Modulo 26 – Esercizio #3

 
Sai cos’è l’effetto Dunning-Kruger? No?! Lascia allora che te lo spieghi.

 
Come reagisce il nostro cervello di fronte al progressivo apprendimento di un argomento nuovo? Quali stati d’animo attraversiamo man mano che impariamo? Per essere chiari: quale relazione sussiste tra ciò che conosciamo a un dato momento e la fiducia in noi stessi indotta da quella conoscenza? O in altro modo: che relazione c’è tra ciò che sappiamo effettivamente e ciò che crediamo di sapere?

Si può pensare che queste domande – che poi sono modi diversi di formulare uno stesso interrogativo – ammettano una risposta ovvia: la fiducia in sé stessi è lo specchio della conoscenza, cresce di pari passo con la conoscenza che via via si acquisisce, e a ogni momento ciò che effettivamente sappiamo non può essere troppo discosto da ciò che riteniamo di sapere, o se preferisci, a ogni momento abbiamo una sostanziale consapevolezza di ciò che sappiamo e di ciò che ignoriamo.

E qui sta il punto scivoloso: il nostro cervello non è una mappa in cui si possa tracciare una linea di confine netta tra ciò che conosciamo e ciò che ignoriamo, perché ignorare qualcosa non significa semplicemente non conoscerla, ma spesso vuol dire non saperne neppure immaginare l’esistenza, cosicché quella cosa scompare proprio dai radar.

Possiamo dire che esistono tre livelli di conoscenza-ignoranza:
  • ciò che sappiamo di sapere (know-know);
  • ciò che sappiamo di non sapere (know-unknow);
  • ciò che non sappiamo di non sapere (unknow-unknow);
ed è proprio lo sconosciuto-sconosciuto il livello più esteso, ma anche – fatalmente – il più trascurato.
 
Accade così che di fronte all’apprendimento delle prime nozioni di un argomento si maturi la convinzione che quelle nozioni esauriscano tutto ciò che ci sia da sapere: sappiamo poco, ma pensiamo di sapere praticamente tutto, e per ogni unità di conoscenza aggiuntiva ecco che la fiducia in noi stessi aumenta di un multiplo, e si accresce il divario tra ciò che sappiamo realmente e ciò che crediamo di sapere.

Siamo nel tratto iniziale della curva di Dunning-Kruger, una salita ripida che esprime appunto la gran velocità con cui aumenta la fiducia in noi stessi a seguito della conoscenza delle prime nozioni dell’argomento.

L’euforia ci porta ben presto sul cosiddetto “picco della sovrastima”, che alcuni chiamano “picco dell’impostore” per stigmatizzare la situazione: sappiamo veramente poco (abbiamo fatto poco strada sull’asse orizzontale della conoscenza) ma crediamo di sapere praticamente tutto (ci troviamo parecchio in alto sull’asse verticale della fiducia in noi stessi).

Questa sproporzione – tra ciò che sappiamo e ciò che crediamo di sapere – ci rende ora vulnerabili, e il rischio di incappare in errori gravi è così elevato da potersi considerare certezza.

Prima o poi, inevitabilmente, accade un evento che ci sbatte in faccia tutta la nostra ignoranza, che ci fa capire che non sapevamo tutto, e anzi sapevamo molto poco, quasi nulla: sprofondiamo allora nella “valle dell’umiltà”, che alcuni chiamano anche “valle delle disperazione”, per dare risalto allo scombussolamento emotivo in cui ci si viene a trovare.

Se prima pensavamo di sapere tutto, ora crediamo di non sapere nulla. Curioso: in realtà ne sappiamo più di prima, perché l’errore ci ha comunque insegnato qualcosa, e di sicuro ci ha consentito di fare dei passi in avanti sull’asse orizzontale della conoscenza; eppure non ce ne rendiamo conto, e diventiamo timorosi su tutto, anche su ciò che conosciamo effettivamente; la fiducia in noi stessi è crollata, sull’asse verticale.

