Modulo 26 – Esercizio #4

  
 
L’ho già spiegato nel modulo introduttivo, e non starò qui a rifare l’intero discorso. Mi limito a richiamare le conclusioni: un line editing ha senso se e solo se autore ed editor condividono la stessa conoscenza teorica, perché solo allora si è nelle condizioni di parlare e intendersi; la scrittura di un incipit, poi, è l’unico esercizio utile per un aspirante autore.
 
Ora abbiamo un testo che – nelle intenzioni – è stato concepito proprio così: come un incipit scritto con la tecnica del mattoncino.
 
Te lo propongo con la solita avvertenza: devi analizzarlo da solo, in autonomia, prima di leggere il mio editing.

 

Soppeso il ciocco in una mano, lo passo nell’altra, avvicino le narici alla corteccia, l’odore di muschio e fango mi provoca uno starnuto. Asciugo le labbra con la manica della giacca grigioverde e allungo il ciocco a Rambaldi.

«Signor Rambaldi, che ne dice di questo?»

Il vecchio brontola qualcosa da sotto l’ala del berretto militare, la stupida.

«Non hai ancora imparato?»

Accarezza la resina che gocciola da un tronco steso ai suoi piedi. Afferra tra indice e pollice l’aletta sfilacciata della stupida, la posa sul legno e inarca la schiena con i pugni sui fianchi. Le iridi indaco balenano sullo sfondo scuro del prato.

«Regola numero uno: separare i ciocchi in rapporto a lunghezza, diametro, essenza e, soprattutto, grado di umidità.»

Avvicina il viso al mio, alza la voce di due toni.

«Ragazzo, prendi una decisione!»

Il suo fiato caldo mi fa strizzare gli occhi.

«Sissignore!»

Faccio un ultimo esame del ciocco, lo rigiro tra le mani e lo lancio sui faggi medi.

Rambaldi segue la traiettoria con lo sguardo. Il pezzo di legno rimbalza contro un altro, un colpo sordo e finisce sull’erba. Il vecchio raccoglie la stupida e se la rimette in testa.

«Marco Centurio, vai subito a recuperarlo e portalo qui.»

In un batter d’occhio sono con il pezzo di faggio tra le mani e una scheggia infilzata nel pollice. Ad un passo da Rambaldi.

Il vecchio affila lo sguardo.

«Sei sicuro della tua scelta?»

Tamburella l’indice sopra la crepa nera che taglia in senso longitudinale il ciocco.

«Hai avuto tempo, ma quando si è trattato di prendere una decisione hai agito senza osservare. Questa crepa è marcia. Spezza il ciocco in due, ognuna guarirà la propria ferita in modo identico all’altra.»

Mi da due colpetti sul bicipite col dito nodoso.

«Chiaro?»

Non ho capito una mazza sulla questione delle due ferite ma annuisco senza fiatare.

Rovescia all’indietro le iridi inquietanti e con un braccio mi fa cenno di seguirlo.

«Vieni con me.»

Imbocchiamo un sentiero che sale ripido dietro la baita di Rambaldi. La luce del giorno va affievolendo.

«Siamo arrivati.»

Appoggio le mani sopra le ginocchia, inalo l’aria ricca di ossigeno dalle narici ed espiro dalla bocca spalancata. Rambaldi è fresco come fosse stato teletrasportato.

«Raddrizza quella schiena, ragazzo.» La vista si apre su un altopiano erboso, stelle sconosciute schizzano sopra e ai lati della cupola che racchiude a guscio l’atmosfera di Lupo Solitario.
 

 
Lo hai letto, sì? Hai provato ad analizzarlo, sì? E, dimmi, ti sei accorto del primo, gigantesco, problema?
 
No?!
 
Allora rileggilo daccapo, prima di passare alla mia analisi, e rileggilo ancora e ancora, finché non individui il problema più macroscopico.
 
 
Il problema del testo è che… non è un incipit.

E da cosa lo si capisce che non è un incipit?
 
Dai, ragiona: ce la puoi fare.


 
Cosa deve fare – tra le altre cose – un buon incipit? Catapultare il lettore dentro l’ambientazione, restituirgli all’istante il senso dell’intera storia.
 
E com’è possibile – allora – che l’elemento fantascientifico arrivi solo alla fine del testo?

Abbiamo letto quasi 500 parole, convinti di trovarci nel mondo ordinario, per poi scoprire – soltanto alla fine – di essere in realtà sull’immaginifico pianeta Lupo Solitario.

