Modulo 22A – “60 crazie”: dentro l’officina dell’artista

 
 
Chi sa fare sa, chi non sa fare insegna è la stupidata ripetuta pedissequamente da chi non sa fare, non sa insegnare, e non è buono neppure a imparare.

Chi sa fare fa, chi non sa fare insegna. E – dimmi un po’ – chi sa fare, da chi ha imparato? Perché qualcuno dovrà pur averglielo insegnato ciò che sa fare, non trovi?

Chi sa fare fa, chi non sa fare insegna. E quindi – secondo te – Emma Castelnuovo non sapeva “fare matematica” perché ha dedicato la vita all’insegnamento nelle scuole medie?

Non ha mai vinto la Medaglia Fields, non ha dato il nome a nessun teorema, non ha creato nulla di nuovo, ma con la sua didattica sui generis ha messo spontaneamente in contatto dei ragazzini di tredici anni con argomenti da scuola superiore e addirittura di livello universitario, li ha resi naturalmente propensi a una raffinatezza di ragionamento fuori dal comune, di cui abbiamo oggi una splendida testimonianza nel libro Matematica nella realtà.

E ha fatto superare la paura della matematica a chi sarebbe poi diventato Governatore della Banca d’Italia. Scusa se è poco.
 

 




Chi sa fare sa, chi non sa fare insegna. Se cominci a sentirti un po’ stupido… beh… sentitici ancora di più!

A ogni modo, siccome non posso impedire agli stupidi di frequentare il blog, prima o poi arriverà – e in realtà è già arrivata da tempo – la domanda più stupida di tutte: tu che insegni scrittura, mi fai vedere cosa hai scritto?

La saggezza convenzionale suggerisce di non discutere con gli stupidi – perché finiscono col portarti sul loro terreno, per poi batterti con l’esperienza – e allora azzeriamo ogni discussione, e mostriamogli pure quel che desiderano vedere: ciò che avevo iniziato a scrivere, prima di capire che insegnare scrittura – condividere le mie conoscenze con altri, trasmetterle, raccogliere i loro feedback – mi dava una soddisfazione incommensurabile rispetto alla pratica della scrittura in sé.
 

 

RETTANGOLINI DI CARTA COLORATA

Seguo la segretaria lungo il corridoio che conduce alla sala del consiglio di amministrazione, la chioma bionda le oscilla sul tailleur gessato blu, i tacchi battono al ritmo di un tamburo da guerra. Siamo alla resa dei conti, finalmente.

Carlo mi prende sottobraccio e rallenta il passo. «È stata un’ispezione complicata…»
 
Gli rivolgo una smorfia di dissenso. «Non più di tante altre.»

«Hai fatto un lavoro pazzesco, dico davvero» Mi strizza l’occhio, sorride. «
Prometto di lasciarti in pace per un po’: almeno per due settimane rimani fermo a Roma, se possibile anche tre, così rifiati.»

«Bontà tua, capo.»

La segretaria bussa con due colpi decisi, apre la porta senza aspettare una risposta. «Signori, sono arrivati gli ispettori di Bankitalia.»
 
Dalla vetrata in fondo alla sala la schiera dei consiglieri si volta verso di noi, uno stormo di rondini svolazza intorno alla guglia del grattacielo dirimpettaio, si avvicina alla vetrata e vira in alto. 
 
L’amministratore delegato ci viene incontro, con una cartellina grigia in mano. Mi rivolge un sorriso tenuto su con le mollette.

«Dottor Fubini, ci si rivede.»
 
Ricambio il sorriso di plastica  e annuisco appena.
 
Carlo gli allunga la mano. «Carlo Proia, capo del Servizio Ispettorato della Banca d’Italia.»
 
Sposta la cartellina sotto l’altro braccio. «La sua fama la precede, dottor Proia.» Sospira e gli stringe la mano, lo sguardo si rabbuia. «Marco Piattelli. Vorrei dire piacere di conoscerla, ma temo che la sua presenza qui non sia un un buon segnale per noi.»

«Dice bene: non sono mai belle cose, se devo scomodarmi per la consegna di un rapporto ispettivo.» Blocca la mano dell’amministratore, pare gliela stritoli. «Vogliamo iniziare?» Molla la presa e socchiude gli occhi. «Prima iniziamo, prima finiamo.»

«Certamente.» L’amministratore scorre il dito tra i presenti per una conta ideale. «Caffè per tutti? Anche per gli ispettori, sì?». Apre la cartellina, ne esamina il contenuto. Solleva lo sguardo verso la segretaria. «Francesca ha sentito? Undici caffè.»

Ci disponiamo intorno al tavolo ovale di cristallo, io e Carlo da un lato, il consiglio di amministrazione dell’altro. Una sfilza di bottiglie d’acqua ghiacciata segna il confine tra noi e loro. I vassoietti dei cioccolatini tra una bottiglia e l’altra sembrano voler chiudere ogni varco.

Estraggo il blocco di copie del rapporto ispettivo dalla ventiquattrore e le porgo all’amministratore delegato. Trattiene la sua, l’affianca alla cartellina e passa le altre ai consiglieri, a destra e sinistra.
 
Ci accomodiamo. I consiglieri sono a testa china sul rapporto: chi lo fissa immobile, chi ci tamburella sopra con un dito alla volta, e chi sfoglia le pagine a scatti.  Salterete tutti per aria, preparatevi a sloggiare il culo da queste poltrone, a dire addio a questa reggia così lontana dal mondo reale.

Apro una bottiglia d’acqua, riempio il bicchiere e mi bagno appena le labbra. Prendo la mia copia del rapporto e la sistemo sul tavolo, Carlo gli poggia sopra la mano.

«Se non ti spiace, Diego, vorrei dire due parole, prima della lettura del rapporto»

Mi stringo nelle spalle e sgrano gli occhi. «Ci mancherebbe.»

Passa in rassegna il consiglio di amministrazione con lo sguardo, si alliscia la barba, come se stesse cercando lì per lì le parole da dirgli. Che attore che è! Da mo
’ che si sarà preparato il discorsetto, come al solito, e ogni volta dà l’impressione di improvvisare. Gli verso dell’acqua, sicuramente ne avrà bisogno.

Mi rivolge un sorriso di ringraziamento.
 
«Signori, la fiducia è un bene che voi banchieri riscuotete, ancor prima di concedere. Il cliente di una banca è già troppo impegnato a sudarsi il proprio reddito, per poter spendere altre energie a capire chi siano i bravi e gli onesti tra voi. Deve fidarsi che il banchiere all’angolo, più o meno capace, più o meno svelto, più o meno simpatico, sia comunque lì per servirlo.»
 
Intreccio le dita a formare una pistola puntata verso l’alto, batto i pollici uno contro l’altro per accompagnare la sua ramanzina. Può dare lezioni di recitazione, quandi ci si mette.
 
«L’etica professionale deve vincolarvi
più dei codici e dei regolamenti, e deve vincolare tutti, dall’amministratore delegato sino al funzionario allo sportello, perché non ha senso guadagnare denaro se poi si perde la reputazione»

DiegoIl viso rugoso di nonna Teresa mi si materializza davanti a che serve guadagnare il mondo, se poi si perde la propria anima? Scuoto appena la testa per ridestarmi.

«… perché i vostri profitti non hanno valore, se sussistono dubbi sulla correttezza dei comportamenti con cui li avete realizzati.»

Mi giro verso Carlo, schermando la bocca con la mano aperta. «Più che dubbi, certezze.»

La porta si apre, la segretaria entra con un vassoio in mano, in un equilibrio precario. Gira intorno al tavolo per distribuire i caffè, il tintinnio dei piattini riecheggia nella sala. Mette il vassoio sotto il braccio e fa un mezzo inchino all’amministratore delegato.

«Serve altro, dottor Piattelli?»

L’amministratore la congeda come se stesse scacciando via una mosca. Che pezzo di merda!

Scarto un cioccolatino: è al latte. Lo consumo insieme al caffè, l’unica cosa buona qua dentro.

Carlo
manda giù un sorso d’acqua, sospira. «L’ispezione del dottor Fubini ha documentato tutta la vostra spericolatezza nell’imbarcarvi in un business dagli enormi rischi legali e di reputazione.» Strappa la bustina di zucchero con un colpo secco e ne versa il contenuto nel caffè. Gli infila dentro il cuccchiaino, gira e rigira, tenendo lo sguardo fisso sull’amministratore delegato. «Avete invogliato sempre più clienti a vendere i propri titoli di Stato per acquistare diamanti; glieli avete presentati come un investimento sicuro, un bene rifugio per mettersi al riparo dall’incertezza dei mercati; avete pubblicato sui principali giornali finanziari delle quotazioni fittizie, inventavate di sana pianta, per dargli a intendere che stavano guadagnando i 5, il 10, il 15 percento, quando oggi è un miracolo spuntare un rendimento del 3.» Toglie il cucchiaino dalla tazzina, lo lascia sgocciolare e lo posa sul piattino. «Il dottor Fubini, con i contratti e i flussi contabili alla mano, ha documentato la reale struttura del business: il cliente pagava 100 per un diamante che nella migliore delle ipotesi valeva 40, e gli altri 60 erano i vostri profitti di intermediazione, da ripartire con le società fornitrici» Mi fissa come per chiedere conferma della bontà della sua sintesi.

Prendo un lungo respiro e annuisco. Sì, è poi per ringraziarli del collocamento li omaggiavano fuori sacco con sculture antiche, dipinti e monete da collezione. Peccato non averlo potuto scrivere nel rapporto.

Carlo manda giù il caffè tutto d’un fiato. «Signori, il rapporto ispettivo ha i suoi formalismi, e non riesce a dirlo con la chiarezza che avremmo voluto, ma io, qui, posso dirlo senza troppe remore.» Sbatte la tazzina sul piattino, uno scampanellio riecheggia come un gong. «Voi avete condotto
conapevolmente una truffa ai danni di oltre diecimila risparmiatori.»

Un brusio crescente si diffonde nella sala. L’amministratore delegato si gira da destra a sinistra e da sinistra a destra, fa il gesto del time-out da un lato e dall’altro per riportare la calma. Il consigliere che gli siede accanto fa per alzarsi, l’amministratore lo blocca per un braccio e lo rimette risedere. Due consiglieri in fondo non la smettono di confabulare, un altro mi fissa muovendo gli indici come tergicristalli impazziti per esprimere il suo dissenso.

L’amministratore batte le dita sul tavolo, le vibrazioni aumentano e il brusio si affievolisce.

Sospira a bocca aperta, neanche avesse sollevato chissà quale peso. «Dottor Proia, gli ultimi mesi sono stati difficili per tutti—»

«Soprattutto per il dottor Fubini e il suo gruppo, direi.» Mi mette una mano sulla spalla. «Raramente i miei ispettori hanno dovuto lavorare in un ambiente così poco collaborativo, avrei voglia di dire ostile

L’amministratore alza appena le mani, fa segno di rallentare. «Era Oscar Wilde a dire che nessuno è così ricco da poter riscattare il proprio passato, giusto?» Apre la cartellina davanti a lui, la facciata copre il rapporto ispettivo. Estrae dei fogli spillati e ce li mostra pinzandoli tra indice e pollice. «A tutti però è concesso di agire sul presente.
» Fa scorrere i fogli sul tavolo sino al confine tracciato dalle bottiglie d’acqua, ritrae la mano e dà un colpo alla giacca come per stirarla.
 
«L’altro ieri abbiamo convocato un consiglio straordinario, con un solo punto all’ordine del giorno: la questione delle perdite della nostra clientela sugli investimenti in diamanti. Davanti a voi c’è il verbale della seduta, se volete degnarvi di leggerlo.»

Carlo stira il collo, si alliscia la barba sul mento. «La ascoltiamo, dottor Piattelli.»

«Sono solo tre pagine: il consiglio di amministrazione più veloce della storia, neanche quindici minuti.»
 
Si alza, sposta un vassoio di cioccolatini e fa passare il verbale in mezzo alle bottiglie, fino a portarlo sotto lo sguardo di Carlo. Resta in piedi, con le mani poggiate sul tavolo e lo sguardo fisso su di noi.
 
«Abbiamo deliberato all’unanimità il rimborso integrale alla clientela dei capitali investiti e il trasferimento dell’intero costo sul bilancio della banca». Allarga le braccia come per recitare un “Padre Nostro”. «Quest’anno chiuderemo in perdita: niente dividendi per gli azionisti, nessun bonus né per noi e né per il top management.»

Pòre stelle! Addirittura niente bonus. E quindi? Cosa credono? Che eviteranno le sanzioni e la procedura di rimozione?

Il cuore inizia a martellarmi. Calma, devo stare calmo. Rovisto ancora nel vassoio dei cioccolatini. Ce ne sarà un altro al latte?

Carlo trascina a sé il verbale, sfoglia la prima pagina e gli scappa una risatina. Gira la seconda, gli picchietta sopra. Ha un’espressione soddisfatta, rasserenata.
 
«Complimenti Diego,» bisbiglia.

«La nostra buona fede è fuori discussione.» L’amministratore rimette a posto il vassoio di cioccolatini tra le due bottiglie e si siede. Mi lancia un
’occhiata di sfida. «Io spero solo che professionisti rigorosi come il dottore Fubini possano andare in tutte le banche, perché situazioni simili alla nostra possono capitare a chiunque, senza colpa di nessuno, e sarebbe un dramma non accorgersene o far finta di niente.»
 
Carlo sorride. «Il dottor Fubini avrebbe pure diritto un po’ di riposo. Gli ispettori hanno anche delle famiglie. E l’anche non è un inciso secondario.»



Il telegiornale trasmette il servizio sull
’ultimo turno di Champions League. Soffio sul cucchiaio, il brodo fa delle ondine. Buono, ci voleva proprio. Mi verso del Donnafugata  Ben Ryé e lo sorseggio.

Valeria ha la testa china sul piatto, i riccioli neri le scivolano sul grembiule da cucina; infilza le crocchette come fossero prede da catturare, ogni boccone è uno sbuffo.

Fagocita l’ultima crocchetta e si pulisce la bocca. «C’è da pagare la rata dell’asilo: sono quattromila euro, mi pare, o forse un po’ di più.» Si arrotola un riccio tra le dita, lo stira verso il basso. «Per favore, sbrighiamoci: detesto essere sollecitata.»

Le porto via la mano dai capelli e gliela stringo forte. «Faccio il bonifico stasera stessa, okay?»

Si libera dalla presa, balza in piedi col piatto vuoto in mano e sparisce in cucina.

È stanca. Magari questo week-end lasciamo Marco da mamma e ce ne andiamo fuori da qualche parte, solo io e lei.

Due fettine di carote e un pezzo di sedano galleggiano nel piatto. Lo svuoto con un paio di cucchiaiate, verso altre due dita di vino e mando giù.

«Papà!» Marco mi piazza una scatola di Harry Potter sotto il naso, la smuove e i lego fanno un gran rumore.
«Giochiamo, sì?»

Gli pizzico la guancia. «Arrivo, amore mio, arrivo
Con lo sguardo gl indico la tavola. «Sparecchio e poi costruiamo insieme tutto il castello.»

Impilo piatti e bicchieri, appallottolo i tovaglioli sporchi. La classifica dei gironi di Champions scompare e il conduttore del tg torna in primo piano.

«Vi devo ancora una notizia, prima di chiudere». Piega la testa e smista dei fogli. «La Banca d’Italia ha comunicato qualche minuto fa»
 
Afferro il telecomando e alzo il volume.

«… un’offerta per l’acquisto del Banco dei Marzocchi. Una cordata di imprenditori stranieri sarebbe pronta a versare 100 milioni di euro nelle casse della storica banca fiorentina, da oltre tre mesi in amministrazione straordinaria.» Il faccione occhialuto ritorna a occupare lo schermo. «Ogni tanto ci sono delle buone notizie. C’è da sperare che questa drammatica vicenda abbia finalmente trovato una soluzione.» Sorride e riassetta i fogli. «Dopo di noi l’approfondimento politico sulla crisi di governo, e a seguire una nuova puntata di Atlantide, dedicata al centenario della marcia su Roma. A domani.»

