Modulo 26 – Esercizio #2

 
 
Chi sa fare fa, chi non sa fare insegna.

Ho già stigmatizzato questa idiozia, e ora è il momento di demolirla definitivamente, perché è fondamentale smazzar via ogni dubbio, fare massima chiarezza in fatto di educazione alla scrittura e realizzazione di un testo.

Chi è uno scrittore? È un signore che ha in testa una storia – tecnicamente, un arco di trasformazione del personaggio – e possiede quanto meno le conoscenze di base per rappresentarla al meglio nel mondo della pagina.

Chi è un formatore? È un signore che possiede le conoscenze per realizzare una storia e per rappresentarla nel mondo della pagina – e spesso le possiede a un livello superiore allo scrittore – ma non ha in testa una storia da scrivere.

E ora dimmi: in che modo non avere in testa una storia toglie valore alle conoscenze teoriche?

Sarebbe censurabile se il formatore tenesse un atteggiamento di non-collaborazione – quasi di disdegno verso lo scrittore – perché dispiaciuto nel vedere un corpo perfetto di teoria doversi adattare a una storia specifica che non potrà mai essere altrettanto adamantina.

Così come sarebbe stigmatizzabile se il formatore avesse un atteggiamento pseudo-collaborativo, di distacco verso lo scrittore, a cui trasferisce sì conoscenza, senza però accettare il dialogo e il confronto sul testo sotto esame.

Ma un vero formatore tiene sempre un atteggiamento di autentica collaborazione, che influenza il suo stesso percorso mentale: il formatore non si limita a fornire soluzioni già pronte; affronta piuttosto il problema insieme allo scrittore, e lo studia affinché i vincoli della teoria inducano a sprigionare le soluzioni migliori in quella specifica storia.

La stupidaggine del chi sa fare fa, chi non sa fare insegna si regge sull’equivoco intorno al significato del verbo fare.

Per realizzare una buona storia (nel mondo della pagina) bisogna fare molte cose, e la cosiddetta “divisione del lavoro” non è certo una delle tante novità tecnologiche dei giorni nostri. La sosteneva l’economista Adam Smith, nel ’700, e alcuni la fanno risalire addirittura a Menenio Agrippa, intorno al 494 avanti Cristo. Dividiamoci il lavoro, affinché ognuno possa fare quel che sa fare meglio, nella prospettiva di raggiungere l’esito migliore per tutti. Dividere il lavoro non raddoppia i risultati e non dimezza i rischi: decuplica i primi e decima i secondi.

Puoi vederla nei termini del Principe e del suo Consigliere: il Principe (lo scrittore) ha la testa troppo affollata di pensieri (di storie, o di possibili sviluppi di una sola storia) per vederne nitidamente ogni singolo risvolto (ogni aspetto della teoria), che solo il suo Consigliere (il formatore) può prospettargli con la necessaria chiarezza (riportandolo sempre alle scelte migliori) proprio perché la sua testa è sgombra di pensieri (di storie) e riesce pertanto a ragionare in modo più preciso (maggiormente conforme alla teoria).

Quindi – per favore, per cortesia – piantala con questa idiozia del chi sa fare fa, chi non sa fare insegna, smettila di palesare la tua imbecillità domandando a un formatore di scrittura di mostrarti ciò che ha scritto, visto che ha la pretesa di insegnare. Meglio tacere, e dare l’impressione di essere idioti, che parlare e togliere ogni dubbio, non trovi?

Coloro che scrivono e insegnano – ne parlavo nel modulo 14 – lo fanno perché obbligati a farlo: perché – al netto di una frazione irrisoria, stimata nello stesso ordine del numero dei vescovi italiani – nessuno vive di scrittura, nessuno paga mutuo, bollette e assicurazione auto con i proventi delle vendite dei propri libri; ci si deve arrangiare, se si è scelto di lavorare in editoria, anche perché pecunia non olet, e le cosiddette royalties incrementano il conto-corrente allo stesso modo dei pagamenti ricevuti per altri servizi (100 euro rimangono 100 euro, poco importa se provengono dalla vendita di 50 libri o dalla prestazione di 1 ora di consulenza).

