di più ci conduce alle soglie dell’incidente scatenante.

Vi sono per contro due problemi: una certa indolenza nella bruta scrittura e una mancata comprensione del concetto di ambientazioni non-standard.

 
 
Il quadro di controllo segnala quota 274 km. Alzo lo sguardo dagli strumenti, con un dito percorro il profilo del finestrino di prua, Columbia vola capovolta e di coda, le sfumature blu chiaroscuro dell’Oceano Indiano mi tolgono il respiro.

Strofino le nocche sugli occhi. Rimani concentrato Willie.

Rick entra sul ponte, galleggia verso il sedile di sinistra e infila le gambe al posto di comando. Aggancia le cinghie sopra la maglietta grigia, all’altezza della vita.

«Propulsori orbitali?»

«Check motori RCS completato Comandante.»

Fa un rapido esame degli indicatori sul cruscotto.

«Ho avvertito cinque vibrazioni. Hai corretto l’assetto orbitale?»

Cazzo! Rick ha il corpo fuso con questa macchina, le lievi vibrazioni dei razzi Vernier gli hanno spifferato il mio rapporto in anticipo.

«Assetto ok, Vernier attivati per stabilizzare velocità orbitale.»

Gira il capo verso il sedile di destra, appoggia una mano sullo schienale.

«Ottimo lavoro, Willie, la Marina non è male come scuola, dopotutto!» Ride.

«Non quanto l’Aeronautica, Comandante.»

Rick torna serio.

«Willie…un’altra cosa.»

Il cambio repentino di tono non mi piace per niente.

«Quale cosa?»

Rick ritira la mano dallo schienale, si gratta la nuca. Lo sguardo spazia oltre il finestrino, il sole scompare dietro la nebbia azzurrina della curva terrestre. Settimo tramonto, per oggi.

«Ti hanno tolto il comando della missione STS-116, questioni politiche a quanto pare. Mi dispiace, Willie.»

Scuoto la testa, le parole mi si bloccano in gola. STS-116, il mio primo comando…mi chiedo dove abbia sbagliato.

Annuisco con uno scatto del mento, slaccio le cinture. La microgravità mi solleva dal sedile.

«Ho del lavoro da fare.»

Rick mi trattiene per un braccio.

«Willie—»

«Signore?»

«Tu non hai sbagliato niente.»

«Grazie signore.»

Scalcio a piedi uniti il lato posteriore dello schienale, infilo il raccordo verso il ponte intermedio e il laboratorio. Balzo fuori dal portello, raccolgo le ginocchia in una capriola e saluto a dita aperte la videocamera maneggiata da Dave.

Perdo l’equilibrio, sbatto contro la paratia di dritta e aggancio con la punta di due dita la gabbia dei roditori. Giro il busto, sghignazzo.

«Visto che acrobazia?»

Dave mi molla uno scappellotto sulla nuca, scoppia a ridere.

«Abbiamo come pilota un bambinone. Che Dio ci aiuti!»

Gli faccio l’occhiolino e pigio on sul tasto del registratore.

«Giorno 6, soggetto R3: ottimo adattamento alla microgravità, assenza di anomalie nel sistema vestibol—»

«Willie e Dave sul ponte intermedio.»

C’è urgenza nella voce di Rick.
 

 
Iniziamo.
 
Il quadro di controllo segnala quota 274 km. Alzo lo sguardo dagli strumenti, con un dito percorro il profilo del finestrino di prua, Columbia vola capovolta e di coda, le sfumature blu chiaroscuro dell’Oceano Indiano mi tolgono il respiro. Strofino le nocche sugli occhi. Rimani concentrato Willie.
 
L’attacco è ottimo, perché fa tutto quel che deve fare, nel rispetto dei vincoli della scrittura dei mattoncini.