E ora?

Ora si tratta di riacquistare quel minimo di lucidità necessaria ad avviare un riequilibrio interiore: prima pensavamo di sapere tutto, e in realtà non sapevamo quasi nulla; poi pensavamo di non sapere nulla, e in realtà ne sapevamo molto di più; e ora dobbiamo riallineare i due livelli – di conoscenza e fiducia in noi stessi – per dirigerli verso il cosiddetto “altopiano della saggezza”, quella situazione in cui “sappiamo di non sapere”, in cui ogni acquisizione di una nuova conoscenza ci dà una percezione sempre più chiara dell’infinito ancora sconosciuto, e ci impone perciò prudenza – saggezza – nell’accrescere la fiducia in noi stessi; ci si stabilizza così su una forma di conoscenza che rispetta l’ignoto, a volte abbracciandolo, a volte attraversandolo, a volte eludendolo, ma sempre accettandolo come presenza costante della nostra vita.
 
Dopodiché, sempre incontreremo persone situate sul picco dell’impostore quando noi siamo arrivati sull’altopiano della saggezza: “il problema dell’umanità è che gli stupidi sono molto sicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi”, aveva già annotato Bertrand Russel, ben prima di Dunning e Kruger.
 

Se mi chiedete quale sia la singola caratteristica che renda una persona soggetta a questo autoinganno, io direi che è respirare”.

David Dunning ci prospetta una realtà impietosa: nessuno può sfuggire all’effetto Dunning-Kruger.

Se respiri – se esisti – andrai sempre incontro all’effetto Dunning-Kruger, perché si tratta di una dinamica connaturata ai meccanismi di funzionamento del cervello, e serve obbligatoriamente saperne davvero molto, per realizzare di non saperne realmente abbastanza.

È vero in generale, e figurarsi poi nell’ambito della scrittura, dove tutti si credono artisti nati, dotati un talento naturale.

E così un tale Zeno Antolini si presenta un giorno su un Gruppo Facebook per mostrare un suo esercizio di “scrittura immersiva”. Dice proprio così: “vi propongo un esercizio di scrittura immersiva”.

“Scrittura immersiva” è un termine (e uno stile) coniato dal Duca di Baionette (Marco Carrara) per evidenziare l’obiettivo ultimo della scrittura: portare il lettore dentro il mondo della pagina, farglielo sembrare vero, reale, massimizzandone il coinvolgimento a livello sia emotivo che sensoriale, in una parola “immergerlo nella storia”.

È la stessa tecnica  sponsorizzata sul blog, a meno del cambio di nomenclatura: qui la chiamiamo – con tono meno enfatico, più misurato – scrittura dei mattoncini, per dar risalto alla dimensione tecnica, all’obbligo a scrivere narrativa utilizzando solo azioni, pensieri, percezioni e dialoghi (perché solo così il lettore può simulare il mondo della pagina e immergersi nella storia).

Quindi – in definitiva – questo Zeno Antolini sostiene di aver scritto un testo conforme alle indicazioni fornite dal blog, di averlo costruito con la tecnica dei mattoncini, per renderlo “immersivo”.

E leggiamolo un po’, questo bel testo “immersivo”.
  

La porta sul retro della prestigiosa Gaming House di Fletcher, è solo una lastra di ferro laccata di marrone che dà su un vicoletto di servizio per gli addetti al carico dei rifiuti urbani. 

Luckyboy deve spingere con tutta la forza che ha per riuscire ad aprirla abbastanza da creare un sottile passaggio. Alla faccia delle uscite di sicurezza.

Esce in strada di slancio; fra i bidoni colmi d'immondizia e un buon numero di gatti che si dileguano nell'oscurità.

In fretta e furia caccia in bocca l'ultima Marlboro spiegazzata e l'accende; da un punto più in alto un grido rabbioso piove sulla strada. Una finestra in mezzo a migliaia di altre si chiude con un botto.