Se l’argomento ti interessa, trovi qui sotto chi lo spiega perfettamente (di sicuro meglio di quanto possa fare io).
 

La spiegazione di Livo Gambarini.
 
 
 
Il punto di vista di Marco Carrara, il Duca di Baionette.

Ma ora – per quel minimo che vorrai riflettere – capirai che è imprenditorialmente rischioso assommare su di sé entrambe le figure, dello scrittore e del formatore.

Se insegno scrittura e al tempo stesso scrivo romanzi, se alterno il mio tempo tra un’attività e l’altra, ci sarà il rischio che un mio studente, dopo aver letto una mia storia, possa mettermi di fronte alla più imbarazzante delle verità: “caro formatore di scrittura, in base ai tuoi meravigliosi insegnamenti su come si progetta una storia e la si mette sulla pagina, io posso sicuramente dire che il tuo romanzo, l’opera che tu, formatore, hai realizzato, è una montagna di merda”.

Le ragioni – di un testo di merda, pur scritto da chi conosce le regole della buona scrittura – sono riassunte modulo introduttivo agli esercizi e in ultima istanza, se vogliamo, si riconducono alla pigrizia, sempre in agguato quando si scrive.

Come si fa a proteggersi dal rischio di una figura di merda?

Semplice: si alterano i principî dell’insegnamento sino a snaturarli, si dilata il perimetro delle soluzioni ammissibili fino a includervi praticamente ogni possibile scelta, si suggerisce di fare una cosa, ma si afferma che pure il suo contrario va bene, e si arriva a dire che la scrittura non si insegna ma si può imparare (sic!) perché in fondo – notiziona! – non è mica una scienza esatta, e ognuno deve trovare la sua strada da sé, “la sua voce” come si dic con grande stile; si dice e si fa tutto questo, e tante altro ancora, e però si vuol far intendere che la scrittura sia una disciplina seria, un’arte, un’attività che richiede impegno e dedizione.

Con questo trucchetto si tengono due piedi in una scarpa, si ha la botte piena e la moglie ubriaca – e perdonami i cliché, ma non ho voglia di trovare immagini migliori, a testimonianza di quanto sia infida la pigrizia – si può insomma dire che il proprio testo, per quanto scritto male, sia conforme agli insegnamenti che si impartiscono, artatamente alterati rispetto agli standard più rigorosi, proprio per poter giustificare praticamente ogni cosa.

Signori miei, mettetevi d’accordo con voi stessi, o quanto meno con la maggioranza delle personalità multiple che si agitano dentro di voi.
 

Stefania Crepaldi è un nome che dirà poco ai più; ma è un nome ben noto per chi bazzica nell’ambiente della formazione letteraria. La sua presentazione – come spesso avviene – la troviamo nel suo stesso libro.
 
 
 
Di formatori ce ne sono tanti, ma Stefania Crepaldi si nota più di altri perché su di lei risplende la luce della Audino Editore, ben nota nell’ambiente per aver ripubblicato in lingua italiana tutti i migliori manuali americani di scrittura e sceneggiatura; e se l’Audino decide di accogliere tra le sue fila anche altri autori, allora saranno sicuramente figure valide.
 


Stefania Crepaldi è dunque un formatrice di scrittura, dà Lezioni di narrativa a chi vuol imparare.
 
Ma Stefania Crepaldi è anche un’autrice, ha scritto il romanzo morire ti fa bella (scritto così: tutto in minuscolo) e c’è da presumere – in linea di principio –  che il suo romanzo sia la miglior lezione pratica che può dare, oltre tutta la teoria che può insegnare.
 
Il pitch – a differenza di ciò che abbiamo visto per La linfa sale dalle radici – mostra tutta la sua competenza (artistico-commerciale) perché fa esattamente quel che un pitch deve fare: invogliare a comprare il libro.
 
 
Non ci rimane che aprire l’anteprima gratuita su Amazon, e vedere cosa troviamo dentro le pagine del romanzo.
 

 
 
E allora, cosa mi dici? Sì, dico proprio a te, lettore del blog, che avrai sicuramente già studiato più volte tutti i moduli di scrittura e sceneggiatura. Cosa mi dici queste prime pagine del romanzo morire ti fa bella, avendo ormai tutte le conoscenze per poterlo giudicare al di là dei tuoi gusti?