Si inizia con una percezione sensoriale (visiva): il “Punto di Vista” vede che “il quadro di controllo segnala quota 274 km” e noi lettori vediamo direttamente quel che vede lui (senza l’inutile intermediazione del verbo percettivo). E quel che lui vede (e noi vediamo) ci dà subito un’idea del luogo dove ci troviamo: se il “il quadro di controllo segnala quota 274 km”, allora, con tutta evidenza, siamo a bordo di qualche mezzo di trasporto evoluto, perché solo un mezzo evoluto può volare a una simile altezza. Nove lettori su dieci – se non proprio dieci su dieci – avranno pensato a un’astronave, e l’ipotesi sarà confermata da lì a breve (con grande gioia del cervello, che ha avanzato una sua congettura e – vedendola convalidata – è incentivato a proseguire).

Attenzione a non fraintendere quel “alzo lo sguardo”: non è un uso improprio di un verbo percettivo, ma un’azione, un mattoncino [A]: è il movimento compiuto per spostare la sguardo da un punto all’altro, quindi è corretto. Il suggerimento – a ogni modo – è di non abusare di questa forma espressiva, perché la sua legittimità è limitata ai casi in cui il personaggio è perfettamente consapevole dell’azione che sta compiendo (come avviene qui) e basta poco a trasformala in un’espressione goffa, se non direttamente in un errore.

“Columbia volta capovolta e di coda” ci conferma l’intuizione iniziale: siamo su un’astronave, perché non è che vi siano tanti altri mezzi che possono volare a 274 km di altezza, capovolti e di coda. Il luogo – in prima approssimazione – è blindato, nel senso che ora sappiamo dove siamo. I problemi verranno dopo, quando si tratterà di darne una caratterizzazione precisa.

Molto buono anche il dettaglio delle “sfumature blu chiaroscuro dell’Oceano Indiano”, un’immagine ben visualizzabile a cui segue la reazione del personaggio (“mi tolgono il respiro”) secondo lo schema più elegante:
 
[percezione]+[effetti della percezione sul personaggio]

Il passaggio finale (“Strofino le nocche sugli occhi. Rimani concentrato Willie”) è perfettamente in flusso, ben collegato a tutto ciò che abbiamo letto in precedenza, e ne rappresenta una possibile conseguenza – in termini di azioni e pensieri – che incidentalmente ci porta a conoscenza del nome del personaggio.
 
Rick entra sul ponte, galleggia verso il sedile di sinistra e infila le gambe al posto di comando. Aggancia le cinghie sopra la maglietta grigia, all’altezza della vita.

«Propulsori orbitali?»

«Check motori RCS completato Comandante.»

Fa un rapido esame degli indicatori sul cruscotto.

«Ho avvertito cinque vibrazioni. Hai corretto l’assetto orbitale?»

Cazzo! Rick ha il corpo fuso con questa macchina, le lievi vibrazioni dei razzi Vernier gli hanno spifferato il mio rapporto in anticipo.

«Assetto ok, Vernier attivati per stabilizzare la velocità orbitale.»
 
Qui ci sono delle cose fatte bene, e altre in cui si vede che certi concetti sul senso di luogo non sono ancora stati assimilati.

Partiamo dal dialogo. Non c’è conflitto né obliquità, e il contenuto stesso delle battute – se preso parola per parola – è piuttosto criptico. Ma è un dialogo che mantiene un suo senso narrativo, per almeno due motivi: è uno scambio di informazioni che fornisce elementi utili – col gergo tecnico – ad accrescere l’immersione nella storia; e poi, globalmente, riesce comunque a rendere l’idea di ciò che sta accadendo.

Quel “fa un rapido esame degli indicatori sul cruscotto” non è la soluzione migliore. Cos’è che fa in concreto il personaggio? In cosa consiste, di fatto, il suo “rapido esame”? Come minimo gli avrà “lanciato uno sguardo”, ma “alzo lo sguardo” lo si è già utilizzato all’inizio, e forse – comprensibilmente – non si vuole riempire il testo di personaggi che lanciano occhiate di continuo a desta e a sinistra, di sopra e di sotto. Ci si dovrebbe ragionare un po’, per capire come rendere meglio l’idea di “un rapido esame degli indicatori”.