Le mani di Luckyboy non la smettono di vibrare, eccitate dall'adrenalina e dagli impulsi del suo sistema nervoso in sovraccarico.

Osserva la sigaretta tremare fra le sue dita, dall'interno del locale arrivano i rumori ovattati della sala giochi stracolma di gente. Già da un paio d'ore nessuno riesce più ad entrare. È il bordello delle grandi occasioni. Ha dovuto scansare l'ingresso principale perché era ancora murato di curiosi venuti ad assistere alla Fletcher Battle Cup '274.

Un'improvvisa esplosione di musica lo fa girare verso il locale, poi un ulteriore boato di folla annuncia un punto segnato. Sta arrivando qualcuno.

Il caschetto azzurro di Ultravi0let sbuca da dietro la lastra laccata di bruno «Ehi Luckyboy? Stai bene?»

No, non sta affatto bene. Sta ancora viaggiando nella realtà virtuale a velocità impossibili. «Solo un po' di agitazione. Sai, è la finale.» Sorride, con la mascella rigida come una sbarra di titanio.

Ultravi0let esce con lui nel vicolo, un'ombra che accelera ancora di più il suo battito cardiaco «Sei troppo teso. Troppo per un luckyboy.»

Al sesto tiro la Marlboro è già finita. «Carina.» Lancia il mozzicone lontano e butta fuori il fumo dai polmoni. «A che punto stanno?»

«Vincevano gli ElektroGunners 3 a 0. Dubito che il trend sia cambiato.»

Luckyboy sorride ironico e nasconde le mani nelle tasche della giacca. «Merda. Quei bastardi non hanno perso un singolo game.»

Le ultime due settimane le ha passate a studiare dei video analitici offerti dal database della ElvenKing, lo sponsor ufficiale dei Gunners. Ne è uscito con la convinzione che non si possono battere: il loro perno di manovra si chiama Hellfire, e usa i cannoncini a rotaia come fossero dei fucili di precisione. È in assoluto il figlio di puttana più tosto che gli sia mai capitato d'incontrare su MechaShock3.

Ultraviolet si strofina i palmi sulle cosce e si fa più vicina, ora riesce a sentire il profumo agli agrumi dei suoi capelli. «Sei troppo agitato 'boy. Pensi che non ce la faremo?»

«Perché dici così?» Luckyboy rigetta la domanda al mittente con uno sbotto piccato.

Ultravi0let scuote un po' la testa mentre lo squadra «È la tua faccia a dirmelo, e come ti muovi. Le mie analisi dicono che sei pronto per un burnout nervoso.»

Le solite stronzate da psicologia virtuale.

«Ti ho detto di smetterla di scansionarmi con quel cazzo di software, non sono un modello comportamentale. Sto benissimo.»

Si gira e fa per tornare dentro più nervoso di prima; Ultravi0let lo blocca per un braccio e lo costringe a fermarsi. «Eddai. Non volevo farti incazzare 'boy. È solo che non ti vedo sereno. Ho bisogno di te al 100% il prossimo match.»

Quella che prova ora Luckyboy è una strana sensazione di orgoglio iperventilato, vibrato sulle corde esplosive delle sue migliori prestazioni in battaglia. Ne è ancora immerso. Rivive quelle azioni come flash inseriti nel suo campo visivo.

«Stai tremando Luckyboy.»

«Sto bene. È solo l'ansia della finale. Non hanno speranze.»

«Io vado dritta a neutralizzare Hellfire, e tu mi pari il culo. Intesi?»

«Come sempre. Boss.»

Ultravi0let gli sorride. In quel preciso momento la vede come se fosse illuminata da un milione di neon, riconosce ogni singolo contorno del suo viso. Il baleno di smeraldo negli occhi. Si sente trascinare verso il basso dalla forza delle braccia di lei attorno al viso. Un bacio. Sulla bocca, voluto e cercato. Diretto, quasi brutale per la forza e la sorpresa del gesto. Qualcosa che lo lascia stordito e meravigliato; qualcosa che mette in tasca come fosse un concentrato di cento Fletcher Battle Cup.
 