Regola
: se la tua storia è ambientata in un pianeta immaginario, serve trasmettere quanto prima l’ambientazione immaginaria; se la tua storia parla di un ispettore della Banca d’Italia che si metterà nei casini, allora gli elementi “ispezione”, “banche”, “casini” devono essere introdotti all’istante; se la tua storia affronta il tema del razzismo, allora il razzismo deve far capolino sin dalle prime righe (come avviene in American History X); e fermami pure, se ritieni di aver capito.

Questo testo, dunque, non è un incipit; rimane però un testo scritto con la tecnica del mattoncino, e quindi è analizzabile; lo possiamo pensare come a una possibile scena della storia, collocata in un’ipotetica pagina 28 di 350 – magari come l’apertura del secondo capitolo – e valutarla di conseguenza.
 
Partiamo.
 
 
Soppeso il ciocco in una mano, lo passo nell’altra, avvicino le narici alla corteccia, l’odore di muschio e fango mi provoca uno starnuto. Asciugo le labbra con la manica della giacca grigioverde e allungo il ciocco a Rambaldi.
 
L’attacco è complessivamente buono:

  • si inizia con un’azione del personaggio (soppesare il ciocco tra una mano e l’altra) che tiene in movimento la scena, e ciò è fondamentale per agevolare la simulazione della pagina; messo in negativo, bisogna evitare immagini statiche, perché il cervello fatica a visualizzarle e tende a dimenticarle rapidamente;
  • l’azione compiuta dal personaggio (soppesare il ciocco) ci suggerisce la localizzazione in un bosco, in una montagna o in altro luogo simile, come poi sarà confermato, e il cervello si rallegra quando vede convalidata una sua congettura (e perciò è invogliato a proseguire nella lettura);
  • il flusso narrativo è coerente: una sequenza di azioni (soppesare il ciocco e avvicinarlo al naso) genera una percezione olfattiva (odore di muschio) che a sua volta produce una conseguenza coerente (lo starnuto); nel mondo della pagina sta accadendo esattamente ciò che avverrebbe nella realtà, quindi il cervello non fatica a simulare, ed è invogliato a proseguire. Per mio gusto – ma sto parlando solo di un mio gusto, quindi non è un errore – avrei scritto “mi fa starnutire” (più breve rispetto a “mi provoca uno starnuto” e più allineato al tempo dell’evento stesso) o meglio ancora “mi strappa uno starnuto” (per enfatizzare che lo starnuto arriva all’improvviso); però, ripeto, sto solo parlando dei miei gusti, e non è un errore scrivere “mi provoca uno starnuto”;
  • compare un secondo personaggio (Rambaldi) per cui sappiamo da subito che il nostro protagonista non è solo; se ti sembra una cosa ovvia o semplice da realizzare, beh, sì, sarà pure ovvia e semplice, ma pensa a quanti testi hai letto (o magari scritto) dove il personaggio agiva, pensava, percepiva, avendo accanto qualcun altro, di cui il lettore faceva conoscenza solo alla fine della pagina. Ovviamente non bisogna ammassare i personaggi in scena, serve introdurli con gradualità, nel rispetto dei tempi della scena stessa, ma se in scena vi sono n personaggi, allora il lettore deve capirlo con una certa rapidità;
  • il flusso narrativo, infine, comunica bene l’obiettivo del personaggio, senza dichiararlo esplicitamente: è ovvio che lo scopo sia analizzare la qualità dei ciocchi, che non sarà un obiettivo particolarmente avvincente, però è chiaro, comprensibile (e perciò invoglia proseguire nella lettura).
A fronte di tante cose fatte bene ve n’è una – più piccola – fatta male.

Riesci a vederla?

Ti do un aiuto: è un (microscopico) infodump.

Allora, lo vedi?

Ancora un aiuto: è un’informazione fornita sì dall’interno della scena, ma in modo innaturale.

Hai capito di cosa parlo?

Della “manica della giacca grigioverde”, e per essere precisi del dettaglio “grigioverde”.

Perché mai il personaggio, nell’asciugarsi le labbra con la manica, dovrebbe badare al colore grigioverde della giacca? che è  Lui – il personaggio – sa bene come è vestito, e nella sequenza narrativa non c’è nulla che possa giustificare la sua attenzione verso questo dettaglio.