L’esclamazione “cazzo!” è un problema.

Bisogna fare attenzione a usare parolacce in narrativa. Sì, è vero, “cazzo” è diventato ormai un intercalare nel mondo reale, nella vita vera, e in molti pronunciano questa parolaccia – come altre – con assoluta leggerezza, per cui l’espressione è inflazionata e non più percepita così volgare, nel mondo reale.

Ma questa percezione attenuata è dovuta al fatto che – nel mondo reale – la parolaccia si diluisce in un flusso di parole ordinarie, come a dire che per quanti “cazzi” o altre parolacce puoi pronunciare, le parole ordinarie – si spera – rimangono comunque un multiplo, e quindi la “densità dei cazzi” – il rapporto tra il numero di “cazzi” e il totale delle parole pronunciate in un’unità di tempo, un minuto o un’ora o un giorno – rimane bassa.

La pagina, per contro, è una realtà limitata, circoscritta: i “cazzi” si notano subito, la loro densità appare alta e infastidisce, anche perché può indurre inferenze estrapolative (se ho letto un ‘cazzo’ nella prima pagina, anzi nella prima metà pagina, allora ce ne sarà uno in ogni pagina o metà pagina) e molti lettori potrebbero predisporsi male.

Il suggerimento è semplice: aspetta un po’, se ti è possibile, prima di far apparire delle parolacce nel tuo testo, e usale con parsimonia, perché – davvero – è un attimo a riempire le pagine di cazzi et similia, mutuando impropriamente i flussi esperienziali del mondo reale.

Anche quel “gli hanno spifferato il mio rapporto in anticipo” non è chiarissimo. C’è un rapporto? Di cosa si tratta? In che consiste? A chi è rivolto? Il passaggio è sicuramente migliorabile.

E veniamo al vero problema: “Rick entra sul ponte”. C’è un ponte? E dov’è? Dove lo devo collocare? Davanti al protagonista, evidentemente. Ma come è fatto questo ponte? Cioè, se immagino l’interno dell’astronave come una stanza, il ponte l’attraversa da una parte all’altra, va cioè dalla parete alla mia destra sino alla parete alla mia sinistra, oppure lo devo immaginare frontale, davanti a me? E, in questo secondo caso, qual è la sua esatta collocazione e conformazione, dove inizia e dove finisce? O forse non è così. “Ponte” – forse – non è il ponte come lo intendiamo nel senso comune. “Ponte” – ma sì, sarà sicuramente così – è un termine tecnico che identifica una zona precisa dell’astronave. Peccato solo che nessuno è mai stato in un’astronave e quindi non ha idea di come sia fatta questa zona (col rischio di evocare un “ponte” in senso classico). Insomma, si può sapere cosa devo visualizzare, quando leggo “Rick entra sul ponte”?

Io non ho dubbi che l’ambientazione interna dell’astronave sia cristallina all’autore del testo. Il punto è che deve essere cristallina anche per un generico lettore tiepido, che non è tenuto a sapere come è fatta un’astronave, e può conoscere solo ciò che l’autore gli dice e gli riesce a far evocare, e null’altro.

Ritorna al modulo 18F e ripassa la distinzione tra luoghi standard (dove “tutto è gratis”) e luoghi non-standard (dove “tutto è pagamento”). Non starò qui a ripetere le stesse cose. Semplicemente ribadisco che l’interno dell’astronave è un luogo non-standard, dove tutto – ma proprio tutto – deve essere opportunamente introdotto e presentato, e praticamente nulla si può dare per acquisito.
 
Gira il capo verso il sedile di destra, appoggia una mano sullo schienale.

«Ottimo lavoro, Willie, la Marina non è male come scuola, dopotutto!» Ride.