Spengo la tv. C’è un acquirente per il Banco! Una cordata straniera, per forza. In Italia quella vagonata di merda non l’ha voluta nessuno.

Appoggio piatti e bicchieri sul ripiano accanto ai fornelli. «Qualcuno vuole comprare il Banco dei Marzocchi.»

«Quindi?» Valeria fa capolino dall’anta dello scolapiatti. «Te ne vai di nuovo a spasso?»

«No, non credo, cioè… sono appena tornato.» Apro la lavastoviglie e allineo dentro i bicchieri. «Ma che c’entra?»

Si asciuga le mani col grembiule. «C’entra che non ci sei mai, che sei sempre in giro, ecco che c’entra.»
 
Infilo i piatti e le posate, incastro pentole e padelle. Stiamo calmi.

«Stare in giro è il mio lavoro: gli ispettori della Banca d’Italia viagg
»

«Cinque anni, Diego, cinque!» Allarga la mano e sbuffa. «È da quando è nato Marco che avresti dovuto chiedere il trasferimento dal quel maledetto Ispettorato.»

Verso il detersivo e seleziono il lavaggio di 2 ore e 20, schiaccio il tasto di accensione e chiudo lo sportello.

Dal ripiano della cappa la collezione di bicchierini da caffè mi sorride, con la sua disposizione a semicerchio. Athen, Taormina, London, Lisona, Matera, Barcelona, Malta, Vietri, Paris. Ogni viaggio, un bicchierino: quanto siamo stati felici ogni volta…

Valeria mi fissa con le gambe divaricate e le mani sui fianchi. «Non hai nulla da dirmi?»

“KEEP CALMA and UN BACIO ALLO CHEF”. Lo farei pure quel che c’è scritto sul grembiule, ma potrebbe arrivarmi uno schiaffo; l’avevamo comprata a Vietri, nello stesso bazar del bicc—

«Quindi? Non dici niente?»

Sospiro e le sorrido, m
’impongo di tenere il suo sguardo. Sembra che tu non possa vivere senza un attico ai Parioli, senza una scuola internazionale per Marco, senza viaggi per il mondo, senza una spesa fatta di Eataly. Il gorgoglio della lavastoviglie spezza il silenzio. E da dove credi che arrivi tutto questo maledetto denaro?

«La minestra era spettacolare, davvero.» Le sfioro il viso con l’indice. «Scusami, Marco mi sta aspettando.» Mi fermo sulla porta e la cerco con la coda dell’occhio. «Perché non vieni anche tu a giocare con noi?»

«Perché lo ha chiesto a te di giocare, non a me.»

«Come vuoi.»



Marco è seduto a gambe incrociate sul plaid dei dinosauri, con un cowboy in una mano e un indiano nell’altra. Allarga un sorriso che mostra tutto il vuoto lasciato dagli incisivi caduti e mi fa segno di venirgli accanto.
 
Faccio spazio tra un lupetto giallorosso di peluche e l’astronave di Star Wars, e mi accovaccio accanto a lui. Lancia il cowboy e l’indiano per aria, apre la scatola di Herry Potter si riempie il pugno di lego e me li porge.

«Dai papà, facciamo il castello!»

Gli scompiglio i riccioli. Qualcuno vuole quella montagna di merda del Banco dei Marzocchi. Avvicino due lego, Marco ne sistema uno sopra per bloccarli e mi sorride.

«Va bene così, papà?»

«Perfetto!»

Cento milioni di euro per una montagna di merda che le banche italiane non hanno voluto neppure in regalo. Aggancio quattro lego uno sopra all’altro. E ora sbuca fuori una cordata straniera. O è un club di ricchi scemi oppure… già, oppure cosa?

Prendo la guglia del castello. «Mi passi il pezzo circolare?»

Marco smista alcuni pezzi, ne afferra uno, lo guarda e lo butta via. Si gratta la testa. «Quale?»

«Guarda, penso sia finito laggiù
Gli indico una montagnola di pezzi accanto a un drago di peluche.

Gattona sino al drago, raccoglie quanti più lego possibili con entrambe le mani e me li piazza sotto il naso. Sorrido e lo alleggerisco un po’. Mi ritrovo due pupazzetti tra le dita, uno con un turbante viola in testa, l’altro con una lunga barba bianca e una bacchetta magica. Li sistemo uno di fronte all
’altro.

«Questi due chi sono? Come si chiamano?»

Scuote la testa e sgrana gli occhi.

«Non lo sai? Beh, da come si guardano a me sembra che si stiano parecchio antipatici.» Sbatto i pupazzetti uno contro l’altro. «Dammi subito quel turbante! Scordatelo, vecchio barbuto! Come ti permetti, io sono il grande mago

Marco esplode in una risata, gli occhi brillano, sulle guance gli si scavano le fossette.

C’è un acquirente per il Banco! Domani in ufficio non si parlerà d’altro.


Passo il badge sul lettore ottico: 09:58. Il teatrino per lasciare Marco all’asilo oggi è durato più del solito. Vabbè, fa niente: l’importante è averlo lasciato sereno.

Nel corridoio Alessandra mi viene incontro a passo svelto. «Diego, finalmente sei arrivato: il capo ti vuole, è urgente.»

«Di urgente c’è ben poco nella vita.» Entro in stanza e mi tolgo il cappotto. «Ho tempo per un caffè?»

«Credo proprio di no: ti aspetta nell’ufficio del Governatore.»

Rimango vicino all’appendiabiti, con le braccia alzate e il cappotto in mano. Aggrotto lo sguardo. Sta scherzando? Attacco il cappotto, stiro le maniche e tolgo i pelucchi uno a uno. Prima o poi dovrò comprarne uno nuovo.

«Diego, hai capito cosa ho detto?»

«Sì, ho capito: il Governatore mi aspetta nel suo ufficio» Storco gli occhi e agito le mani come un giocoliere. «C’è altro?»

«Smettila!» Mi afferra per il braccio e mi trascina fuori.

Però, che recitazione: tutti premi Oscar qua dentro. «Molto belli gli arabeschi sulle unghie, Ale. Quanto impieghi a farli?»

«Datti una sistemata.» Mi chiude l’ultimo bottone della camicia. «Ho incrociato Carlo sulle scale, quando sono arrivata» Tira il lembo più corto della cravatta e aggiusta il nodo. «Stava andando in tutta fretta dal Governatore, vuole che lo raggiungi immediatamente.» Dà una scrollata alla giacca, alliscia le maniche. Indietreggia e mi squadra. «Sei mai stato nell’ufficio del Governatore? Sai dov’è?»

Scuoto la testa. «Perché dovrei? Sono solo uno dei settemila soldatini.»

«Entri a Palazzo Kock e sali la scalinata bianca accanto alla lupa in bronzo, oppure vai a sinistra e prendi l’ascensore, piano 1N. Sbrigati!»



Le porte dell’ascensore si aprono, il pianerottolo è un loculo. Con un solo passo mi ritrovo davanti a una porta in legno a due ante, con vetri coperti da tendine bianche ricamate. “SPINGERE PREGO”.
La targhetta sopra la maniglia sembra mandare un messaggio subliminale: tirare è la scelta sbagliata, e a questo piano non sono ammessi errori.   
 
Un affresco con tre angeli in contemplazione di Dio occupa l’intera parete dell’anticamera; a sinistra si apre un salone con delle statue di antichi guerrieri che costeggiano le pareti; a destra una porta socchiusa svetta sino al soffitto, la maniglia mi arriva al naso. Sbircio dalla fessura: un marcantonio in completo scuro, rasato, passeggia avanti e indietro accanto a una vetrata blindata. Spingo appena la porta, il cigolio lo fa voltare. Divarica le gambe e incrocia le braccia, alza il mento e una smorfia gli deforma il viso.

«Desidera?»

«Sono Diego Fubini.»

Mi esamina con lo sguardo, da capo a piedi, come se fossi qui per sbaglio.

Abbozzo un sorriso. «Il mio capo, il dottor Proia, è in riunione con il Governatore e… sì, ecco, mi è stato detto di venire.»

Si gratta il mento e arriccia il naso. Non sembra granché convinto. Forse non è così che ci si presenta al Governatore, ma che altro avrei dovuto fare?

Digita un codice sul dispositivo elettronico attaccato al muro, la vetrata fa uno scatto. La oltrepassa, la serra di nuovo e scompare dietro un angolo.

Controllo l’i-Phone di servizio: nessun messaggio, nessuna chiamata senza risposta. Controllo pure il mio personale: niente, tutto a posto. Calma: qualcuno mi avrebbe avvertito, se fosse stato davvero così urgente.

Massaggio la nuca e ruoto il collo, le ossa scricchiolano. Che diavolo vorrà da me il Governatore? Alzo la testa, strofino la guancia ruvida. Qualunque cosa sia, era meglio se mi facevo la barba. Sospiro: cosa diav
 
I diamanti, cazzo! Vuoi vedere che quella merda di Piattelli è venuto qui a frignare per come è andata l’ispezione? E magari ha pure trovato chi gli ha dato retta.
 
Il cuore accelera, un rivolo di sudore mi scende sulla fronte. Gli passo sopra due dita per asciugarlo e prendo bel respiro. Scuoto la testa, il cuore continua ad andare per conto suo. Problemi loro: il mio rapporto è blindato, e gli accomodamenti politici non sono affari che mi riguardano.

Ecco il bestione di ritorno. Magari ora scopro che è tutto uno scherzo.

Sblocca la vetrata e la tiene aperta con la mano. «Non è questa la procedura per essere ricevuti dal Governatore.» Si scosta per lasciarmi passare. «Comunque prego, si presenti in segreteria, la prima stanza dopo l’angolo.»

La moquette rossa soffoca il rumore dei miei passi, quadri d’epoca di santi e madonne accompagnano il mio cammino lungo il corridoio. Quando si dice il santuario della finanza. Giro un dito intorno al colletto per allentare la pressione dell’ultimo bottone, strofino ancora la guancia: la barba, dovevo farmi la barba.

La porta della segreteria è aperta. Mi fermo sull’uscio: da dietro il monitor del pc arriva un ticchettio serrato di dita sui tasti, delle scarpe vellutate col tacco fanno capolino da sotto la scrivania. Tossisco appena per richiamare l’attenzione e dal monitor si affaccia un viso di donna, sormontato da uno chignon con due ciocche biondo cenere che scendono sulla guance. Sfila gli occhiali a goccia e mi sorride.

Deglutisco. «Sono Fubini, del Servizio Ispettorato.»

Accentua il sorriso e solleva il telefono. «Signor Governatore, è arrivato il dottor Fubini.» Annuisce. «Bene, lo faccio entrare.» Rimette a posto la cornetta e mi indica la porta alle sue spalle. «Prego dottor Fubini, il Governatore la sta aspettando.»

Afferro la maniglia dorata: è fredda, le incisioni in rilevo mi si imprimono sul palmo. Trattengo il respiro. A colloquio con il Governatore, prima o poi doveva capitare. Butto via l’aria, giro e spingo.

Da due finestre ad arco passa così tanta luce da abbagliarmi. Il Governatore è alla scrivania, tra due bandiere italiane fissate a terra, con alle spalle l’arazzo di un castello. Una pianta all’angolo sfiora il soffitto e fa sembrare minuscolo l’orologio a pendolo in legno scuro all’angolo opposto.

Carlo sorride e mi fa segno di accelerare, il parquet scricchiola sotto i miei passi. Questo posto è irreale, fuori dal mondo. Chiusi qua dentro si potrebbe pensare che là fuori governi ancora il conte di Cavour.

«Signor Governatore, il dottor Diego Fubini.»

Il Governatore inclina la testa per salutarmi. Con un gesto della mano mi invita a sedere.

Eseguo l’ordine. Okay, prima o poi doveva succedere; e ora vediamo cosa può volere da un semplice soldatino.

Carlo mi strizza l’occhio. «Tutto bene, Diego?» Appoggia una mano sulla mia spalla e si rivolge al Governatore. «Il dottor Fubini è un ispettore giovane, ma già di grande esperienza». Mi indirizza uno sguardo dubbioso. «Da quanti anni sei con noi, Diego? Più di dieci, vero?»

«Tredici,» sussurro.

«Tredici anni!» Mi dà una pacca sulla spalla e sorride. «Il dottor Fubini è tra i nostri ispettori migliori, sicuramente uno dei più versatili: è un matematico prestato alla finanza, lavora sui modelli per la misurazione dei rischi, ma si è occupato anche di strategie di business e di analisi di bilancio, e poi» Alza il pollice. « è lui ad aver smascherato l’affaire diamanti.»

Ballonzolo sulla poltroncina alla ricerca di una posizione comoda, il pendolo oscilla. Quando finisce questa sviolinata?
 
«Coordina un gruppo di lavoro in Banca Centrale Europea, e occasionalmente ha dato una mano al settore antiriciclaggio—»

«E colleziona francobolli antichi, giusto?» Il Governatore mi fissa con le mani giunte sotto il naso.

Eh?! Cos’è che vuol sapere? Se colleziono francobolli?

«Lei colleziona francobolli antichi, corretto?» Indica Carlo con lo sguardo. «Il dottor Proia, qui, mi diceva che lei è un raffinato intenditore filatelico.»

Carlo socchiude gli occhi e annuisce, per invitarmi a confermare.
 
Mi scappa un sorriso infantile. «Sì, colleziono francobolli degli antichi Stati italiani. Ha presente, sì? Le Due Sicilie, il Lombardo Veneto, lo Stato Pontificio—»

«I Ducati di Modena e Parma, il Granducato di Toscana e il Regno di Sardegna.» Il sorriso del Governatore, di rimando, è una lama affilata. «Di francobolli non so nulla, ma la storia d’Italia la conosco anch’io.»
 
«Mi scusi,» sussurro abbassando la testa.

Carlo sospira e mi lancia un’occhiataccia di traverso. «Signor Governatore, la prenda come una testimonianza della passione del dottor Fubini per l’argomento: l’entusiasmo lo travolge quando si parla di francobolli antichi.»

«E oltre all’entusiasmo, dottor Fubini, immagino che lei sappia anche valutarli i francobolli». Spinge in su gli occhiali e ricongiunge le mani sotto il naso. «Lei saprebbe attribuire un prezzo il più possibile oggettivo a un francobollo antico?»

Un prezzo oggettivo? A un francobollo antico? Questo la dice tutta su quanto poco ne capisce.

Corrugo la fronte, ci passo sopra le dita alla ricerca delle parole giuste. «Io potrei pure dare la più obiettiva delle stime, ma poi…» Come glielo dico che è impossibile? «Poi bisogna vedere se qualcuno è realmente disposto a pagare quel valore stimato». Faccio spallucce. «Alla fine res tantum valet quantum vendi potest—»

«Ogni cosa vale quanto qualcuno è disposto a pagarla, lo so.» Batte un colpo sulla scrivania. «Risponda alla mia domanda: lei saprebbe attribuire un prezzo equo a un francobollo antico?»

La faccia di Carlo non sembra lasciarmi grande libertà di replica.
 
Chiamo a raccolta tutta la calma che mi è possibile. «Sì, Signor Governatore, potrei farlo, non è un’operazione facile, ma… sì, con le dovute accortezze potrei essere in grado.»

«Ottimo. Ha seguito la vicenda del Banco dei Marzocchi?»

Annuisco. «Più che altro sui giornali.»

«I giornali!» Il Governatore allunga un fascicolo rossastro sulla scrivania verso Carlo, come fosse un candelotto di dinamite. «Legga dottor Proia, legga. È la rassegna stampa di oggi.»