Per capirci, è come se io dicessi “infilo la mano dentro la tasca della mia tuta blu”. Ma perché mai dovrei notare, ora, che la mia tuta è blu? Cos’è, nella dinamica dell’evento (infilare la mano in tasca) che dà rilevanza al colore (blu) della tuta?

Quel “grigioverde” serve solo a informare il lettore, per dargli un ulteriore elemento visivo, ma non è un elemento che il personaggio noterebbe, data la situazione in cui si trova, e quindi è un infodump, pur microscopico, ma pur sempre infodump.

Che poi – di là di tutto – è così importante sapere il colore della giacca? Se non lo è, se il colore non aggiunge informazione utile al mood della scena, allora via, via, via… togli il colore, e lascia pure che sia il lettore a immaginare la giacca del colore che vuole. Se invece il colore ha una sua rilevanza, allora devi fare in modo che in scena accada qualcosa che ne giustifichi l’attenzione del personaggio.

Invento su due piedi, nell’intesa che l’autore potrà fare infinitamente meglio ragionandoci più di quei due secondi che vi ho dedicato io: un uccello potrebbe lasciar andare la sua cacca sulla giacca, oppure dall’albero potrebbe cadere una foglia che si posa sulla giacca, o vedi tu che altro, e il contrasto cromatico tra la cacca (o la foglia) e la giacca potrebbe dar luogo a una battuta di Rambaldi che ci informa sul colore.

Dì là dell’esempio, sicuramente migliorabile, va colto il punto generale: deve succedere qualcosa in scena che legittimi l’attenzione del personaggio verso il colore della giacca, a cui altrimenti non avrebbe motivo di badare.
 
Osservo, incidentalmente, come l’introduzione di una cacca di uccello, di una foglia o di un qualsiasi altro elemento pertinente, contribuisca a mantenere la tridimensionalità dell’ambientazione “bosco”, che nel seguito viene invece smarrita. Perché, sì, il lettore sa fin dal principio di trovarsi in un bosco – e questo è un pregio, come osservato – ma poi questo bosco diventa incredibilmente silenzioso, ovattato, inespressivo, in una parola “piatto”, bidimensionale. Come a dire che ciò che è stato fatto molto bene nel primo capoverso – con una ricchezza ben ragionata di stimoli percettivi – non lo si è riusciti a replicare lungo tutto il testo (e questo non va bene).
 
Andiamo avanti.
 
«Signor Rambaldi, che ne dice di questo?»

Il vecchio brontola qualcosa da sotto l’ala del berretto militare, la stupida.

«Non hai ancora imparato?»
 
Qui abbiamo una cosa fatta bene e una fatta male.

Partiamo da ciò che funziona: lo scambio di battute

Quali sono le caratteristiche di un buon dialogo narrativo? L’obliquità e il conflitto: a una domanda non si risponde mai direttamente, ma ci si gira sempre intorno, e al limite la risposta può essere un’altra domanda (come in questo caso) perché è solo con l’obliquità che si può sprigionare un flusso informativo significativo; e poi il conflitto, che non vuol dire zuffa o aggressività, ma opposizione o contrasto, perché solo così il lettore sarà invogliato a proseguire nella lettura per sapere come prosegue la storia (in questo caso per capire se e quanto il protagonista abbia realmente imparato a valutare i ciocchi).

Ti faccio notare come la risposta rude di Rambaldi sia suscettibile di creare empatia verso il protagonista, tramite il meccanismo della sofferenza ingiusta. Magari – e qui vien fuori il problema del testo di non essere un incipit – nelle x pagine precedenti avevamo visto tutto l’impegno del nostro protagonista per acquisire una specifica competenza nella valutazione dei ciocchi, e vederlo ora trattato con così tanta sufficienza ci porta a prenderne le parti. A ogni modo, anche senza avere informazioni pregresse, l’empatia funziona in ragione di una elementare dinamica emotivo, presentata nel modulo 8: se non sappiamo nulla del Signor “A” e del Signor “B”, e vediamo “A” prendersela con “B” (aggredirlo, criticarlo, o anche solo essere sgarbato) noi ci schieriamo spontaneamente dalla parte di “B”, perché le azioni o le parole negative hanno bisogno di giustificazioni forti per essere condivise, per aderirvi emotivamente, e in assenza si tende a schierarsi a difesa di chi viene attaccato.