«Non quanto l’Aeronautica, Comandante.»

Rick torna serio.

«Willie… un’altra cosa.»

Il cambio repentino di tono non mi piace per niente.

«Quale cosa?»
 
Questo blocco tradisce una certa pigrizia, come se l’autore avesse fretta di arrivare al punto decisivo, e avesse quindi voluto accelerare la narrazione, pregiudicandone però la qualità.

Dove si vede la pigrizia? Nel beat “Ride” a conclusione della battuta, ad esempio.

Ci può ben stare che il personaggio rida a seguito di una battuta che lui stesso ritiene spiritosa, ma il punto è che ridere e basta, la risata non accompagnata da null’altro, oltre a creare un’anomalia estetica nel testo (un battuta lunga un rigo, un beat di una parola sola e per di più di appena quattro lettere) non è caratterizzante. Tutti – dal fruttivendolo sotto casa all’astronauta nello spazio – ridono da soli quando ritengono di essersene usciti con una frase brillante, e quindi il ridere e basta non caratterizza nessuno, proprio perché è comune a tutti. E noi – invece – vogliamo personaggi ben caratterizzati.

Ti sarà capitato sicuramente di sentir dire che “devi redigere le schede dei personaggi”, perché solo così puoi conoscerli davvero, e alcuni formatori ti forniscono pure i loro prototipi di schede, per facilitarti il lavoro.

E così tu – aspirante autore – ti ritrovi a compilare degli identikit estremamene dettagliati, che spaziano dagli ovvi dati anagrafici fino alle più minute descrizioni delle esperienze vissute dal personaggio dalla sua infanzia sino a oggi, con conseguente precisazione di tutti condizionamenti familiari, sociali e culturali a cui è soggetto.

È una pratica corretta e doverosa: serve a creare i 7/8 di sommerso dell’iceberg di Hemingway, nel presupposto che ti siano utili a scrivere quell’ottavo di cose visibili in superficie.

Non serve a nulla, per contro, redigere la scheda del personaggio se poi quella scheda non sai usarla neppure per fargli compiere un’azione appena un po’ più articolata di una risata  stereotipata.

Con le schede dei personaggi, a volte, sembra di rivivere l’antica pratica del “dare un colpo” alle ruote di un treno: era un controllo di sicurezza adottato per i primi treni – bisognava colpire le ruote con un bastone e assicurarsi che il colpo restituisse un suono sordo, che confermava la tenuta delle ruote – ma poi, col tempo, diventò un atto meccanico, un gesto da compiere perché sì, prima di far partire il treno, anche se più nessuno ne capiva il significato e nessuno prestava attenzione al suono prodotto dal colpo.

La scheda del personaggio non va redatta perché sì, perché se non la redigi non puoi iniziare a scrivere, come il treno non poteva partire, per abitudine, se prima non si colpivano le ruote.

La scheda del personaggio va redatta perché – al livello basilare – ti aiuterà a scrivere i beat che accompagneranno le loro battute (oltre che i contenuti delle battute stesse); e se quei beat finiranno con l’essere identici a quelli che avrebbe potuto compiere chiunque altro, allora saprai che la scheda del personaggio non ti è servita a nulla, come a nulla serviva dare un colpo alle ruote del treno, se poi non si prestava attenzione al suono restituito dal colpo.

Anche quel “Rick torna serio” è segno di pigrizia. Cosa abbiamo detto nel modulo 9? Che gli stati d’animo non si dichiarano mai esplicitamente, ma si comunicano attraverso un opportuno mix di mattoncini narrativi. La gente non va in giro con appeso al collo un cartello con la scritta “sono tornato serio”. Da cosa lo capiamo che Rick è tornato serio? Si è accigliato? Lo sguardo gli si è rabbuiato? Ha sospirato e poi ha fatto un sorrisetto forzato? O che altro? Vale la solita avvertenza: l’autore, ragionandoci, potrà trovare soluzioni infinitamente migliori di quelle che io ho prodotto qui all’istante, giusto per rendere l’idea.
 