Carlo toglie gli occhiali dalla tasca della giacca e li inforca, prende il fascicoletto tra le mani e lo sfoglia. «Con il Banco dei Marzocchi si prospetta il quinto salvataggio di una banca negli ultimi quattro anni: c
’è da interrogarsi su quale sia il valore della vigilanza della Banca d’Italia…»

«Prosegua, dottor Proia, prosegua.»
 
Si morde il labbro inferiore, gli sfugge un lamento e tormenta anche il labbro superiore. « la cui unica capacità sembra quella di registrare le situazioni di insolvenza anziché prevenirle, e la sola preoccupazione trarre in salvo il solito manipolo di banchieri spericolati.»

Ripone il fascicolo sulla scrivania, accavalla le gambe e incrocia le braccia. «Queste accuse sono ridicole.» Scuote la testa e sospira. «La cultura finanziaria degli italiani è zero, quella dei giornalisti addirittura sottozero. Prima o poi gli spiegheremo che non si possono salvare i risparmiatori senza salvare la banca.»

Sì, ovvio. Se poi qui dentro ascoltassero un po’ di più gli ispettori, forse non saremmo arrivati a questo punto: i problemi del Banco li avevamo intercettati già due anni fa.

Carlo strabuzza gli occhi, sbuffa. «E poi, dico, di cosa stiamo parlando? Di casalinghe e operai che firmano contratti senza neppure leggerli!» Spedisce lo sguardo al soffitto, tra i mugugni. «Possiamo difendere le pecore dai lupi, ma nessuno può salvare una pecora da sé stessa.»

Sempre teatrale. Gli rivolgo un sorriso forzato, perché non posso far altro; ma non è che casalinghe e operai ambiscono a vincere al gioco delle tre carte o fregare il banco al casinò; alla fine si accontetano di riavere indietro il proprio denaro, se lor signori non lo polverizzassero.

Si ricompone e mi guarda sorridente. «A ogni modo, ora potremmo avere una soluzione.»

Parlo o sto zitto? «La cordata da cento milioni…» Dovevo stare zitto.

«In pezzettini di carta colorata.» Il Governatore si massaggia le tempie con due dita, a occhi chiusi.
«Cento milioni in pezzettini di carta colorata.» Si blocca, inspira ed espira.
 
Un uomo distrutto. Tutti qui sognano di stare al suo posto, senza capire di avere una fortuna più grande: quella di non esserci.

«Parlo io?» Carlo lo scruta in attesa di un segnale.

Il Governatore annuisce appena e riprende il suo training autogeno.

«Allora Diego
…» Il digrigno dei denti mi dà un brivido di fastidio. «abbiamo comunicato la notizia ieri sera, ma l’offerta è arrivata due giorni fa.» Si accarezza la barba su una guancia e sull’altra, sbuffa. «Non abbiamo detto tutto, anzi non abbiamo detto niente, solo che c’è un’offerta per il Banco, ed è un’offerta… particolare, sì, particolare.» Stringe i denti, gli zigomi si mettono sull’attenti. «Sono investitori stranieri, sono pronti a sottoscrivere un aumento di capitale da cento milioni, solo che…»

«Lo dica dottor Proia, lo dica pure.» Il Governatore è immobile, ancora a occhi chiusi.

Carlo si schiarisce la gola con un colpo di tosse. «Solo che di questi cento milioni soltanto dieci sono in denaro liquido. Gli altri novanta…» Tortura la barba sino a strapparsi alcuni peli. «Gli altri novanta milioni sarebbero in…» Prende fiato. «… francobolli degli antichi Stati italiani.»

«Ha capito dottor Fubini?» Gli occhi del Governatore sono sbarrati, il volto gli si è sbiancato di colpo. «Novanta milioni di euro in francobolli degli antichi Stati, per salvare il Banco dei Marzocchi». Dà colpi sulla scrivania, lenti e ritmati, a cui si aggiungono i rintocchi del pendolo. «Lasciar fallire il Banco sarebbe una strage in cui gli innocenti pagherebbero più dei colpevoli, ma c’è da chiedersi se sia davvero possibile salvarlo con
 con…»

Con dei francobolli? Volete salvare il Banco degli Marzocchi con dei francobolli?

Il mio sguardo viaggia da Carlo al Governatore, dal Governatore a Carlo. Siete due pazzi, ecco quello che siete. Vabbè, comandano loro, assecondiamoli.
 
«Abbiamo un elenco di questi francobolli?»

Il Governatore estrae un volumetto blu da un cassetto della scrivania e me lo porge. «Qui ci sono le schede tecniche consegnateci da Karl Jacobi, il rappresentante della cordata.» Si lascia andare indietro sulla poltrona, piazza le mani sui braccioli e ci tamburella sopra.

Accarezzo la copertina, sembra una tesi di laurea.
 
CORDATA JACOBI – RARITÀ FILATELICHE DEGLI ANTICHI STATI ITALIANI A COPERTURA DELL’AUMENTO DI CAPITALE DA € 100 MLN PER IL BANCO DEI MARZOCCHI S.P.A.

Sollevo appena la copertina e la lascio ricadere, passo l’indice avanti e indietro sulla scritta in rilievo RARITÀ FILATELICHE. Sì, certo, come no: bene che vada sarà roba così malmessa che nessuno vuole, con quotazioni gonfiate dalla solita cricca di commercianti che se la comanda; e alle brutte sarà una versione sofisticata del bambino che ha trovato in soffitta i vecchi album impolverati del nonno.

Apro il volumetto.

Governo Provvisorio di Toscana. Lettera del 18 dicembre 1860 da Firenze a Parigi,

Cazzo, il 3 lire Rothschild!

affrancata con un esemplare del 3 lire giallo. Appartenuta alla collezione del Barone Alphonse Rothschild.


Una delle due lettere note con il 3 lire di Toscana, l’unica con l’esemplare isolato.

Primo passaggio sul mercato: Londra, 1 dicembre 1965, asta Harmers. Prezzo di aggiudicazione: 4.600 di sterline inglesi.

Secondo e ultimo passaggio sul mercato: Milano, 10 novembre 1989, asta Auction Phila. Prezzo di aggiudicazione: 795 milioni di lire italiane.

Stima attuale: € 3,5 milioni
.

Sì, vero. Nell’asta dell’89 ci furono sei rilanci in due minuti, e la lettera balzò da 500 milioni di lire a quasi 800. Se l’aggiudicò Giulio Bolaffi.

Giro pagina.

Governo Provvisorio di Toscana. Lettera del 7 gennaio 1860 da Livorno per Alessandria d’Egitto,

Il 3 lire Farouk!

affrancata per complessive 3,60 lire italiane, con un esemplare da 3 lire giallo, uno da 40 centesimi carminio e uno da 20 centesimi azzurro. Appartenuta alla collezione del Re d’Egitto Farouk I.

Una delle due lettere note con il 3 lire di Toscana, prima data d’uso.

Primo passaggio sul mercato: Londra, 1954, asta Harmers. Prezzo di aggiudicazione: 970 di sterline inglesi.

Secondo passaggio sul mercato: Londra, 16 gennaio 1965, asta Robson Lowe. Prezzo di aggiudicazione: 2.800 di sterline inglesi.

Terzo e ultimo passaggio sul mercato: Torino, 2 marzo 1991, asta Bolaffi. Prezzo di aggiudicazione: 778 milioni di lire italiane.


Stima attuale: € 2,5 milioni.

Tutto giusto. Era il lotto numero 856A dell’asta Bolaffi. Se l’aggiudicò quel mastino di Guido Craveri, al quindicesimo rilancio. L’ho presa a un buon prezzo, qualche spicciolo l’ho risparmiato. La sua spocchia di quel giorno ha fatto storia.

Sposto la sguardo sulla pagina accanto.

Governo Provvisorio di Parma. Lettera del 17 dicembre 1859, da Parma per la Francia, affrancata per 1 lira con un esemplare dell’80 centesimi e uno del 20 centesimi azzurro.

Unico esemplare noto dell’80 centesimi di Parma su lettera.

Pezzo mai passato in aste pubbliche; venduto sempre a trattativa privata.

Stima attuale: € 8 milioni.


Che mito questa lettera! E che mito Giulio Bolaffi, quando l’ingegner Provera gli offrì un miliardo di lire per averla: ingegnere, io non voglio offendere il suo denaro, lei però non offenda i miei francobolli.
 
Stringo il bordo della pagina, la mano si irrigidisce: che ci sarà adesso?  

Napoli, 1860, periodo della Dittatura di Garibaldi. Giornale “OMNIBUS” del 6 novembre, affrancato con un esemplare del ½ tornese azzurro cosiddetto “Trinacria”. Primo giorno d’uso, tre giornali noti noti, l
unico con lesemplare perfetto.

La Trinacria primo giorno! La coda del
l’occhio finisce sull’altra pagina.
 
Napoli, 1860, periodo della Luogotenenza di Farini. Blocco verticale di otto del francobollo cosiddetto
“Croce di Savoia”, annul 
 
Serro gli occhi: annullato con timbro a svolazzo numero 16, ex collezione Alfred Caspary, vendita numero 7 del 28-30 gennaio 1957,  lotto 686, realizzo 19.000 dollari. Il pezzo filatelico più raro dell’intero periodo dei governi provvisori precedenti all’unità d’Italia.
 
Il mio sguardo si posa sulla la pagina e trova conferma ogni cosa.
 
Lascio andare l’ultimo bottone della camicia, allento il nodo della cravatta e allargo il colletto. Fiumi di sudore mi attraversano la schiena, il cuore potrebbe schizzarmi via da un moment all
’altro. Qui dentro ci sono tutte le più grandi rarità dell’Ottocento, tutte. Sono tutte qui tra le mie mani!
 
Col pollice scorro i bordi delle pagine, mi lascio cullare dal fruscio della carta: non riuscirò mai a leggere tutto, avrò un infarto prima di finire.
 
Balzo l’ultima pagina.

Regno del Lombardo Veneto. Lettera del 25 febbraio da Verolanuova a Milano,

Verolanuova!? La lettera Verolanuova? No, non è possibile che sia quella Verolanuova…

affrancata per 1,05 lire austriache, con un esemplare da 5 centesimi giallo, uno da 10 nero, uno da 15 rosa, uno da 30 bruno e uno da 45 azzurro.

La prima emissione del Regno del Lombardo Veneto completa su lettera.


È lei, cazzo, è lei! È la lettera Verolanuova rubata trent’anni fa dalla collezione di Ottavio Masi! Non se n’è più saputo nulla dopo di allora.

Pezzo unico. Mai passato in aste pubbliche; venduto sempre a trattativa privata.


Grazie al cazzo, è un pezzo rubato! Tutti i collezionisti lo riconoscerebbero, anche dopo trent’anni. Questa lettera non può passare sul mercato.

Stima attuale: € 6,5 milioni.

Chiudo il volumetto e lo stringo, le unghie affondano nella tela della copertina.

«È ancora tra noi?» La voce del Governatore mi riporta alla realtà. «Non possiamo aspettare che l
’inferno ghiacci, per avere la sua opinione.»

Sorrido come se mi fossi appena risvegliato da un sogno surreale. «Se davvero questi signori posseggono tutto questo, sì, potremmo pure arrivare a novanta milioni, ma—»

«Venerdì devo riferire alla commissione d’inchiesta parlamentare.» Il Governatore porta a sé l’agenda accanto al telefono e sfoglia alcune pagine. «Ero stato convocato quando nessuno immaginava tutto questo.» Solleva una Montblanc nera dal portapenne in argento, toglie l’astuccio e scrive qualcosa in bella calligrafia. «Sarebbe un bel cambio di programma, da un massacro annunciato a un gioco di prestigio.» Chiude l’agenda con un colpo deciso. «Dovrò dire pubblicamente ciò che ora stiamo tenendo per noi. Vorrei poter tranquillizzare tutti, rassicurare i membri della commissione e tener buoni i giornalisti e le associazioni dei risparmiatori. Vorrei poter dire che per quanto irrituale sia questa offerta, la Banca d’Italia ha tutte le professionalità per valutarla in autonomia, senza lasciarsi condizionare da stime di periti esterni.» Ticchetta con la Montblanc sull’agenda e mi fissa. «Lei pensa che io potrò dire tutto questo?»

Il mio sguardo riprende a oscillare tra Carlo e il Governatore. «Scusate, ma… qualcuno li ha mai visti questi francobolli?»

«Li vedrà lei, dottor Fubini.» Il Governatore inarca un sopracciglio, un sorriso beffardo lascia trasparire una ritrovata serenità. «Zurigo, Wiesenstrasse, civico 8. È la sede della Corin Bank, la più importante banca svizzera. I francobolli sono nei loro caveaux.»

«Sarai a capo del gruppo ispettivo, Diego.» Carlo mi stritola il braccio. «Vedremo chi altro mettere, magari degli specialisti di bilancio che ti aiutino a capire bene i criteri di contabilizzazione, ma, insomma, qui l’esperto sei tu: dipende tutto da te.»

«Ha un mese di tempo, dottor Fubini. Entro un mese voglio una valutazione precisa, esatta, oggettiva, di quei rettangolini di carta colorata. Voglio sapere se quei francobolli valgono davvero novanta milioni, se possiamo accettarli per la sottoscrizione dell’aumento di capitale, o se saremo obbligati a inchinarci a un altro salvataggio di Stato, moralmente condannabile, socialmente iniquo, economicamente pericoloso.»


VEROLANUOVA

Spingo il trolley nella cappelliera. Qualche fila più indietro Gabriele e Stefano stanno parlottando tra loro. Siamo una bella squadra: pochi ma buoni, per una prima ricognizione va bene così. Speriamo solo che non finiscano per azzuffarsi.

La biondina seduta dal lato corridoio mi sorride. «Devi passare?»

Annuisco e indico il posto finestrino.

Slaccia la cintura e si alza, esce dalla fila il minimo indispensabile per farmi passare: un profumo
lieve di cocco mi stordisce per un istante. Stringe gli occhi verdi, un brillantino le risplende sul naso sottile. Si risiede e dà una scrollata ai capelli a caschetto.

Mi sistemo sul sedile, il bocchettone sopra di me spara un flusso di aria fredda. Lo chiudo e allaccio la cintura. 
 
Una borsa biancastra attraversata da una “V” nera occupa il posto centrale.

«Ti spiace se metto qui anche il mio zainetto?»

«Assolutamente.» Sposta la borsa in verticale, la schiaccia sul il bracciolo e mi sorride
. «Speriamo non arrivi più nessuno.»

Sollevo la cover dell’i-Phone, do un colpetto sull’icona di WhatsApp e uno sul profilo di Valeria. Clicco sulla barra bianca per la scrittura dei messaggi, le dita corrono veloci sul tastierino. Sospiro e fisso il messaggio.
 
Dormivi quando sono uscito e non volevo svegliarti. Ci sentiamo con calma questa sera. Per qualunque cosa chiama pure senza problemi. Buona settimana, ci vediamo venerdì.
 
Piazzo un cuore scintillante e invio. Chiudo la cover, uno scampanellio me la fa riaprire. 
 
Valeria Amore Mio: ok

Passo il dito sullo schermo per tornare indietro sulla chat.

È arrivata una raccomandata dell’amministratore di condominio.
Dice che ci sono dei lavori straordinari da fare, non ho capito bene
 
               No problem, quanto torno dai pure tutto a me che ci penso io
 
              Amore mio, dimmi piuttosto se ti serve un aiuto con Marco durante la settimana…
              posso chiedere a Gabriella di accompagnarlo all’asilo e di andarlo a riprendere
 
Per me è lo stesso
 
               Che dici se sabato pranziamo a villa Borghese e poi portiamo Marco a vedere lo zoo? 
               Si divertirebbe da matti
 
Va bene
 
Clicco sulla foto profilo, un primo piano di Valeria abbracciata a Marco si prende tutto lo schermo. Che belli che sono! Torno alla chat, clicco sulla barra bianca e riprendo a scrivere.
 
                Amore mio, che dici se uno di questi week-end lasciamo Marco da mia madre,
                e ce ne andiamo da qualche parte? Venezia, tipo? Che te ne pare? 
 