Quindi, nel complesso, bene così. Avrei da suggerire solo una rifinitura: eliminerei quel “Signor Rambaldi” dalla battuta di dialogo, perché è ripetitivo e non serve. Che il personaggio si stia rivolgendo a Rambaldi è già chiaro dal gesto che compie (porgergli il ciocco) e richiamarne il nome non aggiunge nulla (e neanche a dire che quel “Signor” comunichi un senso di rispetto, già ben veicolato dal fatto che il personaggio gli si rivolge dandogli del “lei”).

Cos’è, invece, che è fatto male?

L’errore è sempre lo stesso, un infodump, e stavolta parecchio sgraziato.

Riesci a vederlo?

Ti do un aiuto, inventando su due piedi una frase diversa in superficie ma identica nella struttura.

La signora Luisa mi viene incontro col suo cane al guinzaglio, un barboncino.

Non senti – a pelle, a intuito – che qualcosa non va, che il flusso narrativo è artefatto?

Ragioniamo.

Il personaggio ha visto e riconosciuto la signora Luisa, tant’è che nella sua percezione visiva è proprio lei, la signora Luisa, a venirgli incontro, e non una generica donna non meglio identificata: sulla pagina ritroviamo esattamente l’esperienza (visiva) del personaggio, coerente con la conoscenza del personaggio (che vede la signora Luisa).

E poi cosa vede il nostro personaggio? Vede (e riconosce) un barboncino. Il personaggio sa perfettamente che il cane al guinzaglio è un barboncino; non vede un cane generico, di cui non sappia dire la razza, ma vede e riconosce un barboncino, e sulla pagina va riportata la sua esperienza percettiva esattamente come lui la vive.

Quindi la frase corretta è:

La signora Luisa mi viene incontro col suo barboncino al guinzaglio.

È scomparso l’elemento “cane”, o meglio, è stato sovrascritto dalla percezione del “barboncino”, perché il personaggio sa che quel cane è un barboncino, e quindi “cane” e “barboncino” diventano la stessa cosa, e precisamente collassano in “barboncino” (che è una parola standard, ampiamente diffusa, non equivocabile: tutti sanno che si sta parlando di un cane, e sanno pure come immaginarselo).

Sono osservazioni ovvie, se riportate a un caso ordinario, e che restano valide anche in casi più complessi.
 
 
“La stupida”: berretto militare con visiera, a calotta cilindrica
o più raramente semisferica, originariamente di colore kaki, oggi di colore verde.

L’autore aveva la necessità di far sapere che il personaggio conosce il nome tecnico del berretto militare indossato da Rambaldi.

Il personaggio, cioè, non vede un generico berretto – come il mio personaggio inventato non vedeva una generica donna con un generico cane, ma la signora Luisa col suo barboncino – bensì vede e riconosce un berretto che sa bene chiamarsi “la stupida”.

Perché, allora, il personaggio non percepisce direttamente il brontolio di Rambaldi da “sotto l’ala della stupida” (come il mio personaggio percepiva direttamente la signora Luisa e il suo barboncino)? Perché ha bisogno di premettere “del berretto militare”? Ovvio: per informare il lettore, per fargli sapere ciò che il lettore non è legittimato a sapere, per fargli capire che ciò che leggerà dopo (“la stupida”) è il nome tecnico di un berretto militare.

Oh, bella! Ma il personaggio – se è un personaggio vero, reale, tridimensionale – mica lo sa che c’è qualcuno che sta leggendo le sue avventure. Lui, il personaggio, semplicemente esiste, proprio come esistiamo tu ed io, e nessuno di noi – voglio sperare – ha pensieri o percezioni finalizzate a passare informazioni a delle misteriose entità ultrasensibili che osservano la nostra vita e di quando in quando potrebbero non capire tutto quel che ci accade. Il mondo della pagina è reale come il mondo reale: ne ho già parlato nel modulo 9 e non starò qui a rifare l’intero discorso.

Richiamo piuttosto il vincolo generale di ogni scrittura di narrativa: tutto ciò che avviene in scena deve essere informativo per il lettore e – al tempo stesso – avere perfettamente senso per i personaggi. Se un mattoncino narrativo informa il lettore, ma è insensato per il personaggio – come avviene in questo caso – allora la frase è sbagliata, e va rimodulata per riallineare i due elementi (l’informazione verso il lettore e la sensatezza per il personaggio).

Proseguiamo.
 
Accarezza la resina che gocciola da un tronco steso ai suoi piedi. Afferra tra indice e pollice l’aletta sfilacciata della stupida, la posa sul legno e inarca la schiena con i pugni sui fianchi. Le iridi indaco balenano sullo sfondo scuro del prato.
 