Rick ritira la mano dallo schienale, si gratta la nuca. Lo sguardo spazia oltre il finestrino, il sole scompare dietro la nebbia azzurrina della curva terrestre. Settimo tramonto, per oggi.

«Ti hanno tolto il comando della missione STS-116, questioni politiche a quanto pare. Mi dispiace, Willie.»

Scuoto la testa, le parole mi si bloccano in gola. STS-116, il mio primo comando… mi chiedo dove abbia sbagliato.

Annuisco con uno scatto del mento, slaccio le cinture. La microgravità mi solleva dal sedile.

«Ho del lavoro da fare.»

Rick mi trattiene per un braccio.

«Willie—»

«Signore?»

«Tu non hai sbagliato niente.»

«Grazie signore.»
 
Questo blocco è ben fatto, sul piano della sceneggiatura: crea sofferenza ingiusta per il protagonista – di cui ci viene confermata la competenza con la battuta “tu non hai sbagliato niente” – e quindi stimola empatia. Non serve – come vedi – inventarsi chissà cosa: basta sapere di cosa si scrive e traslare realisticamente alcune classiche dinamiche degli ambienti di lavoro – “X” che soffia la promozione a “Y” o qualcosa di simile – alla storia narrata sulla pagina.

Rimane da verificare la correttezza di questo flusso:

Annuisco con uno scatto del mento, slaccio le cinture. La microgravità mi solleva dal sedile.

«Ho del lavoro da fare.»

Rick mi trattiene per un braccio.


Siamo sicuri che il nostro protagonista, una volta slacciate le cinture, sollevato dalla microgravità, e aver pronunciato la battuta “Ho del lavoro da fare”, non sia ormai troppo lontano per poter essere afferrato per un braccio da Rick?

Io non lo so, sinceramente, ma la mia sensazione è proprio questa: che sia passato troppo tempo, per far sì che Rick lo trattenga per un braccio. Magari sbaglio io, può darsi cioè che le tempistiche siano corrette, ma alla fine – a costo zero – la scena potrebbe essere riscritta per smazzar via ogni ambiguità.

Annuisco con uno scatto del mento e slaccio le cinture, Rick mi trattiene per un braccio.

«Willie—»

«Signore?»

«Tu non hai sbagliato niente.»

Mi libero dalla sua presa, la microgravità mi solleva dal sedile.

«Grazie Signore… ora ho del lavoro da fare.»

E così abbiamo introdotto anche un filo di conflitto (tra il personaggio che vuole andare via e Rick che lo trattiene).

Anche il passaggio:

il mio primo comando… mi chiedo dove abbia sbagliato.

può essere migliorato, reso più fluido, più diretto, emotivamente più impattante:

il mio primo comando… dove ho sbagliato? 
 
Proseguiamo.
 
Scalcio a piedi uniti il lato posteriore dello schienale, infilo il raccordo verso il ponte intermedio e il laboratorio. Balzo fuori dal portello, raccolgo le ginocchia in una capriola e saluto a dita aperte la videocamera maneggiata da Dave.

Perdo l’equilibrio, sbatto contro la paratia di dritta e aggancio con la punta di due dita la gabbia dei roditori. Giro il busto, sghignazzo.
 
«Visto che acrobazia?»

Dave mi molla uno scappellotto sulla nuca, scoppia a ridere.

«Abbiamo come pilota un bambinone. Che Dio ci aiuti!»
 
Qui abbiamo una sequenza narrativa fatta principalmente di azioni, che sembrano finalizzate a smorzare la tensione creata nel dialogo tra il protagonista e Rick.