Cancello tutto e ricomincio.
 
                È tanto che non ci facciamo un viaggetto…
                se ce ne andassimo a Venezia uno di questi week-end?
 
Rumoreggio e cancello di nuovo. Schiaccio tasti a casaccio, cancello tutto un’altra volta. Meglio dirlo di persona, magari gliene parlo stasera quando la chiamo. 

«Mi scusi, stiamo per decollare.» L’hostess s’impettisce nella sua divisa blu. «Dovrebbe metterlo in modalità aereo.» Lancia un
occhiata al posto centrale e si dà una sistemata al foulard che porta al collo. «Zaini e borse sotto i sedili, grazie.»

Spengo l’i-Phone, lo faccio sparire dentro lo zainetto; la ragazza mi blocca il polso. «Lascia tutto qui, ché tanto la maestrina del collegio svizzero è andata via.» Mi fa lo sguardo di chi sa il fatto suo. «Fidati.»

Gli altoparlanti gracchiano.
«Signore e signori, il comandante Meier e il suo equipaggio vi danno il benvenuto a bordo del volo LX 1727 in servizio da Roma a Zurigo. La durata del viaggio è stimata in un’ora e quarantacinque minuti dal decollo. Il tempo a Zurigo al momento è nuvoloso e al nostro arrivo è prevista pioggia. Lungo la rotta le condizioni meteorologiche sono un po’ capricciose, ma non dovremmo incontrare particolari turbolenze

L’hostess si esibisce nel solito balletto per mostrare come allacciare e slacciare le cinture, come raggiungere le uscite d’emergenza e usare le mascherine per l’ossigeno in caso di necessità.

«Te l’immagini, sì?» La ragazza scimmiotta quei movimenti meccanici. «Voglio proprio vedere cosa ci ricorderemo, quando saremo a diecimila metri di altezza e ci staremo per schiantare sul Cervino.» Storce gli occhi. «Brief normally, mi raccomando!»

Le sorrido e mi sistemo più comodo che posso.

L’aereo si muove, gira e si posiziona per il decollo. Gli altoparlanti gracchiano ancora.
«Cabin crew prepare for take off, please». Okay, si ricomincia. Come faceva quella canzone di Dalla? Se ci fosse ancora mondo, sono pronto dove andiamo?

Il rumore dei motori aumenta, l’aereo prende velocità e si stacca da terra, le orecchie mi si chiudono. Tappo il naso, soffio a bocca chiusa e si sturano.

Il litorale romano diventa via via più sfocato, la terraferma si trasforma in un manto indistinto. Tutti i posti del mondo si assomigliano, visti da quassù.
 
L’aereo ritorna in posizione dritta, mi lascio cullare dal ronzio di sottofondo. La biondina tira fuori un libro dalla borsa, rovista un po’ e prende un evidenziatore arancione e una matita; apparecchia il tavolino, fruga ancora e mette un taccuino a quadretti accanto al libro.

Forse sarà il caso che inizi a lavorare anch’io. Estraggo il mio blocco di riviste dallo zainetto con la cura che si deve a dei pezzi d’antiquariato. Abbasso il tavolino e le appoggio sopra: Il Collezionista, Ottobre 1989.
 
Il busto di Ottavio Masi occupa la copertina: è paonazzo e sorridente, con i capelli brizzolati tirati all’indietro, una cravatta nera stacca su una camicia bianca; tiene in mano un disco d’argento, sicuramente uno dei premi conquistati in qualche manifestazione. La Filatelia sfregiata: rubata la collezione Masi. Sfoglio le pagine avanti e indietro, l’intero numero è dedicato al fattaccio ed è più corposo del solito. Ritorno all’editoriale.

Il furto della collezione di Ottavio Masi è molto più di un danno economico individuale, comunque di entità impressionante.

Il furto è uno sfregio alla filatelia tutta, alle sue tradizioni e ai suoi valori culturali, e sin anche alla storia del nostro paese, di cui i francobolli sono ineguagliabili testimoni.

Gli 895 pezzi della collezione includono tutte le più grandi rarità del Regno del Lombardo Veneto e rappresentano, ognuno a suo modo, un monumento filatelico e non solo.

Messa assieme in oltre venticinque anni di appassionate ricerche, la collezione aveva definitivamente conquistato l’olimpo della filatelia con l’ingresso della mitica lettera pentacolore di “Verolanuova”, affrancata con tutti e cinque i francobolli dell’emissione del 1851. L’esposizione della lettera, all’internazionale di Parigi dello scorso anno, aveva scatenato tra i partecipanti un entusiasmo di cui non si ha memoria: congratulazioni e foto-ricordo erano state così numerose che gli organizzatori dovettero ripetutamente pregare al microfono
di ricomporsi, affinché si potesse proseguire con il programma.

Sospiro. Tra le nuvole prende forma il sorriso di nonna Teresa, le labbra screpolate, il grosso neo sotto il naso a palla. Tutto è vanità, Diego, tutto. Chiudo gli occhi. Ho visto tutte le opere che si fanno sotto il sole, ed ecco: tutto è vanità, è un correre dietro al vento. Riapro gli occhi e salto alla fine dell’editoriale.

Solo chi non capisce che il vero collezionista nutre per la sua collezione qualcosa di molto simile all'amore, troverà esagerato paragonare questo evento a un lutto. Perché gli oggetti da collezione sono pezzi della nostra vita interiore: quando manca un pezzo alla collezione manca una parte di noi, e se viene a mancare l’intera collezione è un po’ come se noi stessi venissimo meno.

Due hostess arrivano col carrello delle bevande, la più vicina alla nostra fila sorride alla ragazza. «Posso offrirle qualcosa?»

«Un caffè e dei biscotti, e anche dell’acqua, per favore.»

Versa il caffè e glielo porge. «Per lei, signore?»

«Solo caffè, grazie.»

Stringo il bicchiere di carta, il calore mi riscalda le mani e si trasmette a tutto il corpo. Il primo sorso mi brucia la lingua.

«È bollente, ve’?» La ragazza apre la confezione dei biscotti e ne addenta uno.

Arriccio il naso per confermare e appoggio il bicchiere sulla sezione circolare del tavolino. Mi sorride e torna con la testa china sul libro. Sotto il caschetto biondo gli occhi si stringono e il sorriso si fa malizioso.

Schiaccio la fronte sulla plastica del finestrino. Un tenue raggio di sole illumina l’ala, ma voliamo sopra un banco di nuvoloni neri. Sfilo la fede, la giro e la rigiro tra le dita, la inclino: Valeria 24.9.2017.
 
Settimo comandamento: non tradire. Lei potrebbe anche non saperlo mai, però lo sai tu, e questo è tutto: tradisci solo te stesso, ogni volta che tradisci.
 
Nonna non ne sbagliava una. Rinfilo la fede all’anulare più in fondo che posso, la ruoto come se dovessi avvitarla.

Sorseggio un altro po’ di caffè, chiudo la rivista e la ripongo nello zainetto. Poggio le dita sull’altra, Il Collezionista, novembre 1989: in copertina c’è la leggendaria lettera affrancata col 3 lire di Toscana, da Firenze a Parigi.
 
Giro l’indice intorno alla scritta “FRANCOBOLLO POSTALE TOSCANO” che corre sui tre lati; vado avanti e indietro sulla scritta “3 LIRE IT” nel lato inferiore; accarezzo la vignetta con lo scudo crociato della dinastia dei Savoia, sormontato da una corona. Il 3 lire del Governo Provvisorio Toscana, il 3 lire “IT”, il primo francobollo in lire italiane. Che meraviglia!
 
Spalanco la mano sulla lettera: il francobollo finisce tra il pollice e l’indice; il medio si accosta al segno di tassazione “22” a penna; tra indice e medio ci sono i due timbri rossi apposti a Parigi, uno circolare l’altro rettangolare; il mignolo sfiora il timbro circolare nero di Firenze. Il 3 lire Rothschild! Lo vedrò dal vivo, potrò addirittura toccarlo. Filatelia da record: 795 milioni!

Il caffè si è raffreddato, ne butto giù un bel po’ e sfoglio le pagine della rivista. Gli articoli centrali sono tutti per l’asta della lettera Rothschild, sulla collezione Masi c’è solo un trafiletto tra le “ultime notizie”.

Emergono particolari inquietati sulla triste vicenda della collezione Masi. Il furto è avvenuto nella giornata di sabato, quando l’ingegner Masi si trovava a Verona per un convegno filatelico. Gli album erano custoditi in un caveau del tutto simile a quello delle banche, ricavato in un rifugio antiatomico sotto la villa romana del collezionista, attrezzato con stabilizzatori di umidità come nei musei. A quanto dichiarato dallo stesso ingegner Masi, tuttavia, il caveau è stato aperto “senza scasso, usando semplicemente le chiavi nascoste nello stesso ambiente”. I ladri hanno trafugato tutto, i gioielli, l
oro, gli orologi e altri oggetti preziosi di più facile commercio, e probabilmente hanno portato via la collezione solo per la facilità con cui è stato possibile impossessarsene.

Maddài! Masi era uno squalo, un finanziere d’assalto, senza scrupoli, o almeno così se ne è sempre parlato. E cosa fa? Lascia le chiavi attaccate alla cassaforte e lo dice pure! Così nemmeno l’assicurazione è tenuta a risarcire nulla. O si è rincoglionito di colpo oppure—

Un vuoto d’aria mi fa sobbalzare, la ragazza mi stringe il braccio sino a stritolarlo, allenta la stretta e lascia scivolare la mano sulla mia.

«Scusami…» Ansima, ritrae la mano e la porta sul petto. «Mi è preso un colpo, scusa…»

«Figurati.» Sistemo il bicchiere di carta in posizione dritta, fortuna che il caffè lo avevo praticamente finito.

Un glin-glon risuona per l’aereo, il display con le cinture di sicurezza si accende.
«Invitiamo i signori passeggeri a rimanere ai loro posti con le cinture allacciate, grazie.»

L’aereo trema, una serie di scossoni ci sbatacchia a destra e a sinistra. La ragazza poggia le mani sul tavolino, per tenere tutto fermo. Alza la testa e sbuffa.

«Meno male che non erano previste turbolenze.»

Faccio spallucce, le sorrido. «Ti ricordi come si usano le maschere per l’ossigeno, sì?» 
 
Grugnisce e socchiude gli occhi: non ha più voglia di scherzare, a quanto pare.

Le condizioni di volo si normalizzano.
«Per la vostra sicurezza e comodità vi suggeriamo di rimanere con le cinture allacciate, grazie.»

«Per la mia comodità, come no!» La ragazza strattona la cintura. «Sarà proprio questa a salvarmi dallo schianto.»

Scuoto la testa: è proprio un’impunita. Rimetto la rivista nello zainetto e vado alla prossima, Il Collezionista, febbraio 1990.

Ottavio Masi ci ha lasciato, a 88 anni. Uomo schivo e riservato, di immense disponibilità economiche e di ancor più vasta cultura, costruì la più straordinaria collezione del Regno del Lombardo Veneto, che lo portò a conquistare il Premio WIPA, il massimo riconoscimento mondiale per un filatelista. L
anno scorso ne venne denunciato il furto, su cui a tutt’oggi non vi sono novità. Tutti i pezzi sono d’altra parte così noti e rari che la commercializzazione sul mercato ufficiale è virtualmente impossibile.

Nonna aveva ragione: è tutto un correre dietro al vento, e alla fine della corsa appartiene tutto a sorella morte. Tutto è venuto dalla polvere, Diego, e nella polvere tutto ritorna.

La ragazza giocherella con la matita, la fa roteare come una majorette con la bacchetta. La mette in bocca e con le labbra la spinge in su. Si gira di scatto. Distolgo lo sguardo, mi spalmo sullo schienale e chiudo gli occhi.
 
Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo affrontato per realizzarle. Ed ecco: tutto è vanità e un correre dietro al vento. 
 
È vero, nonna, corriamo dietro al vento, e sappiamo pure come andrà finire: moriremo tutti, noi e le persone che amiamo, le stelle si spegneranno, l’universo imploderà, e non resterà nulla del clamore e della tracotanza della vita umana; però nessuno sa dire cosa siamo venuti a fare quaggiù, e che male ad avere almeno uno scopo chiaro nella vita? A collezionare per ricreare un mondo perduto dentro le pagine di un album
 
Dai molti sogni provengono molte illusioni e tante parole. Dio ha creato gli esseri umani retti, ma essi vanno in cerca di infinite complicazioni.
 
Può darsi, nonna, può darsi. Saremo pure dei mattoidi, però siamo felici così, e chi apparentemente ci biasima, forse, alla fine, ammira e invidia il nostro ardore nel desiderare.

Mi rimane da consultare l’ultima rivista: Il Collezionista, dicembre 1992. Qui c’erano informazioni parecchio interessanti, se ricordo bene.

Qualcosa di nuovo è emerso, dopo oltre tre anni dal furto della collezione Masi. Il merito è del noto commerciante milanese Sebastiano Cifarelli, che ha ricevuto del materiale filatelico per una vendita all’asta e lo ha collegato a quanto esposto alla manifestazione WIPA. Sono ventidue francobolli con un valore stimato intorno ai trecento milioni di lire. “È solo una minima parte di quanto è stato trafugato”, ha annotato l’esperto. “Purtroppo, per rendere meno riconoscibili i singoli pezzi, qualcuno ha ridotto le lettere a frammenti, svilendone il pregio filatelico e riducendo il loro valore commerciale”. Tre persone sono state denunciate per ricettazione, tra di loro un pluripregiudicato per reati finanziari legato a un noto clan della 'ndrangheta.

Vedi, faccio bene a collezionare anche le riviste, oltre ai francobolli. Sono passati più di trent’anni dal furto della collezione Masi. Chi c’era allora o è morto o è uscito dal giro, di testimoni diretti non ce ne sono più, nessuno che possa più dare informazioni di prima mano. Anche i figli di Masi avranno ormai intorno ai settant’anni, e chissà se i nipoti hanno idea di cosa siano i francobolli. Tutto quello che si può sapere è qui, nelle pagine di queste riviste.

L’hostess passa col carrello dei rifiuti. «Posso portare via qualcosa?»

Le porgo il bicchiere avvolto nel tovagliolino, la ragazza lo afferra e glielo passa insieme al suo con dentro la confezione vuota dei biscotti.

«Vai a Zurigo per lavoro?»

Sorrido e annuisco.

«Già stato altre volte?»

«No.»

«Una noia infinita!» Sbadiglia, stiracchia le braccia verso l’alto e inarca la schiena, il seno forma una duna sul maglione rosso. «Hai già googolato cosa fare la sera a Zurigo?» Sgrana gli occhi e finge di cacciarsi due dita in gola. Con un movimento ripetuto del pollice sul polso simula il taglio delle vene. «Meglio rimanere a casa a spararsi Netflix una serie dopo l’altra, credimi.»

Simpatica, però. «E tu che ci vai fare in questo paradiso?»

«Studio ingegneria biomedica al Politecnico, ho vinto una borsa di studio per il dottorato.» Fa una linguaccia. «Tu invece?»

«Mi assicuro che la banca del Politecnico continui a pagare la tua borsa di studio.»

Si acciglia, stringe le labbra carnose e la manda in fuori. Una risata le dissolve quella posa buffa.
«No, dai, sul serio: cosa vai a fare a Zurigo?»
 
Affilo lo sguardo. «Sono serissimo: se la banca del Politecnico paga, è merito mio.»
 
Ritrae indietro la testolina, la fa oscillare e abbozza un sorriso. «Se è davvero così…» Strappa un foglio dal taccuino, lo piega in due e gli scrive sopra un numero di telefono « devo sdebitarmi.» Mi porge il foglio ripiegato. «Io sono Fabiana, chiamami, se ti va, che Zurigo te la faccio visitare io, se vuoi.»

Prendo il foglietto e lo metto nella tasca dei pantaloni, le porgo l’altra mano. «Diego.»
 