Lascio a te – come esercizio – il line editing del testo, l’analisi ravvicinata della scrittura, riga per riga, parola per parola, e mi limito a snocciolare alcune semplici considerazioni che possano esserti da guida.
 
Come rovinare una copertina. Il pitch del libro funziona, mette curiosità, sollecita l’acquisto; ma le informazioni veicolate dalla copertina (su cui peraltro l’autrice potrebbe non aver messo bocca) soffrono di almeno due problemi, uno soggettivo (che magari riguarda solo me e pochi altri) e l’altro oggettivo (rispetto ai migliori standard accettati dalla comunità degli autori). 
 
Questione soggettiva: un lettore evoluto presume sempre che lo scrittore sappia di cosa sta scrivendo, che non sia lì a rimescolare le brutte scene di un film medio o di una serie tv; e – su questa presunzione – concede un’aprioristica linea di credito, di fiducia, che però lo scrittore deve poi dimostrare di meritare nel corso del libro, se non vuole che il lettore ritiri il suo credito e smetta di leggere. Questo il dato di fatto fa da premessa alla mia sensazione: la copertina dice che la protagonista fa “l’investigatrice”, e io – forse sono il solo o forse no – non posso fare a meno di chiedermi cosa e quanto ne sappia l’autrice di investigatrici e di indagini, quale sia la sua reale conoscenza di questo mondo così particolare, di cui in tanti, in troppi, si dilettano a scrivere senza nessuna conoscenza specifica, o peggio, con la sola conoscenza che gli proviene da film e serie tv. Sarà un problema solo mio, forse, ma ogni volta che sento parlare di personaggi “investigatori improvvisati” mi torna in mente Don Tonino, la serie tv anni ’80, col duo Gigi&Andrea, in cu Andrea interpretava un parroco (Don Tonino) incredibilmente capace di risolvere i casi polizieschi più intricanti, che Gigi (il commissario) non riusciva a sbrogliare da sé (pur essendo il professionista della situazione). E penso – allora – che il libro non potrà valere più di Don Tonino.

Problema oggettivo: la nostra protagonista sognava di fare la pasticcera, lavora invece per un’impresa funebre, e “per caso” fa l’investigatrice. È scritto proprio così, in copertina: “Fa la truccatrice in un’impresa funebre. E l’investigatrice per caso”. Per caso? Fa l’investigatrice per caso? Ma – santo cielo! – cos’è che abbiamo ripetuto sino allo sfinimento? Che le storie ci piacciano, ci affascinano, ci coinvolgono, ci lasciano qualcosa dentro perché il caso – la (s)fortuna, l’imprevedibile – ha un ruolo del tutto marginale, puramente accessorio. Non sarà mai possibile eliminare del tutto gli elementi di casualità da una storia – non sarebbe neppure desiderabile: si avrebbe una narrazione meccanica e straniante – ma non è  il caso a determinare il corso degli eventi, che devono sempre essere percepiti interconnessi, collegati da nessi di causa-effetto. Dare rilevanza al caso, nel presentare la propria storia, è sempre un autogoal, perché un lettore tiepido si irrigidisce.

Interazione tra questione soggettiva e problema oggettivo: se la protagonista è una “investigatrice per caso”, com’è possibile che riesca a sbrogliare le situazioni in cui si ritrova? Cioè, la protagonista non ha nessuna competenza specifica nelle indagini (in fondo voleva fare la pasticcera, e di fatto trucca i defunti) e però – c’è da scommetterci – viene a capo di misteri che i professionisti delle indagini (polizia, carabinieri, investigatori privati) sono incapaci di concludere con successo. Proprio come Don Tonino. E allora, forse, sono legittimato a pensare che il libro non valga tanto di più di quella serie anni ’80.
 

Dimmi dove e quando. La narrazione si apre con un riferimento extra-testuale (10 giugno 2018) finalizzato a localizzare il lettore. Ti rimando ai moduli 15G e 18F, nel caso avessi dimenticato quanto è sciatto questo modo di creare un’ambientazione.
 