La frase è nel complesso molto buona per la scelta dei dettagli, tutti facilmente visualizzabili, e che – di nuovo – tengono in movimento la scena (la resina che gocciola, Rambaldi che si inarca).
 
Peccato per la sbavatura finale, quel “le iridi indaco balenano sullo sfondo scuro del prato” che suona piuttosto misterioso. Cosa sta vedendo il personaggio, esattamente? Sta davvero percependo delle “iridi” anziché semplicemente “gli occhi”? Si sta davvero spingendo a questo livello di dettaglio, nella sua osservazione? E cosa vuol dire, poi, che “balenano sullo sfondo scuro del prato”?
 
“Balenare” significa lampeggiare in lontananza o, in senso figurato, apparire fugacemente e improvvisamente.
 
Cosa vuol dire, quindi, che “le iridi indaco balenano sullo sfondo scuro del prato”? Cosa deve simulare il lettore?
 
Andiamo avanti.

«Regola numero uno: separare i ciocchi in rapporto a lunghezza, diametro, essenza e, soprattutto, grado di umidità.»

Avvicina il viso al mio, alza la voce di due toni.

«Ragazzo, prendi una decisione!»

Il suo fiato caldo mi fa strizzare gli occhi.

«Sissignore!»
 
Abbiamo – di nuovo – alcune cose fatte bene e altre fatte male.

In precedenza è stato comunicato lo scetticismo di Rambaldi sulle capacità valutative del nostro protagonista, per cui ora è giustificato che Rambaldi gli tenga una lezioncina su come si apprezzano le qualità di un ciocco, con cui consegna un’informazione utile anche al lettore, ed ecco tenute assieme le due istanze sul flusso narrativo di cui dicevo in precedenza (avere senso per i personaggi in scena, essere informativo per chi legge).

Buono e ben fatto anche quel “fiato caldo” che “fa strizzare gli occhi”: abbiamo – di nuovo – una percezione sensoriale diversa dalla vista (“il fiato caldo”) seguita dall’effetto suscitato sul personaggio (“mi fa strizzare gli occhi”).

Buono anche il livello di conflitto nello scambio di battute, con quel “Sissignore!” che conferma e consolida la sensazione del protagonista come un subalterno di Rambaldi.

Cos’è, invece, che è fatto male? Riesci a vederlo?

Qui, in effetti, può non essere così semplice individuare l’errore.

Ti do un aiuto: è un problema di “preveggenza”.

Niente, eh? Non riesci a vederlo, vero? Okay, guarda qui:

Avvicina il viso al mio, alza la voce di due toni.

«Ragazzo, prendi una decisione!»
 
Qual è il problema di queste frasi? Perché parlo di “preveggenza”?

Rambaldi avvicina il suo viso a quello del nostro protagonista e… alza la voce di due toni? Cosa significa alza la voce di due toni? A quale azione presente di Rambaldi – simultanea alla lettura – dovrebbe mai corrispondere questa frase? Il protagonista – e il lettore con lui – può sapere che Rambaldi ha alzato la voce di due toni solo mentre lo sente parlare (e realizzarlo a pieno solo dopo che ha finito di parlare) ma non può certo saperlo prima che Rambaldi inizi a parlare, quando tutto ciò che Rambaldi ha fatto è stato avvicinare il suo viso a quello del protagonista.

La frase – formalmente – sarebbe dovuta essere:

Avvicina il viso al mio, e si appresta ad alzare la voce di due toni.

per far sapere al lettore che l’imminente battuta di dialogo andrà simulata di due toni più elevata; ma – nella sostanza – è una frase assurda, perché cosa ne può sapere il nostro protagonista del tono con cui Rambaldi pronuncerà la battuta? È forse un veggente?

Torna al modulo sui dialoghi: dov’è che sei stato legittimato a usare “la voce” per comunicare l’intonazione di una battuta? Te lo dico io: da nessuna parte.

Non dico che “la voce” sia una scelta sbagliata in generale, sempre e comunque. Dico che bisogna prestare attenzione a usare questo espediente – “la voce” – per comunicare il modo con cui le frasi sono pronunciate, e più in generale ciò che accade in scena, perché sono pochi i casi in cui funziona, e comunque – anche dove funziona – spesso è indice di pigrizia.