Ci scambiamo un sorriso. Torna con lo sguardo sul libro e scarabocchia il taccuino.
 
«Il comandante informa che abbiamo iniziato la discesa verso Zurigo, dove prevediamo di atterrare tra circa quindici minuti. Vi invitiamo ad allacciare le cinture, ad alzare il tavolino di fronte a voi e a mantenere la poltroncina in posizione dritta. Le tendine dei finestrini devono rimanere alzate.»
 
Siamo in perfetto orario, svizzeri davvero. Infilo anche l’ultima rivista dentro lo zainetto, Fabiana ripone tutto il suo arsenale di studio nella borsa. I nostri sorrisi si incrociano un’altra volta.

«Chiamami, ci conto.»

Le strizzo l’occhio e mi rimetto composto sulla poltroncina.

Su Ottavio Masi sono sempre circolate un
’infinità di storie strane; si diceva che avesse addirittura una polizia privata, che nessuno poteva neanche solo pensare di fargli un sgarbo e passare indenne; e rubargli la collezione non è solo uno sgarbo, è un taglio in faccia, e pure di quelli brutti.

Ho lo sguardo di Fabiana addosso. Mi volto verso di lei. Manda in su le sopracciglia sottili, inclina la testa e chiude gli occhi.

Sospiro e allungo le gambe, per quanto mi è possibile. Voliamo in mezzo alle nuvole, le luci sull’ala lampeggiano, l’alettone si alza.

Masi è morto a 88 anni, quando gli rubarono la collezione ne aveva 85, e a 85 anni lo capisci che non ti è rimasto molto tempo; e cosa c’è di meglio del farsi rubare la collezione, lasciando pure le chiavi attaccate alla cassaforte? Così “i ladri” neppure la rovinano…

Quella collezione varrebbe oggi almeno cinquanta milioni, nonna Teresa avrebbe detto cento miliardi, ostinata com’era a ragionare in lire. E perché imbarcarsi in un calcolo delirante su cento miliardi di eredità in pezzi d’antiquariato, col rischio di pagare tasse di successione enormi, se posso cavarmela risarcendo i ladri con i pezzi stessi della collezione? E poi se la sbrigassero loro per metterli all’incasso. E quegli idioti hanno pure accettato, pensavano davvero di poterli smerciare semplicemente aspettando un paio d’anni e sottoponendoli a un maquillage. O forse non hanno accettato, forse sono stati obbligati a simulare un furto in grande stile…
 
Quella collezione potrebbe non essersi mai mossa dalla villa di Masi, ma rimane per tutti una collezione rubata, di cui non si sa nulla da oltre trent’anni. Verolanuova è per tutti una lettera rubata: cosa cazzo ci fa tra i fondi per salvare una banca? 
 
La pioggia bagna il finestrino, rivoli d’acqua scendono giù sul vetro.

Il frastuono dei motori mi rimbomba belle orecchie, le ruote toccano terra e ho un piccolo sobbalzo. Appoggio la mano sullo schienale della poltroncina davanti per mantenermi a distanza. L’aereo rallenta la sua corsa, il rumore va a scemare e subentra un sibilo.
 
«Signore e signori siamo lieti di darvi il benvenuto a Zurigo, aeroporto di Flughafen. Vi invitiamo a rimanere seduti ai vostri posti, con le cinture allacciate, fino a quando l’apposito segnale non si sarà spento.»
 
Verolanuova è lo scarafaggio che cammina sui fornelli
e se vedi uno scarafaggio sui fornelli, figlio mio, vuol dire che la dispensa è infestata.
 
Nonna Teresa non ne sbagliava una.



I riferimenti extra-testuali

Un libro “commercialmente finito” – stampato su carta o disponibile in versione elettronica – avrà sempre dei riferimenti extra-testuali obbligati (il titolo, la copertina, il nome dell’autore) che saranno sfruttati per favorire l’ingresso del lettore nel mondo della pagina.

Poi ci sono i riferimenti extra-testuali facoltativi, che puoi scegliere appunto di mettere o no, ma che se decidi di inserire ti impongono di ragionare sul loro contributo alla partecipazione emotiva in fase di lettura.

60 crazie ricorre a due tipi di riferimenti extra-testuali: le citazioni (al momento collocate in quarta di copertina) e le immagini per separare le scene (in sostituzione dei classici tre asterischi).

Le citazioni hanno una funzione ambivalente, giocano sia ex ante (prima di leggere) che ex post (dopo aver letto).

La citazione occupa di regola l’intera pagina iniziale, a mo’ di esergo, quindi è la prima frase offerta al lettore, fuori dal testo.
 
Deve allora funzionare da “ambasciatrice” della storia, secondo la logica dei frattali: è la storia ridotta alla più piccola scala di osservazione materialmente possibile. Il lettore non sa ancora nulla di ciò che troverà tra le pagine, e la citazione gli deve restituire il senso del tutto.
 
Quanto la citazione abbia funzionato lo si saprà alla fine, a lettura conclusa, quando tutta la storia sarà nota: ritornando alla citazione – con la conoscenza della storia – il lettore dovrà apprezzarne il valore sintetico, coglierne la struttura frattale.

Quindi, ex ante, la citazione ha lo scopo di introdurre alla storia, ed ex post deve essere convalidata dalla storia.

Io ho scelto due citazioni, una di Italo Calvino e l’altra di Marco Belpoliti.

Già qui si potrebbero muovere delle critiche, perché – a livello macroscopico, di intera storia – il numero ottimale di citazioni è dispari e inferiore a tre. Come a dire: punta tutto sulla citazione migliore, non diluire il frattale.
 
Giusto, in teoria, ma proprio non ce l’ho fatta a scegliere tra le due: ogni volta che ne eliminavo una, qualunque fosse, avevo la sensazione di aver perso qualcosa di importante, in termini di efficacia della sintesi.

60 crazie muove da una situazione piuttosto singolare: una storica banca italiana è sull’orlo del fallimento (anzi, è già tecnicamente fallita, e sin qui, ahimè, nulla di strano) e una misteriosa cordata straniera si offre di salvarla sottoscrivendo l’aumento di capitale con una collezione di francobolli antichi (il che è parecchio strano, e pur succede, nella pagina come nella realtà).


Il fascino di una collezione sta in quel tanto che rivela e in quel tanto che nasconde della spinta segreta che ha portato a crearla”, ci dice Italo Calvino.

Dietro ogni collezione c’è dunque “una spinta segreta”, o per dirlo in termini più foschi, con Marco Belpoliti, ci sono “forze oscure e inconoscibili”.

Perché qualcuno (chi?) ha riunito tutte le più grandi rarità filateliche degli Antichi Stati Italiani in un unico album? Per salvare una banca, ci dice la storia, e questo è “quel tanto che rivela”. Ma cos’è invece “quel tanto che nasconde”? Cosa sono quelle “forze oscure e inconoscibili” che l’ispettore Diego Fubini è chiamato a rischiarare? La sua indagine lo porterà – citando Belpoliti – “in una zona sospesa tra il visibile e l’invisibile”: riuscirà a uscirne, a tornare indietro portando alla luce ciò che deve essere conosciuto?
 
Perché, sai, qualcuno si è messo a collezionare francobolli per salvare una banca, o almeno così pare, ma chiunque entra in questa storia, o anche solo la lambisce, qualunque collezionista abbia a che fare anche solo vagamente con Diego Fubini e la sua indagine, fa una gran brutta fine.

La storia mostrerà la morte di tre collezionisti, in eventi in apparenza accidentali – un suicidio, l’assalto di un animale esotico detenuto illegalmente, un gioco sessuale finito male – se non fosse per alcune ricorrenze inquietati: i tre collezionisti si conoscevano bene e in ognuno dei luoghi dove è accaduto l’incidente è stato ritrovato un francobollo evocativo dell’incidente stesso.

Il nostro Diego Fubini, per capirci, sarà trovato morto nel suo appartamentino in periferia (dove è andato a vivere dopo il divorzio) disteso sul letto, nudo, incappucciato e a pancia in su, con braccia e gambe divaricate, in posizione a “X”, e polsi legati alla spalliera con delle manette.

Sembra appunto un gioco sessuale finito male, di cui si è perso il controllo, ma sul tavolo del saloncino, sopra un album chiuso, fa bella mostra di sé un 15 centesimi del Regno del Lombardo Veneto con attaccata la sua “Croce di Sant’Andrea” (un francobollo quotato oltre 100.000 euro) a voler richiamare la posizione in cui è stato trovato Diego.
 
Il 15 centesimi del Lombardo Veneto,
con la Croce di Sant’Andrea.

C’è qualcuno in giro che “colleziona collezionisti”, uccidendoli; e non lo fa per avere i loro pezzi pregiati (che restano sempre nei luoghi degli incidenti, a evocare l’incidente stesso). E allora perché lo fa? Qual è la sua “spinta segreta”?

Una commissaria di polizia si ritroverà anch’essa “in una zona sospesa tra il visibile e l’invisibile”, alle prese con una macabra collezione di collezionisti, “entità mossa da forze oscure e inconoscibili”, che ora però devono essere fermate.
 
La nostra commissaria detesta il mondo collezionismo (aveva divorziato dal marito proprio a causa della sua mania collezionistica) ma ora ci si deve immergere e capirlo a fondo.
 
Estratto da Il possesso della bellezza, di Francesca Molfino e Alessandra Mottola Molfino.
 
Perché la nostra commissaria sa bene – dalla sua infelice vita matrimoniale con un collezionista – che ogni collezione è per sua natura incompleta; che per quanto possa essere avanzata, per quanti pezzi possa già contenere, sempre soffrirà per la mancanza di un pezzo che, se inserito, la farebbe risplendere ancora di più. Il collezionista di collezionisti non si fermerà mai, se qualcuno non lo ferma.

Questo è 60 crazie, nei suoi contenuti “superficiali”, nel senso letterale di eventi che “stanno in superficie”.
 
Ma come abbiamo ripetuto più volte, e come sarà spiegato in dettaglio nei moduli di sceneggiatura, nessun evento ha valore e significato in sé. Gli eventi hanno tutto e solo il significato che gli si carica sopra. Funziona così nella vita vera, nel mondo reale, e funziona così anche nella vita dei personaggi, nel mondo della pagina. Dietro “ciò che si vede” vi è dunque tutta una costruzione psicologica, che rappresenta il vero punto di forza di ogni buona narrativa scritta.
 
Citando Will Storr: “Le buone storie sono indagini sulla condizione umana: viaggi entusiasmanti nei territori di menti sconosciute. Non riguardano tanto gli eventi che hanno luogo sulla superficie del dramma, quanto coloro che li dovranno affrontare”; nelle buone storie “i protagonisti non sono in guerra soltanto con il mondo esterno”, ma soprattutto “con sé stessi”, e sono prima di tutto chiamati a “battaglie che avranno luogo soprattutto nei sotterranei oscuri del loro subconscio”, dove “in gioco c’è la risposta all’interrogativo cruciale di ogni dramma: chi sono io?”.
 
Ora conosci – a grandi linee – l’idea di fondo del libro. E forse capirai perché non me la sono sentita di sacrificare una citazione a favore dell’altra: perché entrambe hanno la stessa radice, ma ognuna contiene delle sfumature sue proprie – più tenui quelle di Calvino, più marcate quelle di Belpoliti – che fanno gioco nel restituire il tono complessivo della vicenda.

L’altro riferimento extra-testuale è nell’uso delle immagini per separare le scene, invece degli anonimi tre asterischi.
 
Le immagini devono essere sobrie, avere una stretta pertinenza con la storia in generale, e se possibile con la scena in particolare.
 
In una storia trainata esteriormente da eventi collegati a francobolli antichi, mi è sembrato naturale mettere dei proprio dei francobolli antichi, guarda un po’.
 
La storia inizia col salvataggio del Banco del Marzocco (un’immaginaria banca fiorentina, neanche troppo vagamente ispirata al Monte dei Paschi di Siena) perciò i primi elementi separatori sono i francobolli del Granducato di Toscana (chiamati spesso “Marzocchi”) e per ogni scena mi sono sforzato di trovare il “Marzocco” più adeguato. Forse la scelta più azzeccata è stata il 9 crazie con annullo a cuore di Firenze, piazzato alla fine della sfuriata della moglie, che nelle intenzioni serviva a comunicare un immutato sentimento d’amore da parte di Diego. Con la stessa logica, di massima appropriatezza, ho ritenuto adeguati i “Marzocchi” con valore facciale da 1 soldo e 2 soldi, per intervallare le scene in Banca d’Italia.

Si potrebbe invece discutere sulla correttezza di usare un’intera lettera (la mitica “Verolanuova” del Lombardo Veneto) perché qui viene sicuramente meno il requisito della sobrietà. Però c’è un intero capitolo intitolato “Verolanuova”, la lettera è al centro delle perplessità dell’ispettore, e il suo essere una lettera rubata muove la parte iniziale della narrazione; alla fine – sebbene controvoglia – l’ho voluta inserire.
 
 
Più in generale, le immagini dei pezzi filatelici danno corpo alla narrazione con un mezzo (il senso della vista) che in linea di principio è estraneo al contatto con la pagina scritta; mostrano direttamente agli occhi del lettore degli oggetti che un purista della scrittura dovrebbe riuscire a evocare solo con le parole. 
 
Lo so, ne sono consapevole; ma in scrittura, come nella vita, talvolta tocca scendere a patti.
 
Il valore pratico del concetto di “perfezione”, d’altra parte, è nel sapere di quanto ce ne si sta allontanando (e per quali motivi) per evitare che di concessione in concessione si finisca col trasformare la pagina in una discarica.
 

Il cambio di font

Il testo si caratterizza – da subito – per una certa varietà di font, e la variazione di font è sempre un potenziale pericolo, perché distrae, laddove noi vogliamo che il lettore non sia mai distratto, ma rimanga costantemente immerso nella storia.

Il cambio del font deve perciò rientrare nel patto narrativo, in quell’insieme di scelte adottate dall’autore per agevolare il lettore nella decodifica della pagina (giacché la pagina è un mondo scritto in codice).

Tutti i cambi di font – nel testo – hanno uno scopo, rispondono a un obiettivo: a volte mostrano ciò che il personaggio sta leggendo (servono a far capire che i suoi occhi sono posati su una pagina); a volte servono a formalizzare la comunicazione attraverso Whatshapp; e poi (con il corsivo) formalizzano il fraseggio interiore del personaggio quando richiama frasi di altri (ad esempio nonna Teresa).

Tutte le volte che il lettore troverà una variazione di font ne capirà il significato senza incertezze (perché gli è stata fornita la chiave di decodifica in contesti massimamente chiari) ma ovviamente gli stessi cambi di font andranno gestiti – lungo l’intero testo – con buon senso e parsimonia.
 

Dimmi cosa, dove e quando

Vorrei farti notare come tutta una serie di informazioni generali – sul “cosa”, “dove” e “quando” – sgorgano naturalmente dall’interno delle scene, dalle percezioni del “Punto di Vista”, dai suoi pensieri dato il contesto in cui si trova, o dalla sua naturale interazione con altri personaggi.

Nessuno – da fuori – ci dice che Diego vive a Roma; lo veniamo a sapere dallo scambio di battute col suo capo, nel passaggio iniziale dell’incipit; e nessuno ci si dice – da fuori – che vive in un attico ai Parioli, ma lo veniamo a sapere da un suo pensiero “di sfogo” nel corso della litigata con la moglie.

Nessuno ci dice che la sala del consiglio di amministrazione si trova all’ultimo piano di un grattacielo; lo capiamo dal fatto che Diego vede uno stormo di rondini vicino al grattacielo dirimpettaio.

Le due “Torri UniCredit” prese a riferimento per la scena.
 
Nessuno ci dice che siamo nel 2022; lo capiamo dall’annuncio del conduttore del tg, quando anticipa che dopo il telegiornale andrà in onda un programma dedicato al centenario della marcia su Roma.
 