Fuori dal “Punto di Vista”. Iniziare una storia con una battuta di dialogo (“Fortunata?”) non sarà formalmente sbagliato, ma è di sicuro pesantemente subottimale. Perché è una battuta nel vuoto, sprovvista di un contesto, e quindi il più delle volte non è informativa, laddove – in un testo ben fatto – ogni scelta stilistica è sempre finalizzata a passare informazioni al lettore.
 
E poi ti invito a notare il pensiero della protagonista, dopo aver sentito il suo nome: “il timbro di quella voce mi impone di rimanere immobile. So già con chi mi dovrò confrontare quando mi volterò…”.
 
Quindi la protagonista – il personaggio “Punto di Vista” – ha perfettamente riconosciuto “quella voce”, infatti sa già con chi si dovrà confrontare (pensa proprio così: “So già con chi mi dovrò confrontare quando mi volterò”). E perché se il “Punto di Vista” ha riconosciuto la voce e sa già con chi dovrà confrontarsi, il lettore invece non sa nulla?
 
Perché – fondamentalmente – siamo fuori dal “Punto di Vista”, e sbalzare il lettore fuori dal “Punto di Vista” è il classico errore del principiante. E temo che la scelta sia voluta, per creare suspense.
 
Ma non si fa così, non è così che si mette apprensione nel lettore, sbalzandolo via dal “Punto di Vista”, perché il vincolo del “Punto di Vista” non ammette deroghe.
 
Come si sarebbe potuto fare, lasciando inalterata la scelta (subottimale) di aprire il racconto con una battuta di dialogo? Più o meno così.

«Fortunata?»

Chiudo gli occhi e mi mordo il labbro: questo è il colonnello Braghin…


Le azioni compiute dal  “Punto di Vista” (chiudere gli occhi e mordersi il labbro) comunicano di per sé apprensione e il pensiero successivo (“è la voce del colonnello Braghin…”) non solo ci fa capire, nel sotto-testo, che il “Punto di Vista” sta dando le spalle al personaggio che ha parlato (perché ne ha riconosciuto solo la voce, quindi non l’ha visto) ma soprattutto ci informa sull’identità di quel personaggio (il colonnello Braghin) che di per sé mette curiosità e fa stare in apprensione (è un colonnello, cavolo!).

Fatto. E se ci si ragionasse un po’ di più, rispetto ai cinque secondi che vi ho dedicato io, si potrebbero trovare soluzioni sicuramente migliori. Ma, appunto, serve ragionare.
 

Dialoghi. Tutte le battute di dialogo si presentano formalmente “nel vuoto”, e a volte ci si prende il rischio di violare il diritto di parola (per cui non si rispeta la regola secondo cui la battuta spetta al personaggio che ha compiuto l’ultima azione o, nel caso del “Punto di Vista”, che ha pure avuto l’ultimo pensiero o percezione). Di là di tutto, l’uso di una sola struttura crea quella ripetitività nel testo, che è esattamente ciò che un professionista della scrittura vuole evitare.
 
 
Sento di sentire. L’autrice fa uso degli inutili verbi percettivi.
 
Che differenza c’è tra “sento le lacrime pungermi gli occhi” e “le lacrime mi pungono gli occhi”? Nessuna. O meglio: la prima formulazione (“sento le lacrime pungermi gli occhi”) è più lunga, meno diretta, e ricorre all’intermediazione inutile del verbo percettivo “sentire”. La seconda (“le lacrime mi pungono gli occhi”) è breve, diretta e perfettamente simulabile. Insomma, è la forma corretta.
 
Stessa storia per “sento tutti gli sguardi puntare su di noi”. Non è meglio – infinitamente meglio, o più semplicemente corretto – “tutti gli sguardi puntano su di noi”, e va da sé, nel sotto-testo, che è una sensazione psicologica, perché è ovvio che la protagonista non può effettivamente vedere gli sguardi di tutti, e tuttavia se li sente addosso (uno stato d’animo che possiamo ben comprendere, senza bisogno di “sento”).

 
Stati d’animo dichiarati. Cosa abbiamo detto nel modulo 10? Che gli stati d’animo del “Punto di Vista” non si dichiarano mai esplicitamente, ma si trasmettono, indirettamente, tramite un’opportuna sequenza dei cinque mattoncini narrativi.
 