«Grazie.» dice lei «Andiamo dentro, FuzzyThai è già in postazione.»
 
 
 
Ora – prima di tutto – riesci a capire il motivo della mia risposta? E riesci a cogliere – per complemento – la stupidità della controreplica di Zeno Antolini?

Facciamo un passo indietro, per riacquistare la visione d’assieme.
 
Ci sono due modelli di riferimento per cogliere il senso di molte cose della vita: il budino e il melone.

Se il budino era davvero buono, potrai saperlo solo il giorno dopo; perché quando sei lì che lo mangi golosamente – cucchiaino dopo cucchiaino, sino all’ultimo cucchiaino – ti sembrerà sempre buonissimo; servirà aspettare la mattina dopo, seduto sulla tazza del cesso, per sapere se il latte era fresco e il cioccolato di qualità.

Un cubetto di melone – al contrario – ti può già informare, all’istante, sulla qualità del tutto; dal suo colore, dalla consistenza, dal sapore, puoi farti un’idea piuttosto precisa, se non esatta, della bontà complessiva dell’intero melone, senza necessità di mangiarlo tutto e attendere le relative conseguenze.
 
Alla scrittura – soprattutto se “immersiva” –  si applica invariabilmente il modello del melone: non serve leggere l’intero testo, per esprimerne un giudizio; a volte – il più delle volte – basta una pagina per capire cosa si ha davanti, e formulare un giudizio accurato.
 
Funziona così, per quanto frustrante possa essere, e da un testo con questo attacco:

La porta sul retro della prestigiosa Gaming House di Fletcher, è solo una lastra di ferro laccata di marrone che dà su un vicoletto di servizio per gli addetti al carico dei rifiuti urbani.

cosa mai puoi aspettarti?

C’è un fatto di cui devi essere consapevole: non potrai mai scrivere un romanzo – almeno 40.000 parole, secondo lo standard – senza neppure una sbavatura, perché la perfezione è un asintoto – ti ci puoi avvicinare quanto vuoi, ma non raggiungerlo – e la politica di tolleranza zero verso gli errori serve solo a minimizzarli – o meglio: è l’unico modo per minimizzarli – e l’assurda ambizione di scrivere un romanzo perfetto ti porterebbe a non ultimarlo mai (o, il che è lo stesso, richiederebbe un tempo così lungo da privarlo di qualunque valore).

D’accordo, il romanzo perfetto non esiste, ma il primo capoverso perfetto, immacolato, adamantino, quello sì che esiste, anzi deve necessariamente esistere, e possiamo spingerci a dire che non può concepirsi narrazione il cui primo capoverso non sia la perfezione assoluta.

Perché, sì, non puoi pensare di scrivere 40.000 parole senza mai inciampare, ma le prime 40 parole, quelle sì, possono e anzi devono essere una meraviglia, un autentico spettacolo, non fosse altro perché sono le prime che si offrono al lettore, e se già all’inizio si sfarfalla, cosa mai potrà accadere dopo?

E ora dimmi: riesci a vedere l’errore madornale in questa frase?

La porta sul retro della prestigiosa Gaming House di Fletcher

Cosa abbiamo detto nel modulo 15B? Che non vogliamo mai aggettivi vaghi. E cosa abbiamo detto, poi, nel modulo 18F? Che i luoghi non compaiono per magia, solo perché li nominiamo.

E in che modo scrivere “prestigiosa Gaming House di Fletcher” – nel primo rigo del testo – rispetta le indicazioni di base? “Prestigiosa Gaming House di Fletcher”? Ma – esattamente – cosa devo visualizzare? Sono solo parole, segni grafici sulla pagina che passano invano, che non hanno effetti sul cervello, se non quello di affaticarlo.