Fai attenzione a usare “la voce”, perché è un attimo a trasformare il testo in una merda, a colpi di “la voce di qua”, “la voce di là”, “la voce di su”, “la voce di giù”.

E poi, a volerla dire tutta, cosa vuol dire che la voce si alza di due toni? Il personaggio ha forse misurato esattamente di quanti decibel è cresciuto il tono? E il lettore cosa dovrebbe simulare? Vedi come un’iniziale scelta infelice (“la voce”) crea poi tante altre ambiguità (“di due toni”)?
 
Proseguiamo.

Faccio un ultimo esame del ciocco, lo rigiro tra le mani e lo lancio sui faggi medi.
 
Quel “faccio un ultimo esame del ciocco” è borderline.

Cosa sta facendo realmente il protagonista? O, se preferisci, cosa deve simulare il lettore, se gli dici solo che il personaggio “sta facendo un ultimo esame”? In cosa consiste – in pratica – questo “esame del ciocco”?
 
Bisogna dirlo, se è rilevante, affinché il lettore lo possa visualizzare.
 
Rambaldi segue la traiettoria con lo sguardo. Il pezzo di legno rimbalza contro un altro, un colpo sordo e finisce sull’erba. Il vecchio raccoglie la stupida e se la rimette in testa.
 
Quel “Rambaldi segue la traiettoria con lo sguardo” crea uno sfasamento temporale.

Prendiamo questa frase – corretta – per capirlo bene.

Fabio segue con lo sguardo la traiettoria dell’aereo.

Questa frase è simulabile in modo realistico Fabio è con la testa in su per seguire il movimento di un aereo nel cielo, e il tempo di lettura (il tempo impiegato a leggere “Fabio segue con lo sguardo la traiettoria dell’aereo”) è ben allineato al tempo della pagina (al ritmo degli eventi all’interno della scena); percepiamo – da lettori – un movimento dell’aereo se non proprio lento comunque non troppo accelerato (come avviene nella realtà percepita di chi si trova a terra, anche se l’aero sta viaggiando a gran velocità).

Ma quanto tempo può durare invece la traiettoria di un ciocco lanciato per aria? Forse neanche un secondo, o appena più di un secondo, in ragione di quanto lontano venga lanciato, ma non di più (anche perché si presume che il cumulo di ciocchi malandati non sia troppo distante). Mettiamola così: quel “Rambaldi segue la traiettoria con lo sguardo” trasmette l’immagine di una traiettoria del ciocco “a rallentatore”, per dare modo a Rambaldi di seguirla con lo sguardo. Ma la traiettoria del ciocco è rapida e la sua rapidità è percepita da qualunque osservatore. Non siamo nel caso dell’aereo, dove la velocità dell’oggetto – l’aereo – è parecchio elevata, ma a vederlo da terra sembra che vada più lento, cosicché se ne può seguire il movimento con lo sguardo. Qui il movimento dell’oggetto – il ciocco – è veloce ed è percepito veloce.

La traiettoria del ciocco è quindi troppo rapida per essere seguita con lo sguardo, o per dir meglio, parliamo di un evento del mondo reale che si svolge con troppa rapidità per riuscire a replicarlo bene nel mondo della pagina (dove gli eventi sono scadenzati parola per parola, e quindi accadono con ritmi incomprimibili oltre una certa soglia).
 
Il tutto si sistema eliminando la frase “Rambaldi segue la traiettoria con lo sguardo” – ti accorgerai che il flusso narrativo non ne risente affatto – ma valeva la pena soffermarsi sul punto per ricordare l’importanza di allineare il tempo di lettura col tempo della pagina (che è un’abilità difficile da codificare e si può acquisire solo con la pratica).
 
«Marco Centurio, vai subito a recuperarlo e portalo qui.»

In un batter d’occhio sono con il pezzo di faggio tra le mani e una scheggia infilzata nel pollice. Ad un passo da Rambaldi.

Il vecchio affila lo sguardo.

«Sei sicuro della tua scelta?»

Tamburella l’indice sopra la crepa nera che taglia in senso longitudinale il ciocco.

«Hai avuto tempo, ma quando si è trattato di prendere una decisione hai agito senza osservare. Questa crepa è marcia. Spezza il ciocco in due, ognuna guarirà la propria ferita in modo identico all’altra.»

Mi da due colpetti sul bicipite col dito nodoso.

«Chiaro?»

Non ho capito una mazza sulla questione delle due ferite ma annuisco senza fiatare.