Se il personaggio è triste o felice, o se il suo stato d’animo cambia da triste a felice, o viceversa, non lo si comunica dicendo esplicitamente “sono felice”, “sono triste”, “prima ero triste, ora sono felice”, ma facendogli compiere delle azioni, facendogli avere dei pensieri o delle percezioni, e facendogli dire delle cose che di per sé comunicano felicità o tristezza.
 
E se questa è la regola basilare – e questa è la regola basilare – perché leggiamo frasi del tipo “il mio umore cambia drasticamente”? Perché leggiamo “la rabbia che provo mi rende sospettosa e vendicativa”? Perché?
 
 
Avverbi di tempo. Cosa abbiamo detto nel modulo 15B? Che gli avverbi di tempo (i “mentre”, i “quando”, i “prima”, i “poi”, …) sono vietati nel mattoncino delle percezioni sensoriali, perché creano connessioni temporali che tradiscono lo Show, don’t tell.
 
Scova da solo tutti i passaggi dove sono presenti, e invece non dovrebbero esserci.
 

 
Sempre correndo, fantasticando. Cosa abbiamo detto nel modulo 15D? Che i gerundi non sono amici degli scrittori, magari non sono nemici dichiarati, ma di sicuro rappresentano una risorsa debole, per una ragione tecnica precisa: il gerundio esprime spesso una simultaneità di eventi, che però, nella scrittura di narrativa, è formalmente impossibile, perché la scrittura è la più sequenziale della arti – procede parola per parola, una parola alla volta – e quindi, nel mondo della pagina, la simultaneità va creata come impressione, come sensazione generale, avviando delle azioni lunghe che proseguono implicitamente, mentre sulla pagina subentrano azioni più brevi.

Il punto rimane: il gerundio non è un tuo amico, non è amico degli scrittori.

E guarda qua, infatti: “Sospiro e chiudo gli occhi, abbassando lo straccio con cui stavo asciugando le tazzine”.

Ma quante cosa stanno accadendo, simultaneamente? Il tempo necessario a sospirare e chiudere gli occhi è fose lo stesso tempo necessario ad abbassare lo straccio? E ti sei accorto, poi, che quel “con cui stavo asciugando” viola lo Show don’tell?
 
È un flusso informativo sgraziato, oggettivamente fatto male. 
 

Infodump. Ti ricordi cosa sono gli infodump? Blocchi di informazioni passate al lettore dal di fuori della scena, oppure dal di dentro della scena, ma con una dinamica irreale. Il vincolo è ovvio: tutto ciò che accade in scena deve essere informativo per il lettore e al tempo stesso avere senso per il personaggio. Per dirlo in altro modo: il personaggio non può avere un pensiero che realisticamente non avrebbe mai nella situazione che sta vivendo, solo perché tu, autore, devi passare determinate informazioni al lettore (che altrimenti farebbe fatica a seguire la storia). Tutto ciò che avviene nel mondo della pagina – ripetiamolo – deve avere senso per il personaggio ed essere informativo per il lettore. Chiaro? 
 
E allora perché leggiamo frasi come “Dante Braghin, colonello della finanza e – ahimè – grande amico del Signor M. e padrino della sottoscritta”? Ma si può sapere cosa diavolo è questa cosa? Il  “Punto di Vista” sa benissimo chi è il personaggio che fronteggia, e non ha nessun motivo, ora, di richiamarne la carta di identità. E come se tu, nel mondo reale, nella vita vera, ti trovassi di fronte a tua moglie, che è appena rientrata a casa, e avessi un pensiero del tipo: “Laura, mia moglie, la donna conosciuta una sera d’ inverno al ristorante Blitz di Milano, durante una cena tra amici”. No, dico, ti sembrerebbe normale?

E chi è – poi – questo “Signor M.”? E perché la protagonista lo percepisce come “Signor M.” e non con il suo nome? Lei, la protagonista, lo sa, perché il  “Punto di Vista” sa tutto e capisce sempre tutto, per definizione (a meno di casi di ironia drammatica). Ma il lettore cosa capisce? Nulla. E allora vuol dire che il lettore è stato di nuovo sbalzato fuori dal “Punto di Vista”.
 