Non ho particolari osservazioni, a livello di primo giro di editing, se non osservare come – ancora una volta – vengono usate espressioni vuote per un lettore tiepido. Cosa significa “infilo il raccordo verso il ponte intermedio e il laboratorio”? Infilo il raccordo? Cosa dobbiamo vedere? Ponte intermedio? Cioè? Laboratorio? C’è un laboratorio nell’astronave?

Il punto è sempre lo stesso: l’astronave è un luogo non-standard, e nei luoghi non-standard le cose non possono apparire così, all’improvviso, come si potrebbero far apparire un frigo o un forno in una cucina.
 
Andiamo a chiudere.
 
Gli faccio l’occhiolino e pigio on sul tasto del registratore.

«Giorno 6, soggetto R3: ottimo adattamento alla microgravità, assenza di anomalie nel sistema vestibol—»

«Willie e Dave sul ponte intermedio.»

C’è urgenza nella voce di Rick.
 
Questo passaggio – nei termini propri della sceneggiatura – ha tutte le apparenze di un incidente scatenante, e il suo arrivo è ben cadenzato: è stata delineata l’ambientazione – al netto delle sbavature segnalate –, sono stati introdotti i personaggi, è stata creata empatia verso il protagonista, quindi non serve tirarla ancora in là, e si può entrare nel tratto dell’arco che condurrà all’inizio della storia vera e propria.

Si trasmette la sensazione che sia sorto un problema (verosimilmente nel funzionamento dell’astronave) che però – se le cose son fatte bene – deve essere percepito da tutti, e in particolare dal protagonista, come un evento che rientra ancora nell’ordinarietà, che può essere risolto as usual: qualcosa che era meglio che non accadesse, ma, ora che è accaduta, sarà al più una gran scocciatura, di cui tutti sanno (credono di sapere) come liberarsi.

Ovviamente il lettore capisce subito che il problema si rivelerà molto più serio di ciò che credono i personaggi, i quali realizzeranno il dramma solo al momento della chiamata all’azione; e così, lungo tutto il tratto che va dall’incidente scatenante alla chiamata all’azione si è creata dell’ironia drammatica, che è un incentivo a proseguire nella lettura. E questo – semmai non lo avessi ancora capito – è uno dei motivi per cui incidente scatenante e chiamata all’azione devono essere tenuti separati, perché – banalmente – tenendoli separati si spinge il lettore a fare ciò che vogliamo che faccia: continuare a leggere.

Registro invece delle soluzioni sgraziate, a livello stilistico.

Mi riferisco, in particolare, all’uso dell’espediente “la voce”, già criticato nell’esercizio 4: “c’è urgenza nella voce di Rick”, che fa il paio con “il cambio repentino di tono non mi piace per niente” incontrato in un passaggio precedente.

Non è tecnicamente sbagliato, ma – come già annotato – ricorrere a “la voce” per comunicare stati d’animo è un approccio davvero minimalista, a cui si rischia di abituarsi proprio perché facile, ed è un attimo a ritrovarsi con un testo pieno di “la voce di qua”, “la voce di là”, “la voce su”, “la voce giù”.
 

 
Cosa ci portiamo a casa da questo esercizio?

Che scrivere vuol dire tenere costantemente alta la guardia: non confondere ciò che sai tu con ciò che sa il lettore; sforzati di conoscere i tuoi personaggi, non per il gusto estetico di conoscerli, ma per farli agire e parlare in coerenza con il loro profilo caratteriale; non aver fretta di smarcare le parti strutturali, perché parti strutturali non ne esistono in una storia ben fatta, e tutto concorre a dare spessore a luoghi e personaggi; non cedere alle soluzioni precotte.

Ogni calo di tensione dell’autore si riflette all’istante sulla pagina: viene consapevolemente sanzionato da un editor (con una correzione esplicita) e penalizzato anche solo a livello inconscio da un lettore tiepido (con un calo di attenzione).

Tieni alta la guardia, perché non ci sono alternative, e l’eccellenza deve diventare la tua normalità.

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