Nessuno ci dice che Marco – il figlio di Diego – ha cinque anni; è ancora una volta la litigata con la moglie che ce lo rivela (e che Marco fosse piccolo lo si era già intuito quando Diego pensa di lasciarlo dalla madre, per un weekend romantico con Valeria).

Nessuno ci dice che Diego lavora in Banca d’Italia da 13 anni; lo veniamo a sapere nel corso della dialogo a tre, nell’ufficio del Governatore.

Nessuno spiega che il lavoro di ispettore è maggiormente retribuito rispetto agli altri, data la delicatezza del ruolo; lo si capisce – ancora una volta – dallo “sfogo interiore” di Diego nel mezzo della litigata con la moglie.
 
Nessuno racconta niente, ma è la storia che racconta sé stessa.
 

Scena 1: l'incipit

La scena iniziale è l’incipit – secondo le convenzioni di questo manuale – e l’incipit deve rispondere a requisiti precisi: presentare luoghi e personaggi, suscitare empatia verso il “Punto di Vista”, restituire il tono e lo spirito della storia.

Iniziamo col settaggio formale: dobbiamo capire chi è il “Punto di Vista”, dove si trova e qual è il suo obiettivo.

Seguo la segretaria lungo il corridoio che conduce alla sala del consiglio di amministrazione

Pronti, su, via, vediamo un personaggio in movimento, e la dinamicità della scena è fondamentale per colpire l’immaginazione del lettore e tenergli viva la memoria di ciò che legge.

Non sappiamo chi sia il “Punto di Vista”, ma sappiamo che sta seguendo una segretaria, in un corridoio, per andare nella sala del consiglio di amministrazione.

L’obiettivo è chiaro – raggiungere la sala del consiglio – e già qui si possono formulare delle considerazioni interessanti.

Abbiamo detto che un luogo non compare semplicemente nominandolo, quindi non si può sperare che il lettore evochi una “sala del consiglio” soltanto perché l’autore ha scritto “sala del consiglio” (tanto più che si tratta di un luogo non-standard, che in pochi sanno come sia fatto).

L’espressione “sala del consiglio” è una mera etichetta, a cui il lettore probabilmente non assocerà nessuna immagine.

Ma questa etichetta dovrebbe innescare una rapida inferenza: se c’è una sala del consiglio vuol dire che c’è un consiglio di amministrazione, e se c’è un consiglio di amministrazione vuol dire che ci troviamo nella sede di una grande azienda, perché i consigli di amministrazione sono tipici delle società per azioni (la più classica organizzazione capitalistica) e comunque la parola “consiglio di amministrazione” porta con sé la suggestione di un’azienda di livello.

Il primo pezzo di frase, nel comunicare esplicitamente l’obiettivo del personaggio (raggiungere la sala del consiglio) dice implicitamente dove siamo (nella sede di una grande azienda). Non abbiamo ancora fornito i dettagli precisi – sul tipo di azienda, sul personaggio, sul motivo per cui vuole raggiungere la sala – ma intanto, in meno di un rigo, abbiamo dato una localizzazione e uno scopo.
  
Seguo la segretaria lungo il corridoio che conduce alla sala del consiglio di amministrazione, la chioma bionda le oscilla sul tailleur blu gessato, i tacchi battono al ritmo di un tamburo da guerra. Siamo alla resa dei conti, finalmente.
 
Ricorda il principio fondamentale della scrittura moderna: tu sei il “Punto di Vista”, sei dentro il personaggio, tu percepisci quel che percepisce il personaggio, e lo devi riportare sulla pagina – con eleganza – perché il lettore conosce solo quello che si trova nella pagina e quel che la pagina può evocare secondo l’iceberg di Hemingway, ma se tu non scrivi nulla, allora il lettore non vedrà nulla.

Far rimanere le cose nella propria testa, e poi arrabbiarsi perché il lettore non le ha viste, è il classico errore del dilettante.

Se tu sei il “Punto di Vista”, e se stai seguendo la segretaria, allora ciò che vedi è la schiena della segretaria, e vale senz’altro la pena di riportare ciò che vedi (e ciò che senti) per almeno due motivi.

Anzitutto per “dare corpo” al personaggio della segretaria e arricchire così l’ambientazione; e poi per restituire la velocità della scena.

Se la chioma bionda oscilla, allora vuol dire che la segretaria procede di gran passo, come ci viene confermato anche dal rumore dei tacchi (che nella percezione psicologica del personaggio battono come un tamburo di guerra) e che quindi c’è una certa urgenza di raggiungere la sala.

Abbiamo occupato meno di tre righe, ma già si delinea un contesto che può mettere curiosità: il protagonista sta andando verso la sala del consiglio con un animo chiaramente bellicoso, come ci conferma – a prova di scemo – il pensiero che chiude il capoverso.
 
Seguo la segretaria lungo il corridoio che conduce alla sala del consiglio di amministrazione, la chioma bionda le oscilla sul tailleur  blu gessato, i tacchi battono al ritmo di un tamburo da guerra. Siamo alla resa dei conti, finalmente.

Carlo mi prende sottobraccio e rallenta il passo. «È stata un’ispezione complicata…»
 
Gli rivolgo una smorfia di dissenso. «Non più di tante altre.»

«Hai fatto un lavoro pazzesco, dico davvero» Mi strizza l’occhio, sorride. «Prometto di lasciarti in pace per un po’: almeno per due settimane rimani fermo a Roma, se possibile anche tre, così rifiati.»

«Bontà tua, capo.»
 
Compare un terzo personaggio: Carlo.

Il primo gesto che compie è prendere il protagonista sotto braccio; il gesto ha in sé un che di affettuoso, o comunque di confidenziale, e in un contesto lavorativo può avvenire solo tra un capo e un sottoposto; l’effetto immediato è di rallentare il passo della camminata (e si conferma così che sino a quel momento i personaggi andavano piuttosto spediti); e poi arriva una battuta di dialogo che rischiara la situazione.

“È stata un’ispezione complicata” suggerisce la natura dei due personaggi (con tutta evidenza due ispettori); e che il protagonista potesse essere un soggetto esterno lo si era comunicato – implicitamente – proprio con l’atto del seguire la segretaria (se fosse stato un consigliere, o comunque un soggetto interno all’impresa, non avrebbe avuto bisogno di essere accompagnato).

Il rapido scambio di battute ci conferma la possibile intuizione di fondo e aggiunge informazione: sono due ispettori e Carlo è il capo del “Punto di Vista”.

Voglio portare alla tua attenzione due punti.

Quando il capo afferma “è stata un’ispezione complicata” riceve una risposta minimizzante: il “Punto di Vista” non si lagna, non si lamenta, non piagnucola, non sta lì a dire “uh, sì, è stata molto complicata, mi hanno trattato male, gne-gne…”. E sì che l’ispezione è stata davvero complicata, come lo stesso Carlo sa bene (e come rinfaccerà al consiglio di amministrazione: “Raramente i miei ispettori hanno dovuto lavorare in un ambiente così poco collaborativo, avrei voglia di dire ostile”). Ma il personaggio abbozza, si lascia scivolare la cosa. Perché il personaggio “Punto di Vista” è – deve essere, in senso lato, ampio – un eroe: hai mai visto un eroe piagnucolare?

Dallo scambio di battute veniamo poi a sapere che il capo è molto soddisfatto del lavoro di Diego, al punto da promettergli un periodo di riposo di almeno due settimane, prima di rispedirlo in giro in qualche altra ispezione. Il lettore non ha visto Diego all’opera, non ha avuto modo di toccare con mano l’eccezionalità del suo lavoro – il che avrebbe prodotto ovviamente tutt’altro stato emotivo – ma nell’economia della scena può bastare così.
 
Una scena deve iniziare il più tardi possibile e deve concludersi il prima possibile. Avrei potuto mostrare tutta l’ispezione di Diego, dedicargli un intero capitolo, ma così sarei partito troppo indietro, rispetto all’obiettivo narrativo perseguito. E siccome l’obiettivo era lasciar intravedere la competenza professionale di Diego, una semplice battuta – del tutto naturale nel contesto – era già sufficiente, perché l’esperienza del mondo reale ci dice che i complimenti non sono all’ordine del giorno negli ambienti lavorativi, e quando un capo ne fa uno, per di più con toni entusiasti, l’apprezzamento è sincero, convinto.
 
Perché – e siamo al punto capitale – noi vogliamo protagonisti competenti, bravi nel fare ciò che gli è richiesto di fare. Espresso in negativo: non vogliamo protagonisti coglionazzi.

Seguo la segretaria lungo il corridoio che conduce alla sala del consiglio di amministrazione, la chioma bionda le oscilla sul tailleur  blu gessato, i tacchi battono al ritmo di un tamburo da guerra. Siamo alla resa dei conti, finalmente.

Carlo mi prende sottobraccio e rallenta il passo. «È stata un’ispezione complicata…»
 
Gli rivolgo una smorfia di dissenso. «Non più di tante altre.»

«Hai fatto un lavoro pazzesco, dico davvero» Mi strizza l’occhio, sorride. «
Prometto di lasciarti in pace per un po’: almeno per due settimane rimani fermo a Roma, se possibile anche tre, così rifiati.»

«Bontà tua, capo.»

La segretaria bussa con due colpi decisi, apre la porta senza aspettare una risposta. «Signori, sono arrivati gli ispettori di Bankitalia.»

L’ultima frase completa il settaggio: la segretaria bussa, apre la porta e annuncia l’arrivo degli ispettori della Banca d’Italia.

Direi che ora è tutto chiaro: il “Punto di Vista” è un ispettore della Banca d’Italia, si trova nella sede di una banca, è accompagnato dal suo capo, e il suo obiettivo visibile (arrivare nella sala del consiglio di amministrazione) è funzionale alla consegna del rapporto ispettivo agli esponenti aziendali.

Fatto: ora il lettore sa chi è il personaggio, dove si trova e perché ci si trova, ne intuisce la competenza e non l’ha visto lamentarsi.

Facile, vero? Prova a farlo tu.

Tutto il resto della scena batte invariabilmente sullo stesso punto: creare empatia verso il “Punto di Vista”.

Veniamo a sapere – come Carlo aveva lasciato intendere nel corridoio – che l’ispezione è stata complicata, che si è svolta in un clima apertamente ostile. È – se vogliamo – una piccola sofferenza ingiusta, perché Diego era lì a fare il suo lavoro di ispettore, e la collaborazione del soggetto ispezionato (quando non è un delinquente travestito da banchiere) si dà per scontata. Di nuovo: non abbiamo visto l’ostilità (che ci viene solo riferita) ma mostrarla avrebbe richiesto parecchie scene, se non un intero capitolo, e valgono qui le stesse considerazioni fatte sopra sull’economicità dello stile rispetto all’obiettivo.
 
Però vediamo bene le conseguenze materiali dell’ispezione: il consiglio di amministrazione ha deliberato il rimborso dei risparmiatori, nessun cliente della banca subirà perdite a causa della truffa (di cui si capisce che i vertici erano a conoscenza) proprio grazie all’ispezione di Diego.
 
Bravo Diego, ben fatto! Tanto più – se ci pensi – che i banchieri stanno sulle balle a tutti, sono visti come dei vampiri, e siamo portati ad empatizzare naturalmente  con chi trova la forza di piantargli un paletto nel cuore. Fai caso, in particolare, al fatto che Diego non si accontenti della delibera di rimborso dei risparmiatori. Lui è duro e puro, vuole andare sino in fondo: devono saltare le poltrone, quei tizi non devono più essere a capo di una banca, e solo allora – nell’animo di Diego – giustizia sarà fatta.
 
In modo naturale, senza forzature, la scena ci introduce poi il personaggio della nonna, che avrà una presenza ciclica nella storia.

La nonna di Diego può apparire come l’equivalente del “grillo parlante”, ma sarebbe più corretto dire che – seppur defunta – rappresenta la personificazione della “parte migliore di Diego”. Il suo obiettivo – ricordare sistematicamente quale sia “la cosa giusta” da fare – diventerà un appello al lato migliore del protagonista nelle varie situazioni che si troverà coinvolto, e rispetto alle quali – nelle mie intenzioni – il lettore dovrebbe invece desiderare vederlo agire “in modo sbagliato”, secondo lo schema dell’hamartia.
 
Ancora qualche annotazione sparsa.

La storia orbita intorno a un’ispezione bancaria con al centro dei francobolli antichi, e in questa prima scena – l’incipit – ritroviamo tutti gli elementi che faranno da traino alla narrazione: una banca, un’ispezione complicata, e gli oggetti da collezione (che qui appaiono come un omaggio raffinato dei fornitori di diamanti ai banchieri, in contrapposizione a regali più venali).
 
Osserva poi la ricorrenza della cartellina: è da quella cartellina che uscirà la delibera di rimborso dei risparmiatori –  l’evento centrale della scena – e quindi è bene che il lettore la veda quanto prima, e che gli sia richiamata più volte, anche per incuriosirlo sul suo contenuto, in accordo con la pistola di Cechov.
 
Osserva, infine, la presenza costante del conflitto in scena, perché una scena  – alla fine – non è altro che un’unità di conflitto.

Scena 2: la moglie

Con la seconda scena ci spostiamo dall’ambiente lavorativo a quello familiare. Troviamo Diego a cena con la moglie, la cui gestualità – la testa china, l’infilzare le crocchette come fossero prede, nella percezione soggettiva del “Punto di Vista” – crea già un clima conflittuale, che darà segni di sé da lì a poco (in una litigata vera e propria).
 
Il conflitto e l’obliquità del dialogo consentono di passare informazioni al lettore, con poche pennellate: sono stati una coppia felice, ma ora non più; nella moglie c’è un malessere di fondo che trova sfogo nella professione del marito (che lo porta spesso fuori casa); ma nella percezione di Diego, dalla prospettiva del “Punto di Vista”, il suo lavoro è solo la sorgente da cui sgorga uno stile di vita che la moglie considera “normale” (e che normale proprio non è).

Chi ha ragione? Il marito o la moglie, Diego o Valeria? Non ha nessuna importanza. Il mondo della pagina non è un tribunale, dove codici alla mano si appurano torti e ragioni, per far giustizia. Le pagine assomigliano piuttosto agli spalti di uno stadio, dove si fa il tifo per un personaggio o per l’altro. E qui è fondamentale che il lettore tifi per Diego.

Il punto ha grande rilevanza e merita di esser dettagliato.

Nella primissima versione, il personaggio della moglie era stato solo abbozzato, di fatto non caratterizzato, e questa vaghezza aveva indotto molti lettori a prenderne le parti nella litigata con Diego: “uh, povera Valeria, sempre sola a casa, a dover sbrigare tutto lei…”.

Questo è successo perché la scena non era stata settata a dovere, e c’ha pensato allora il lettore a completarla col suo settaggio standard. Perché il lettore completa sempre la scena, a maggior ragione se si ritrova davanti a un personaggio mal definito che non gli lascia alternative: proseguire nella lettura rendendolo tridimensionale a modo suo (in base al suo settaggio standard) oppure abbandonare il testo (perché nessuno riesce a leggere di personaggi piatti).
 
Mi illudevo che il lettore tifasse per Diego, ma lo spazio eccessivo lasciato al settaggio standard lo ha invece spinto a difendere le ragioni di Valeria.

Ho dunque messo mano al personaggio di Valeria, per renderlo odioso, e ci sono riuscito… fin troppo bene: a conclusione del primo giro di revisione ne era venuta fuori una donna completamente fuori di testa, chiaramente nevrotica o depressa, al punto da far dire ai lettori di test – di nuovo – “uh, povera moglie, è chiaro che sta male, il marito dovrebbe occuparsi di lei, e invece la lascia sola…”.