Riesci a vedere altri infodump? Guarda qui: “… nella bettola di cui sono la tuttofare da più di un mese”. Oh, bella! Ma lei, la protagonista, lo sa bene chi è, dove si trova e perché, e non ha nessun motivo – ora – per richiamarlo alla memoria. Come se nel mondo reale, nella vita vera, tua moglie si presentasse nel tuo ufficio e tu avessi un pensiero-percezione del tipo “Laura appare sulla porta del mio ufficio, l’ufficio in cui lavoro da vent’anni, e in cui sono entrato grazie alla raccomandazione di mio zio Arturo… che Dio lo abbia in gloria!”. Ti sembrerebbe un pensiero normale?

E guarda che sto appena accentuando gli errori, in questi miei controesempi, solo affinché tu li possa vedere meglio; ma la loro natura è la stessa degli errori commessi dall’autrice: pensieri e percezioni che il  “Punto di Vista” non avrebbe mai, data la situazione in cui si trova, e che stanno lì solo per informare il lettore. In una parola: infodump.

E che dire di tutto il blocco che inizia con “Che poi il bar sia collocato in un quartiere molto popolare” e finisce con “il rifugio perfetto per una ragazza che aveva un unico desiderio: sparire”? Roba che ammazzerebbe un toro, altroché.
 
 
Poeti mancati. Tutta la “poesia” che si decide di inserire in un testo di narrativa deve sempre essere tutta e solo espressione delle cosiddette percezioni psicologiche del personaggio “Punto di Vista”.
 
Non mi sembra difficile da capire, non è meccanica quantistica.
 
E cosa mi dici, allora, di un’espressione del tipo “l’azzurro ghiaccio delle sue iridi”, che sembra messa lì solo per far vedere quanto è fantasiosa l’autrice?
 
 
E quindi? Questa è la domanda che io mi sono posto, arrivati alla fine dello stralcio iniziale. E quindi? Perché quel che si è letto finora sono per lo più infodump finalizzati a passare informazioni di contesto, e a farne le spese è stata l’informazione più rilevante: l’obiettivo del personaggio. Qual è l’obiettivo del personaggio? Verrebbe da dire “essere lasciato in pace”, laddove invece c’è un colonnello che invoca il suo aiuto. Ma perché un colonnello – un colonnello, per l’amor del cielo! – dovrebbe volere l’aiuto di una tuttofare di una bettola?

Lo so cosa stai per rispondermi: continua a leggere e lo saprai, l’autrice l’ha fatto apposta a tenerti all’oscuro delle cose, proprio per invogliarti a proseguire nella lettura.

Bravo genio! Lo so benissimo come funziona il gioco, ho letto anch’io Scienza dello storytelling di Will Storr, e ho ben chiaro che il cervello è incuriosito dal mistero, per cui formula le sue congetture e poi gode nel verificarne l’esattezza; e quindi, sì, bisogna mantenere il lettore sulle spine per invogliarlo a proseguire nella lettura.

Ma non è così che si fa.
 
Un conto è tenere il lettore sulle spine, altro è imporgli un’insopportabile apnea. Va bene – è inevitabile ed è un’inevitabilità che va sfruttata a proprio vantaggio – avere uno scarto informativo tra lettore e “Punto di Vista”; ma non la si può tirare troppo per le lunghe, non si può dire aprioristicamente “continua a leggere e capirai”. Grazie al c@$$0 che capirò, se continuo a leggere. Vorrei vedere che non capissi! Ma così si è prodotta un’inversione metodologica: tu, autore, devi invogliarmi a leggere per capire meglio e sempre meglio, e non certo presumere che io leggerò comunque, solo per capire meglio e sempre meglio.

Non è davvero ammissibile arrivare sino a questo punto, e non avere ancora cristallina la situazione narrativa in cui ci si trova.
 
 
Ce n’è abbastanza per porsi due domande, e magari qualcuna in più, restando agganciati alla realtà dei fatti, ma con spirito critico.
 
 
Questa è la realtà dei fatti: 151 recensioni, con una media di 4,1 stelle su 5, e una distribuzione statistica che dà conto di quasi metà dei lettori (il 47%) pienamente soddisfatti e di una minoranza comunque significativa (il 10%, in totale) fortemente scontenta.