Rovescia all’indietro le iridi inquietanti e con un braccio mi fa cenno di seguirlo.

«Vieni con me.»
 


Questo blocco è complessivamente buono.

Apprezzabile un dettaglio vivido (la scheggia infilzata nel pollice) che indirettamente comunica bene l’apprensione del protagonista (preoccupato solo di obbedire all’ordine, senza avere altre accortezze nel raccogliere il ciocco) così come il livello generale di conflitto, corroborato dallo scambio di battute.

Molto buoni anche i dettagli della “crepa nera che taglia in senso longitudinale il ciocco” e del “dito nodoso” (che il protagonista ha effettivamente modo di notare, data la situazione).

Osservo che – se fosse un incipit, com’era nelle intenzioni – veniamo solo ora a conoscenza del nome del protagonista (Marco Centurio) ma ciò non è affatto un problema, e anzi offre un bel caso di discussione su quelle “costrizioni allucinatorie” – per dirlo con Pontiggia – che i dilettanti si auto-infliggono in un malinteso senso di chiarezza espressiva.

La domanda “quand’è che devo comunicare il nome del protagonista?” non ha – non può avere – una risposta precisa.

Il nome del protagonista – tautologicamente – lo si comunica non appena la narrazione ne dà spontaneamente occasione, né prima né dopo. Il lettore non è un carabiniere, un ufficiale giudiziario o un funzionario di Equitalia, che ha bisogno di sapere all’istante le generalità del malcapitato con cui si trova a parlare. L’accortezza però rimane sempre la stessa, valida per il nome del personaggio come per tutto il resto: puoi pure non dare subito determinate informazioni al lettore (come ad esempio il nome del personaggio) purché la loro mancanza non gli pesi e non lo distragga, o per metterla in positivo, purché nel frattempo – quando ancora non ha quelle informazioni – la sua attenzione sia monopolizzata da ciò che vede accadere sulla pagina. Per dirlo con uno slogan: il lettore non deve pensare a ciò che non sa.

Quindi, in questo caso, sapere solo ora che il protagonista si chiama Marco Centurio non è un problema, perché un lettore medio sarà stato attratto da un clima conflittuale ben gestito, e non avrà avuto quindi modo di pensare alla mancata conoscenza del nome del personaggio.

Annoto piuttosto alcune scelte formali discoste dallo standard, in fatto di dialoghi: la battuta va a capo dopo il beat per ben tre volte consecutive, anziché mantenersi allineata sulla stessa riga di testo.

Il vecchio affila lo sguardo.

«Sei sicuro della tua scelta?»

Tamburella l’indice sopra la crepa nera che taglia in senso longitudinale il ciocco.

«Hai avuto tempo, ma quando si è trattato di prendere una decisione hai agito senza osservare. Questa crepa è marcia. Spezza il ciocco in due, ognuna guarirà la propria ferita in modo identico all’altra.»

Mi da due colpetti sul bicipite col dito nodoso.

«Chiaro?»

Questo continuo andare a capo è ingiustificato, e a ogni modo crea una ripetitività di struttura che andrebbe evitata.

Il pensiero “Non ho capito una mazza sulla questione delle due ferite ma annuisco senza fiatare” è legnoso e crea un fastidioso ritardo temporale: se provi a simulare la scena, ti renderai conto che il protagonista annuisce all’istante, non appena Rambaldi ha detto “Chiaro?”, e solo dopo rielabora la situazione. Verrebbe quindi più o meno così:

«Chiaro?»

Annuisco senza fiatare. Mah… lui parla e lui si capisce…


Dove, al solito, quel “Mah… lui parla e lui si capisce…” me lo sono inventato in due secondi, per far intendere al lettore che  il protagonista non ha capito nulla di ciò che gli ha detto Rambaldi, anche se ha annuito. È ovvio che l’autore – ragionando per tutto il tempo necessario – potrà trovare un pensiero migliore per esprimere lo stesso concetto (e cioè che il protagonista non ha capito ciò che Rambaldi gli ha detto).

Ritornano poi quelle “iridi inquietanti”, di cui ho già parlato sopra, e su cui non vale la pena discutere ancora; se in qualche modo fossero state presentate nelle ipotetiche x pagine precedenti, allora, forse, potrebbero andare bene; ma “fanno strano”, se buttate così sulla pagina.
 
Andiamo avanti.
 
Imbocchiamo un sentiero che sale ripido dietro la baita di Rambaldi. La luce del giorno va affievolendo.