E allora ho ripreso il personaggio in mano – di nuovo – per lavorarci di fino, per cesellarlo. E quel che vedi è lo stato dell’arte: stronzo quanto basta, se vogliamo con le sue buoni ragioni, e tuttavia con uno scarso rispetto verso il marito (mortifica il suo lavoro definendolo un “andare a spasso”, quando il lettore ha visto – nella scena precedente – quanto invece sia importante; e il marito abbozza, non replica, per amore non vuole litigare; e tutto ciò concorre ad alimentare la sensazione di una sofferenza ingiusta del protagonista). Questo almeno il mio intento. Ti sarò grato se vorrai farmi avere la tua opinione (possibilmente in privato).
 
Osserva infine la ricorrenza dell’elemento collezionistico anche in questa scena (i bicchierini da caffè sulla cappa dei fornelli). 
 

Scena 3: il figlio

La scena con il figlio risponde primariamente all’esigenza di far rifiatare il lettore.

Veniamo da due scene a elevata conflittualità – una nell’ambiente lavorativo, l’altra in famiglia – e serve ora abbassare i toni, raffreddare l’ambiente, perché un conflitto costantemente elevato provoca assuefazione, non viene più percepito nei suoi risvolti drammatici, e in definitiva smette di funzionare (osserva però come il conflitto non scompare del tutto: Diego fa litigare i pupazzetti, con gran divertimento del figlio, perché il conflitto – per quanto attenuato o ridotto ai minimi termini – deve sempre trovare una via).

“Rifiatare” è dunque la parola d’ordine di questa scena. Ma in scrittura – ricorderai – vale il principio di economicità dello stile, che è pervasivo e va messo all’opera di continuo. È buona norma progettare la scena in modo che l’obiettivo primario soddisfi anche altri obiettivi rilevanti, che generi “esternalità positive” direbbero gli economisti: il classico “prendere due piccioni con una fava” deve diventare “prenderne quattro, otto, sedici, trentadue”, ovviamente sotto un vincolo di naturalezza della dinamica degli eventi.

E vedere un papà che gioca col figlio, oltre a creare un clima più rilassato, dovrebbe suscitarci empatia, almeno nelle intenzioni

Qui la faccenda si fa didatticamente interessante.

Molti lettori di test sono stati infastiditi dai pensieri di Diego, dal fatto cioè che Diego gioca sì col figlio, ma ha la testa altrove, alla notizia del salvataggio del Banco dei Marzocchi (anche se il figlio non sembra accorgersene): un papà che gioca col figlio, pensando a tutt’altro, non è il massimo dell’empatia, a quanto pare.

D’accordo, colgo il punto; però ragioniamo.

Diego è un ispettore della Banca d’Italia e ha appena sentito la notizia del salvataggio del Banco dei Marzocchi; ne è stato così impressionato da non riuscirsi a trattenere dal dirlo alla moglie (pur immaginando che a lei non importi nulla); e questa sua uscita estemporanea ha dato il pretesto al litigio. Questa notizia, in definitiva, ha provocato sconquassi emotivi a vari livelli.

Sarebbe ora sorprendente, irreale e straniante, se Diego resettasse all’istante ogni cosa: c’è una cordata per acquistare una banca imbottita di merda, ho litigato con mia moglie per averglielo detto, ma… ’sti cazzi, anzi, ’sti gran cazzi, adesso gioco con mio figlio e vaffanculo al mondo intero.

Non va, non funziona, non è credibile. L’esperienza ci dice che uno stato d’animo agitato permane nel tempo, è soggetto a inerzia, impiega un po’ per andar via. Piallare i pensieri di Diego mentre gioca col figlio, per sostituirli con altri che nulla hanno a che fare con ciò che sino all’istante prima lo ha toccato sul vivo (professionalmente e sentimentalmente) significherebbe violentare la più elementare natura umana.

Però l’osservazione dei lettori di test rimane in sé corretta: non è una cosa bella vedere un padre perso nei suoi pensieri mentre gioca col figlio.

E allora? Come si risolve il problema, visto che quei pensieri – per realismo – devono rimanere? Dimmelo tu, dai.

Ci sei arrivato, sì? Certo che ci sei arrivato, devi esserci arrivato, una volta giunto a questo punto del manuale. Altrimenti la procedura è la solita: torna al modulo 0 e ricomincia.

Il problema si risolve diluendo i pensieri di Diego.

La scena è fastidiosa perché è troppo bilanciata, c’è troppa alternanza tra Diego che gioca col figlio e Diego immerso nei suoi pensieri. Bisogna allungare la scena e ricalibrare le proporzioni: un 85/15 – il l’85% della scena allocato a Diego che gioca col figlio, il 15% ai suoi pensieri sul Banco dei Marzocchi – potrebbe ripristinare l’empatia verso il personaggio, salvando il realismo della situazione.

Semplice, no? Come tutte le cose, se solo ci si ragiona.
 

Scena 4: sul posto di lavoro

La scena sul posto di lavoro è ciò che Pontiggia avrebbe definito “una parte strutturale”: è “un corridoio” – piace dire a me – cioè una scena molto breve, interamente al servizio della scena successiva, senza un particolare scopo in sé (oltre a quello, appunto, di funzionare “da corridoio” per raggiungere la scena seguente).
 
Però – ricorda Pontiggia – parti strutturali prive di espressività non dovrebbero essercene, in una storia ben fatta. D’accordo che la scena è per lo più strumentale, ma la sua funzione ancillare non giustifica la pigrizia o la svogliatezza nel realizzarla. Perché – di là di tutto – non è una cosa furba: la pagina è uno spazio prezioso, e non sfruttarlo col pretesto che si sta “solo scrivendo una parte strutturale” viola i principî di ottimizzazione della scrittura

Quindi, per quanto breve e strumentale, si è cercato di realizzarla in modo da massimizzare la sua utilità.

Pronti, su, via, vediamo Diego arrivare un po’ tardi al lavoro, ma per il più empatico dei motivi: ha accompagnato il figlio all’asilo e si è fermato a giocare per tutto il tempo necessario a lasciarlo sereno, prima di andare via.

Compare poi il personaggio di Alessandra, che avrà un suo ruolo nel seguito (e ti sarei grato se volessi dirmi – in privato – come ti sei immaginato questa donna, quale impressione ti ha fatto).

E Alessandra pone Diego di fronte al più micidiale dei conflitti: quello contro il tempo.
 
Il suo capo lo sta aspettando, già da un po’, niente meno che nell’ufficio del Governatore, e lui è ancora lì in ufficio, per di più con un look sì ordinario, ma sul quale si è preso qualche libertà (l’idea sarebbe di non farlo apparire come un colletto bianco impettito nella sua uniforme d’ordinanza; così come la battuta di dialogo “Sono solo uno dei settemila soldatini” ambirebbe a veicolare la sua modestia, uno stato d’animo che rimane umile).
 
Il nostro protagonista è molto più in ritardo di quanto pensasse – anche se non per colpa sua – e ora deve sbrigarsi.
 

Scena 5: l'incontro con il Governatore

Questa scena si presta bene a fini didattici, per la ricchezza di espedienti narrativi messi in atto.

Ritroviamo Diego al piano nobile di Palazzo Koch, un ambiente per lui sconosciuto, mai visto prima.

E qui possiamo richiamare un principio basilare della scrittura: collocare il “Punto di Vista” in luoghi che non gli sono familiari.

Perché se il “Punto di Vista” si trova in un ambiente nuovo, o almeno non troppo conosciuto, gli verrà spontaneo osservarlo con attenzione, per la naturale curiosità indotta dalla situazione di novità, perciò noterà molti dettagli, e notandoli lui anche il lettore ne verrà a conoscenza. Se invece si trova in luoghi ben noti, già visti ripetutamente, non sarà attratto da nulla o quasi, quindi non presterà attenzione a ciò che lo circonda e il lettore ne rimarrà all’oscuro.
 
Tutto è nuovo in un lungo sconosciuto, e quindi tutto può essere realisticamente notato dal “Punto di Vista” e portato a conoscenza del lettore. Tutto è già conosciuto in un luogo familiare, quindi tutto tendenzialmente verrà ignorato, a meno che non accada un evento specifico che attiri l’attenzione su qualche dettaglio (come avviene nella scena 2, quando l’arrabbiatura della moglie fa spostare lo sguardo di Diego sui bicchierini da caffè, per raccogliere almeno l’eco di quella felicità che ora non c’è più).

Il nostro protagonista ha dunque l’obiettivo di andare nell’ufficio del Governatore, e incontra una neanche troppo velata opposizione. Davanti alla porta di vetro blindata c’è un energumeno che lo guarda con sospetto, e non senza ragione: dal Governatore non si va, dal Governatore si viene convocati – viene da dire – e la convocazione del Governatore segue procedure precise; non si arriva “per caso” davanti a quella porta di vetro blindata; si arriva davanti a quella porta perché il Governatore ti ha chiamato, e a cascata tutti i presenti al piano sono stati informati del tuo arrivo.
 
Qui però c’è un’urgenza che ha fatto saltare il protocollo, ma il protocollo rimane inviolabile nella prospettiva dell’energumeno, che guarda con sospetto chiunque si trovi lì senza che lui ne sia stato informato. E così ritorna il conflitto: Diego deve sì andare dal Governatore, ma trova un ostacolo (l’energumeno che vuol vederci chiaro) che incidentalmente acuisce il conflitto contro il tempo.

L’attesa di Diego viene sfruttata per riagganciarsi alla scena iniziale. È ovvio che il nostro personaggio congetturi sui motivi della sua (irrituale) convocazione, ed è normale che il pensiero corra alla sua esperienza più recenti, all’ispezione appena conclusa (la scena 1). Il passaggio è quindi massimamente verosimile e crea un intreccio tra scene, che è un requisito fondamentale di una buona storia.

Bisogna evitare di scrivere scene che siano l’equivalente della particella di sodio nell’acqua Lete: scene isolate, staccate dal resto, magari anche valide nel passare informazioni, ma sprovviste di collegamenti o agganci con altre parti della storia. Se sul piano formale una storia è una sequenza di scene, sul piano sostanziale la sequenza deve caratterizzarsi per un continuo gioco di specchi tra le singole scene che la compongono.

In un modo o nell’altro Diego arriva nell’ufficio del Governatore, e qui voglio portare alla tua attenzione il classico espediente narrativo per fornire sul lettore un blocco di informazioni sul “Punto di Vista”, senza scivolare nella gora dell’eterno fetore dell’infodump.

Sai già che nulla impressiona il lettore come vedere agire il personaggio in coerenza con il suo profilo psicologico, ma – da autore – potresti avere la necessità di delinearne contorni con un flusso veloce di informazioni. E la soluzione standard è proprio quella che vedi qui: il personaggio “Punto di Vista” (Diego) viene presentato da un personaggio “A” (Carlo, il suo capo) a un personaggio “C” (il Governatore) e quindi indirettamente anche a lettore.

Nessun personaggio del mondo della pagina si sta rivolgendo verso il mondo reale (ovvio: i personaggi non sanno che esistono dei lettori); abbiamo solo dei personaggi che parlano tra loro, che stanno facendo conoscenza, e la loro conoscenza diventa la nostra, di chi legge da fuori.

Il realismo è fondamentale, e il realismo è qui perfettamente rispettato: in un’istituzione, così come in una grande azienda, il vertice non conosce personalmente ogni singolo elemento della base; il Governatore non può conoscere ogni dipendente della Banca d'Italia, quindi la presentazione di Carlo ci sta tutta e rafforza e qualifica la sensazione di un personaggio competente (Diego è laureato in matematica – non la classica, stereotipata, economia o giurisprudenza – e della matematica ha saputo cogliere l’insegnamento più alto e generale, la versatilità, la capacità di adattarsi a qualunque situazione si fronteggia).

Smarcata la presentazione, inizia un dialogo a tre, segnato – non può essere altrimenti – da conflitto e obliquità.

Giusto per dire una: il Governatore vuol sentirsi dire che è possibile avere una valutazione obiettiva di una collezione filatelica, Diego non se la sente di affermarlo, ma il suo capo – Carlo – gli fa capire che la risposta deve essere affermativa (perché probabilmente si è già speso questa possibilità, quando ancora Diego non c’era).
 
Conflitto e obliquità permettono di far fluire informazioni verso lettore, che – a scena conclusa – ne sa molto di più sull’intera vicenda, rispetto all’inizio; e qui le informazioni lasciano pure intravedere una manifestazione di quel tratto caratteriale del “Punto di Vista” che prende il nome tecnico di difetto fatale (che è al centro dello sviluppo di ogni storia, nel senso che ogni storia – in ultima analisi – parla delle conseguenze del superamento, o del mancato superamento, del difetto fatale del protagonista).

Diego ha una passione per il collezionismo di francobolli antichi, che gli fa perdere il controllo di sé quando si tira fuori l’argomento: dà una micro-lezione al Governatore sulla geografia degli Antichi Stati Italiani, si lascia andare a citazioni in latino, e pare si sia trasferito in un’altra dimensione quando sfoglia l’elenco delle rarità filateliche a garanzia dell’aumento di capitale.

Ovviamente la rilevanza non è nei francobolli antichi in sé, ma in ciò che questi oggetti sono in grado di smuovere nell’animo del nostro protagonista; è ovvio che il lettore vedrà sempre “cose e fatti”, ma quel che conta è il valore emotivo, psicologico, che il personaggio carica su quelle cose e quei fatti – o se preferisci, quali corde dell’animo del personaggio sono toccate da quelle cose e dai quei fatti – ed è questo valore che bisogna riuscire a trasmettere, nei tempi e nei modi propri della narrazione scritta.

La scena si conclude con la prospettiva di una nuova sfida contro il tempo – entro un mese Diego dovrà dire se la collezione può essere accettata come garanzia dell’aumento di capitale – e qui voglio portare alla tua attenzione un fondamentale aspetto “di contesto”.

Diego è sì collocato in una situazione più grande di lui – il salvataggio del Banco dei Marzocchi, da cui dipende anche la reputazione della Banca d’Italia – ma è comunque un personaggio attivo, con un suo ruolo preciso, anche se velatamente condizionato: sarà lui a fornire il parere tecnico su cui dovrà maturare la decisione politica, ma le parole finali del Governatore suonano come una spinta a rilasciare comunque un parere favorevole, per non mettere in imbarazzo chi poi dovrà decidere.

Questo passaggio presume in effetti un target di pubblico abbastanza caratterizzato, lettori che sappiano grossomodo come gira il mondo, e riescano quindi a cogliere il messaggio presente nel sotto-testo.

In generale, in qualsiasi azienda o istituzione, la decisione del vertice è vincolata a un parere tecnico sulla sua “sostenibilità”; ma i vertici non amano i vincoli, e sperano sempre che il responso tecnico li lasci sostanzialmente liberi, che il vincolo non morda; e spesso non si limitano a sperarlo, ma inducono il responso desiderato con atteggiamenti più o meno audaci, che creano una commistione tra tecnicismo e politica; al tecnico vengono prospettate conseguenze catastrofiche, nel caso in cui il suo responso sia negativo, caricandolo di una responsabilità che non lo compete – la decisione politica – ma lasciandogli intravedere la possibilità di “far carriera” in cambio di un’opinione concorde alle attese; il tecnico può accettare o rifiutare – piegarsi o mantenersi duro e puro – ma ogni scelta rimane travagliata, ha le sue controindicazioni; se piega la sua valutazione a una decisione politica già presa, e poi le cose vanno male, il vertice gli scaricherà la colpa con la più classica delle exit strategy ( “i miei tecnici mi avevano rassicurato che era tutto a posto”); se invece rifiuta, allora vi si abbatte sopra lo stigma del “rompicoglioni”, di quello che non sa come funziona il mondo, e la prospettiva di una carriera rapida si trasforma nel suo opposto. Bel casino, vero?

Chiudo con un’annotazione sulla cosiddetta sofferenza ingiusta.