E a noi, qui, interessa proprio il parere di questa frangia di insoddisfatti.

Intendiamoci: anche il miglior testo immaginabile ed effettivamente realizzato avrà la sua quota di 1 e 2 stelle, per un banale discorso di “grandi numeri”; sempre si troverà una frangia di insoddisfatti, perché la statistica non perdona, perché il 100% non esiste; non si può quindi pensare di screditare un libro semplicemente puntando i riflettori sulle recensioni negative, perché il giochino è banale, e – come ogni banalità – insignificante.

Ma qui il punto è un altro: noi vogliamo analizzare le recensioni negative perché solo la frangia di insoddisfatti può fornire spunti di miglioramento; non sempre una recensione negativa ci sarà d’aiuto, ma tutto ciò può esserci d’aiuto si trova sicuramente dentro una recensione negativa; non saranno certo le orgasmatiche recensioni a 4 e 5 stelle a dirti dove puoi migliorare, non trovi?

Okay, d’accordo, magari qualcuno ha recensito con 1 stella perché il libro gli è arrivato in ritardo ed era pure danneggiato; o perché il nome della protagonista gli ricordava una sua ex che l’aveva cornificato con tutti i suoi amici; o perché… vabbè, hai capito che non ci sono limiti ai motivi per cui la tua opera può dar luogo a mal di pancia e borbottii, e del resto tu non puoi pensare di inseguire il consenso universale, perché, appunto il 100% non esiste, né in scrittura né altrove, e gran parte delle nostre cosiddette “verità”, al di fuori delle scienze esatte, sono solo regolarità statistiche.

Okay, d’accordo, ma forse – dico forse – qualche recensione negativa potrebbe avere qualcosa di interessante da dire.
 
 
Questi non sembrano – proprio no – gli sfoghi di chi ha trovato la moglie a letto con un altro, e ora se la prende col tuo romanzo perché non sa cos’altro fare.

Da queste recensioni – forse – c’è qualcosa da imparare.

Grazia Santacroce ha sicuramente acquistato il libro (“acquisto verificato”) e con ogni probabilità lo avrà anche letto; e auspica che “prima di scriverne un altro, l’autrice faccia dei corsi di scrittura” (sic!). Ora, di là di tutto, è o no lo stesso pensiero che abbiamo avuto noi, qui sul blog, dopo aver esaminato le prime pagine?

Da ciò che scrive “Cliente A” (“Amo le storie di questo tipo, ambientate nella provincia italiana”) dobbiamo presumere di trovarci di fronte a un lettore caldo, ben predisposto verso il soggetto in sé, e quindi benevolo verso tutto il resto. Il prezzo dell’e-book (€ 10,99) l’ha tuttavia messo sulla difensiva, e qui ci sarebbe da aprire tutto un discorso sul pricing dei libri, interessante in sé, che però potrebbe a divagare. Teniamo la barra dritta: “leggo con cura l’estratto per ben due volte e valuto se ne vale la pena. No, non ne vale la pena, per me”. E non è forse la nostra stessa valutazione, qui sul blog, per tutti le ragioni spiegate, tra cui – toh! – l’utente pizzica tre gerundi in una riga e mezza?

“A” è stato incuriosito da un titolo (morire ti fa bella) che scimmiotta un film celebre (La morte ti fa bella) e qui ci sarebbe da ricordare che il primo che disse “fresca come una rosa” fu un genio, il secondo un cretino. Ancora una volta l’anteprima gratuita ha frenato l’acquisto, anche perché, di nuovo, “il prezzo per un tipo di scrittura così scadente è fuori dal mondo”, e si stigmatizzano in particolare “gli aggettivi ridondanti” che “danno un senso di infantile al racconto”.

Sono tutte osservazioni che sembrano pescate dai moduli del blog, e riproposte con linguaggio più immediato e diretto; e sono critiche che dovrebbero far riflettere, se non proprio l’autrice (che si sarà già creata per altre via un pubblico caldo) quanto meno te, lettore del blog, che ambisci a scrivere al meglio e a dare il meglio di cui sei capace.

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