Proseguiamo.

… è solo una lastra di ferro laccata di marrone che dà su un vicoletto di servizio per gli addetti al carico dei rifiuti urbani.

Ma cos’è questa frase, esattamente? Cosa dovrebbe esprimere, secondo la tecnica del mattoncino? Sembrerebbe una percezione visiva del “Punto di Vista”, ma la precisazione “per gli addetti al carico dei rifiuti urbani” cosa sarebbe? Perché mai il “Punto di Vista” dovrebbe avventurarsi in questa rielaborazione di ciò che vede? Sembra una cosa buttata lì solo per informare il lettore: un infodump, insomma, il marchio del dilettante.

La presenza di “un vicoletto di servizio per gli addetti al carico dei rifiuti urbani” sembra poi collocarci all’esterno, fuori dalla “prestigiosa Gaming House di Fletcher” (sic!) e invece…

Luckyboy deve spingere con tutta la forza che ha per riuscire ad aprirla abbastanza da creare un sottile passaggio. Alla faccia delle uscite di sicurezza.

Cavolo! Ma allora eravamo dentro, non fuori! Il lettore ha dovuto quindi riconfigurare la scena, e obbligare il lettore a riconfigurare la scena – costringerlo a distruggere l’immagine che si era creato nella testa, sulla base di ciò che aveva letto, per soppiantarla con una nuova immagine coerente con le nuove informazioni – è un altro marchio di dilettantismo.

Ma davvero serve proseguire, per dare un giudizio definitivo sul testo? Se ci sono già così tanti errori – e così gravi – nelle prime righe, cosa puoi sperare di trovare nelle righe successive? Verbi percettivi, avverbi temporali, dialoghi privi di conflitto e infodump: che bontà!

Riesci a trovarli da solo? Perché se non riesci a vedere degli errori così banali sui testi degli altri, come potrai mai accorgertene sui tuoi?

Dai, ti do un piccolo aiuto.

Le mani di Luckyboy non la smettono di vibrare, eccitate dall'adrenalina e dagli impulsi del suo sistema nervoso in sovraccarico.

Osserva la sigaretta tremare fra le sue dita, dall'interno del locale arrivano i rumori ovattati della sala giochi stracolma di gente. Già da un paio d'ore nessuno riesce più ad entrare. È il bordello delle grandi occasioni. Ha dovuto scansare l'ingresso principale perché era ancora murato di curiosi venuti ad assistere alla Fletcher Battle Cup '274.

… poi un ulteriore boato di folla annuncia un punto segnato.

Le ultime due settimane le ha passate a studiare dei video analitici offerti dal database della ElvenKing, lo sponsor ufficiale dei Gunners. Ne è uscito con la convinzione che non si possono battere: il loro perno di manovra si chiama Hellfire, e usa i cannoncini a rotaia come fossero dei fucili di precisione. È in assoluto il figlio di puttana più tosto che gli sia mai capitato d'incontrare su MechaShock3.

Si gira e fa per tornare dentro più nervoso di prima

Si sente trascinare verso il basso dalla forza delle braccia di lei attorno al viso.

… qualcosa che mette in tasca come fosse un concentrato di cento Fletcher Battle Cup.

«Grazie.» dice lei «Andiamo dentro, FuzzyThai è già in postazione.»

Riesci a spiegare – in modo chiaro e sintetico – cos’è che non va in queste frasi? Se non ne sei capace, allora abbiamo un problema. Torna al modulo 0 e ricomincia tutto daccapo.
 
Per parte mia, mi limito a richiamare ciò da cui siamo partiti: l’effetto Dunning-Kruger e – soprattutto – il fatto che nessuno ne è immune.
 
Non puoi sfuggire a Dunning-Kruger, finché respiri; però – ora che lo conosci – puoi almeno attenuarne gli effetti, far sì che il picco dell’impostore non sia troppo alto, affinché l’esperienza nella valle della disperazione non sia poi così disperata, e la risalita verso l’altopiano della saggezza non troppo faticosa.