«Siamo arrivati.» 


Qui abbiamo un errore banale, ma proprio per ciò grave: un evidente, manifesto e intollerabile scollamento tra il tempo di lettura (nel mondo reale) e il tempo della pagina (nella realtà dei personaggi).

Quanto tempo hai impiegato tu – lettore del mondo reale – a leggere il passaggio:
 
Imbocchiamo un sentiero che sale ripido dietro la baita di Rambaldi. La luce del giorno va affievolendo.

«Siamo arrivati.»


Più o meno cinque secondi, giusto? E quanto tempo è servito invece ai personaggi per percorrere il sentiero e arrivare a destinazione? Non certo cinque secondi!

L’autore ha provato a trasmettere l’idea del passaggio del tempo con quel “La luce del giorno va affievolendo”, lasciando al lettore il compito di simulare il fluire di parecchi minuti, ma non è così che il tempo scorre nel mondo della pagina.

Qui i casi sono due: se è rilevante mostrare il cammino dei due personaggi lungo il vialetto, allora lo si mostra con tutti i dettagli utili allo scopo; se il cammino lungo il vialetto è invece irrilevante – come sembra essere, per come è scritto – allora si opera un taglio di scena.

I due personaggi potrebbero essere collocati all’inizio del sentiero; Rambaldi potrebbe dire o fare qualcosa, e poi partire a passo svelto; a quel punto il protagonista potrebbe avere un pensiero del tipo “devo sbrigarmi, se non voglio perderlo di vista” (al solito: l’autore – ragionandoci – troverà un pensiero migliore, più espressivo, per veicolare il concetto) e a quel punto… taglio di scena. Mettiamo tre asterischi e ripartiamo con i due personaggi arrivati a destinazione, e ciò che segue – in effetti – potrebbe anche essere lasciato così, perché comunica bene – implicitamente – ciò che è successo lungo il percorso (e cioè il fatto che per Rambaldi è stata una passeggiata, mentre per il nostro protagonista si è rivelata una gran fatica).
 
Appoggio le mani sopra le ginocchia, inalo l’aria ricca di ossigeno dalle narici ed espiro dalla bocca spalancata. Rambaldi è fresco come fosse stato teletrasportato.
 
«Raddrizza quella schiena, ragazzo.»
 
La vista si apre su un altopiano erboso, stelle sconosciute schizzano sopra e ai lati della cupola che racchiude a guscio l’atmosfera di Lupo Solitario.
 
Qui registro un punto rilevante: l’autore ha ben compreso che il conflitto deve permeare ogni riga di un testo narrativo. Quel “raddrizza la schiena” esprime perfettamente il bisogno del protagonista di rifiatare – di riprendersi, restando piegato – ostacolato dalla volontà di Rambaldi di vederlo dritto, in piedi.

Per il resto – come già notato – l’elemento fantascientifico arriva con un ritardo insopportabile, se il testo fosse un incipit.

Rimango perplesso – nel merito – su quelle “stelle sconosciute che schizzano”. Da quando, esattamente, le stelle “schizzano”? Bisogna immaginare una sorta di pioggia di stelle cadenti? E cosa dovrebbe significare “sconosciute”?
 
Sembra che qui l’autore sia caduto nella tentazione di far uso di qualche scena standard da film medio, o più in generale che abbia confuso ciò che sa lui (l’autore, che ha tutto in testa) con ciò che sa il lettore (che può conoscere solo ciò che si trova sulla pagina e ciò che ne può essere evocato secondo l’iceberg di Hamingway, ma non di più).
 

 
Questo testo è proposto in Quicksand, che –  lo avrai capito – è il font utilizzato per i testi “scritti bene”, per i testi che funzionano da esempi di “buona scrittura”. E che il testo sia complessivamente valido lo testimonia il fatto di averlo potuto editare: se si può correggere, vuol dire che è scritto bene.

Dopodiché, è vero, ci sono diversi errori, e alcuni anche gravi, ma proprio per ciò il testo è perfetto sul piano didattico: rubando la battuta a Marco Carrara, si impara qualcosa da un testo scritto bene, si impara poco o nulla da un testo scritto male, ma è solo da un testo scritto bene e con qualche errore qua e là che si può imparare davvero molto.

Più in generale, se andiamo oltre il metro rigoroso della tecnica del mattoncino, rimane un testo di una qualità stilistica superiore al 98% di ciò che puoi trovare sugli scaffali delle librerie.

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