Cosa si era sentito promettere Diego, dal suo capo, nelle prime battute dell’incipit? Di essere lasciato in pace per un po’, sicuramente due settimane, forse anche tre, dopo quell’ispezione sfiancante sull’affaire diamanti. E il lettore ora sa quanto Diego avrebbe bisogno di restare a casa, tranquillo, per acquietare la moglie. L’argomento del lavoro fuori sede era stato il pretesto della litigata (“Te ne vai di nuovo a spasso?”) e Diego aveva escluso l’eventualità di una partenza imminente, proprio perché rincuorato dalla promessa del suo capo (“No, sono appena tornato”). E invece ora dovrà dirle che lunedì metterà il culo su un aereo, e dovrà sorbirsi un’altra (ingiustificata) sfuriata.
 
Questo non è giusto, proprio no: povero Diego, non se lo merita proprio. E questa sofferenza ingiusta dovrebbe concorrere a sviluppare l’empatia verso il “Punto di Vista”, a farci tifare per lui, a prenderne le parti, ad averne a cuore la sorte.
 
Però – ti prego di notare – la sofferenza ingiusta che Carlo infigge a Diego non è gratuita, non sta messa lì solo perché il protagonista deve soffrire e allora lo faccio soffrire perché sì, piazzandogli accanto dei kattivi-kattivissimi che godono nel fare il male per il male.
 
Carlo probabilmente non sa nulla dei problemi coniugali di Diego; gli aveva promesso di lasciarlo in pace per un po’, è vero, ma con l’ovvio sottinteso che non fosse sorta nessuna urgenza. Il lavoro di un ispettore è pianificabile solo in parte, e per la quota complementare assomiglia a un pronto soccorso: non puoi tirarti indietro solo perché hai già lavorato tanto, se un’ambulanza è appena arrivata con un paziente in codice rosso.

Carlo sta semplicemente svolgendo al meglio il suo lavoro di responsabile del Servizio Ispettorato: se posso, ti faccio rifiatare; se sopraggiunge un’imprevisto, ti adegui; perché questi sono i patti non scritti, e tuttavia cogenti.
 
Carlo non vuole far soffrire Diego, e però Diego soffre comunque a causa della decisione di Carlo.
 
L’invito è a tener sempre presente la complessità della vita e il realismo delle situazioni, per trasferire poi complessità e realismo nel mondo della pagina. I personaggi – tutti i personaggi, non solo il protagonista – sono esseri reali che agiscono per uno scopo, per conseguire degli obiettivi. Ogni personaggio è il protagonista della sua storia, perciò in ogni romanzo ci sono tante storie quanti sono i personaggi. Solo che tu, da lettore, ne vedi solo una – perché gli eventi sono messi in una prospettiva che dà enfasi a una sola storia tra le tante in scena – ma, da autore, non devi mai dimenticare le ragioni di tutte le altre.

Scena 6: in viaggio verso Zurigo

Diego è in aereo, il suo obiettivo è arrivare a Zurigo; facciamo una rapida conoscenza dei colleghi con cui lavorerà, e capiamo che è soddisfatto della sua squadra, ma intuiamo pure che teme gli aspetti caratteriali (un classico: i gruppi di lavoro sono spesso composti da persone tutte singolarmente competenti, che si stanno però reciprocamente sulle balle, e sembra non aspettino altro che un’occasione per litigare). Di nuovo: se non c’è un conflitto, ci deve almeno essere una prospettiva di conflitto (e quella prospettiva poi si materializzerà in una scena che qui non è riportata).

Le righe successive sono finalizzate a rafforzare l’empatia verso Diego, e ce lo mostrano amorevolmente concentrato sulla moglie, che appare fredda e insensibile (dalle risposte sulla chat, ma anche dall’immagine di profilo scelta per WhatsApp). Ma quelle stesse righe ci presentano pure Fabiana, un personaggio secondario, e tuttavia “di peso”.

Procediamo con ordine.

Sei stato diffidato più volte dallo scrivere i cosiddetti “flussi di coscienza”, che nel nostro schema di scrittura equivalgono a una lunga sfilza di mattoncini [P]. Un personaggio che pensa, pensa, pensa, e poi pensa ancora, ancora e ancora, è semplicemente irreale. E poi, di là di tutto, dove sarebbe il conflitto? Nelle sue pippe mentali? E tuttavia – ammettiamolo – un lungo fraseggio interiore si presta bene a passare rapidamente informazioni al lettore. Quindi?

Quindi si fa in modo che il flusso di coscienza, o fraseggio interiore che si dir si voglia, sia pienamente giustificato, usando strumentalmente il luogo in cui si realizza.

Le ore di viaggio sono un tempo morto per la maggior parte delle persone, un intervallo in cui non si sa mai bene cosa fare. Quando si è in treno su un tragitto a lunga percorrenza (dalle tre ore in su) ci si può ancora organizzare: si può lavorare, studiare, leggere un romanzo, intrattenersi con internet, anche solo dormire o magari scrivere le pagine di un blog. Ma cosa vuoi mai combinare su un aereo che in meno di un paio d’ore sarà a destinazione? C’è solo da guardare fuori dal finestrino e… pensare, pensare, pensare, in attesa dell’atterraggio. Anche perché l’aereo è oggettivamente più stressante del treno, concede meno libertà, e di base non invoglia a intraprendere un’attività più impegnativa del pensare. Non sempre è così, chiaro, tant’è ad esempio che Fabiana apparecchia tutto il necessario per studiare (anche se poi non è che studi granché). Però, in generale, ci sta che in aereo ci si abbandoni ai propri pensieri.

E questo è ciò che sostanzialmente avviene in scena, ma con un minino di intelligenza e buon senso, per evitare effetti di straniamento. Se esegui il test del mattoncino, ti renderai conto della varietà del testo: non troverai mai – formalmente – una smitragliata di puri pensieri; è vero che sostanzialmente il personaggio è solo con sé stesso, con i suoi pensieri, ma si è avuto cura di ripristinare elementi sensoriali e di fargli compiere piccole azioni, ogni qual volta era possibile.
 
Si è cercato – in definitiva – di simulare al meglio un viaggio in aereo, in accordo col fatto che “il luogo è un personaggio”, da sfruttare in tutte le sue potenzialità; e il luogo-personaggio dà il più evidente segno di sé nella turbolenza, che non potrebbe mai avvenire in treno, e offre a Fabiana l’occasione per stabilire un contatto fisico con Diego.

E veniamo a lei, al personaggio Fabiana. Una bella tipetta, non è vero? Pure troppo, forse.
 
Un sottoinsieme dei lettori di test mi ha contestato la sua eccessiva intraprendenza. Avrei dato la classica replica del pessimo scrittore, se fossi un pessimo scrittore: “guarda che le ragazze di oggi sono in realtà molto più mignotte di così, altroché; a me, per esempio, una volta è successo che…”.

Sì, certo, va bene. Ma il fatto che nel mondo reale una donna ti si possa infilare nel letto quasi a tua insaputa non sdogana l’evento anche nel mondo della pagina; il fatto che nella vita vera accade di tutto non significa che tutto va automaticamente bene anche nella vita della pagina; un impossibile credibile –  nel mondo della pagina – è invariabilmente da preferire a un possibile incredibile.

Forse il personaggio Fabiana va limato, ma prima di mettergli mano vorrei avere una base più ampia di opinioni. Perché la scrittura – come gran parte delle cose della vita – è un fatto di statistiche: se a 7 lettori su 10 Fabiana va bene così, allora Fabiana non si tocca, e amen per quei 3 che storceranno il naso; e se poi la frazione 7/10 si mantiene stabile al variare del numero di lettori (14 su 20, 21 su 30, …, 70 su 100) allora il personaggio è blindato.

Fabiana è un personaggio secondario, e pur fondamentale. Fabiana materializza anzitutto la tentazione: giovane, carina, intelligente e soprattutto ben disposta e disponibile, esattamente quel che ci vuole per distrarsi da una moglie fredda, insensibile, annoiata e lamentosa, che peraltro non verrà mai a sapere nulla di un eventuale tradimento. Ma “lo saprai tu”, gli ricorda la voce della nonna (e non vivresti più come prima, perché ogni moto scomposto dell’anima è punizione a sé stesso).

E quindi? Cosa farà Diego? Qui i lettori di test si sono spaccati in due: chi “tifava per il tradimento” (un bell’esempio di hamartia) e chi quasi mi implorava di “non fargli scopare la ragazzina”.

Siamo qui a costruire l’empatia, e per empatizzare con un traditore serve molto più di una semplice moglie rompicoglioni (visto che “l’essere rompicoglioni” è una caratteristica di serie di ogni moglie, nel percepito comune). Quindi Diego non tradirà Valeria, e c’è un passaggio di una scena (qui non riportata) al servizio di questa informazione: il gruppo è atterrato a Zurigo, si trova sulla macchina privata che li sta conducendo alla sede della banca, ma prima Diego chiede di fare una breve sosta in albergo per lasciare le valige; i tre entrano in hotel e Diego spiega la situazione (“abbiamo la macchina fuori che ci aspetta, lasciamo le valigie, il check-in lo facciamo stasera”); si infila una mano in tasca mentre sta percorrendo la hall per tornare alla macchina, tira fuori il bigliettino col numero di Fabiana, lo guarda per un istante, sospira, scuote la testa, ride, e lo riduce a pezzettini che il vento di Zurigo si porta via. Congediamo pure il personaggio di Fabiana, con tanti ringraziamenti per aver contribuito ad accrescere l’empatia verso Diego.

Tu ora sai come prosegue la storia, ma il lettore no. Il lettore è lì a chiedersi cosa troverà nelle pagine successive. Vedrà Diego nella solitudine di una camera d’albergo a supplicare la moglie per un week-end d’amore a Venezia? Oppure se lo ritroverà con le mani che tengono ferme le cosce di Fabiana, mentre la sbatte a pecorina? Boh! Serve continuare a leggere, per saperlo. È stato cioè introdotto un piccolo elemento di curiosità – non così originale, d’accordo, ma pur sempre pruriginoso – che da solo può bastare a incentivare la lettura, se pure non ci fosse altro.
 
Di là di tutti questi aspetti particolari c’è il solito punto generale: arrivato alla fine della scena, il lettore ne sa molto di più sull’intera vicenda, rispetto a quanto ne sapeva all’inizio.
 

L'inesorabile scorrere del tempo

Ogni storia – sul piano formale –  procede per tagli di scena: interi “pezzi di vita” di Diego vengono saltati a piè pari – perché poco interessanti o addirittura disfunzionali – chiudendo ogni scena in modo da creare un aggancio alla scena successiva (di per sé è temporalmente sconnessa dall’ultimo evento della scena in chiusura).

La frase di chiusura (di una scena) è in genere compatibile con una molteplicità di aperture (della scena successiva) e serve ragionare a fondo su quale sia la scelta ottima nel novero delle ammissibili.

Prendiamo ad esempio la scena 5, quella nell’ufficio del Governatore, che si conclude con la dichiarazione del macro-obiettivo di Diego nel seguito della storia. Ho scelto di riaprire il sipario sull’aereo in partenza per Zurigo, ma è ovvio che tra questi due istanti di tempo – il Governatore che nel suo ufficio consegna l’incarico a Diego, da un lato, e Diego che sistema il trolley nella cappelliera dell’aereo, dall’altro – sono successe parecchie cose.

Diego sarà uscito dall’ufficio del Governatore insieme al suo capo, e i due saranno tornati nei loro uffici e avranno continuato a parlare dell’ispezione; poi magari saranno andati a pranzo insieme; poi saranno tornati in ufficio e, a giornata lavorativa conclusa, Diego sarà tornato a casa, si sarà fatto una doccia, avrà giocato un po’ col bambino, avrà cenato, in attesa del momento migliore in cui dire alla moglie che già lunedì sarebbe dovuto ripartire. E la moglie come l’avrà presa? Male, ovviamente. E i due avranno probabilmente litigato di nuovo.
 
Avrai potuto riprendere la storia da qui, dalla comunicazione di Diego alla moglie di una nuova ispezione, e mostrare quindi un’altra litigata, cioè un conflitto, ma sarebbe stata una scelta pessima. E il motivo dovresti dirmelo tu, se hai studiato il modulo 22. Se non sai dirmelo, la procedura è la solita: torna al modulo 0 e ricomincia tutto daccapo.

La scelta sarebbe stata pessima perché i conflitti devono variare per tipologia e intensità, altrimenti il lettore sviluppa assuefazione, e non ci fa più caso.

Se hai già mostrato una litigata tra marito e moglie, tra le mura domestiche, motivata dal lavoro del marito, allora è stupido mostrarne un’altra identica – sempre a casa, sempre a causa del lavoro del marito – perché non solo non aggiunge nulla di nuovo, ma rischia di depotenziare i contenuti drammatici della litigata precedente. È un attimo a indurre nel lettore tiepido l’effetto “che palle!” (della serie “questi due stanno sempre a litigare, sempre per la stessa cosa”). È ovvio che Valeria si sarà incazzata, e il lettore potrà immaginare da sé il livello della sua incazzatura dal comportamento di Diego sull’aereo, prima della partenza, quando le manda il WhatsApp.
 
Queste cose possono essere lasciate alla libera fantasia del lettore, che parteciperà così alla storia per quanto deve partecipare, per quanto è legittimo che ci metta del suo. E tu, autore, puoi così concentrarti sulle cose che invece vuoi che capisca come le deve capire, affinché il tuo messaggio passi con la massima chiarezza.

Ma quel che voglio stressare è più che altro il trascorrere del tempo all’interno della scena, nel mondo della pagina, quando diverge spettacolarmente dal tempo di lettura nel mondo reale, e tuttavia – se le cose son fatte bene – la sproporzione non si nota.

Il volo aereo Roma-Zurigo impiega un’ora e trentacinque minuti. Ti è servito tutto questo tempo – un’ora e trentacinque minuti – per leggere la scena 6 che lo descrive? Ovviamente no. Ti saranno bastati pochi minuti. E tuttavia – sempreché la scena sia stata scritta bene – dovresti aver avuto la sensazione di stare lì sull’aereo, col personaggio, per un’ora e trentacinque minuti.
 
Non è facile spiegare come si riesca a produrre questo effetto; ma spero che l’esempio – se riuscito – ti possa essere d’aiuto e d’ispirazione.
 

Thank you for your opinion

Scrivere può sembrare una mission impossible, una volta realizzata la portata della sfida che si fronteggia.

Si deve creare un mondo dal nulla, da zero, solo con segni grafici (parole) su una pagina, che il lettore dovrà poi decodificare, secondo la chiave fornita dall’autore.

Ma qui, a differenza di altri codici cifrati, non c’è una regola fissa di decodifica, che una volta scoperta può esser messa all’opera meccanicamente.

In scrittura si procede sempre frase dopo frase, parola dopo parola, ogni volta con sfumature diverse della chiave generale, e basta un nulla a interrompere il flusso che viaggia dai segni sulla pagina all’anima del lettore.

Se c’è una speranza di riuscire in un esercizio che quasi non fa presa sulle capacità umane, allora questa speranza passa di necessità attraverso il controllo maniacale di ogni frase, di ogni parola.

Sulla pagina non devono esserci frasi o parole inutili, discordanti o ridondanti. Ogni frase deve avere uno scopo, ogni parola deve contare.
 
I primi due capitoli di 60 crazie sono stati concepiti così: pesando e soppesando ogni singola parola all’interno del flusso narrativo in cui si inseriva, avendo presente che quel flusso si inseriva a sua volta in una scena, da connettere con altre scene, per formare la storia.

Non sta a me dire quale sia il risultato di questa operazione di alta chirurgia, per il semplice fatto che – in qualità di autore – non posso saperlo.

Però forse puoi dirmelo tu, o almeno aiutarmi a capirlo.

Dimmi pure quel che ne pensi – possibilmente in privato, per non influenzare altri – senza sbrodolare in complimenti inutili, senza atteggiarti a editor di ’sto cazzo: voglio semplicemente il tuo pensiero, così come ti viene.

Mettiti in condizione – col tuo parere – di avere la mia sincera e spassionata gratitudine, di non farti rispondere…
 

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