Che Zeno Antolini si trovasse in prossimità del picco dell’impostore – e, nel suo caso, un picco decisamente elevato – è confermato dalla totale mancanza di umiltà, testimoniata da un dato oggettivo.

Perché, vedi, può ben accadere – soprattutto al principio – di inciampare in infodump o in dialoghi mal costruiti, senza che ci si possa far nulla, se non sottoporre il testo a un editor professionista che ti mostri quegli errori che tu da solo non riesci a vedere. Ma non può mai accadere – non deve accadere – che nel tuo testo compaiano dei verbi di percezione, o degli avverbi modali o temporali, fuori dalle battute di dialogo o dai pensieri (come spiegato nei moduli 15B e 15C).
 
Perché – vedi – tu puoi anche sbagliare, e mettere ad esempio un inutile “poi” in un flusso percettivo; ma la funzione “Trova” di Microsoft Word, beh, lei sì che te lo scova l’inutile (e perciò sbagliato) “poi”; così come ti scova i “mentre”, i “dopo”, i “prima”, e tutti gli avverbi modali e i verbi percettivi. Lei – la funzione “Trova” di Microsoft Word – scova ogni cosa. Purché venga utilizzata.
 
  
Cosa ha impedito a Zeno Antolini di fare quel che ho fatto io?

È un controllo meccanico, a costo zero: basta aver chiara la lista delle parole proibite o pericolose (“poi”, “prima”, “dopo”, “mentre”, e così via, per gli avverbi di tempo; il “mente” per individuare gli avverbi modali; “sento”, “vedo” e così via per i verbi di percezione; il “ndo” per i gerundi; i vari “dice”, “risponde”, “domanda”, “ribatte” per i dialogue tag) e poi usare la funzione “Trova” per verificarne l’assenza (o, per metterla in positivo, l’eventuale presenza solo laddove legittima).
 
E allora – di nuovo – cosa ha impedito Zeno Antolini di eseguire il controllo?

Glielo ha impedito l’effetto Dunning-Kruger, l’eccessiva fiducia in sé stesso, la convinzione di saperne fin troppo per abbassarsi a una procedura così facile. E da questo atteggiamento altezzoso e superbo non poteva che venir fuori il testo che hai letto, pesantemente al di sotto uno standard accettabile.

Confrontarsi con persone così può rivelarsi frustrante, ma noi qui dobbiamo essere propositivi, perciò ribaltiamo il tavolo per dare indicazioni utili, ancorché formulate in negativo, per capire cosa non fare se si vuole che la scrittura sia una sorgente di felicità.

Non arrabbiarti, se qualcuno boccia il tuo testo dopo due righe; non insistere affinché continui a leggerlo; non dire “come fai a dire che non va bene, se non l’hai neppure finito?”, perché dimostreresti solo di non aver capito – o di non aver mai saputo – come funzionano i meccanismi della scrittura.
 
E non giustificare i tuoi errori, per l’amor del cielo! Non assumere mai, di fronte alla segnalazione di un errore, una posizione del tipo “questa scelta è voluta, l’ho fatta consapevolmente”. Ovvio che la scelta è voluta e consapevole. Ci mancherebbe altro. Ma ciò non assicura che sia giusta, perché nessuno compie scelte consapevoli pensando che siano sbagliate. Se ti viene detto che una parola o una frase è sbagliata, sforzati di capire perché è sbagliata, e come e perché sei incappato nello sbaglio, per non ripeterlo di nuovo. A nessuno interessa conoscere i 1001 motivi (sbagliati) per cui, secondo te, 7-7=1. Sei tu che devi capire l’unico motivo (giusto) per cui 7-7=0.

Per chiudere: scrivere vuol dire incontrare degli ostacoli, fronteggiare problemi che per essere superati richiedono fatica, anche fisica; ma non riuscirai mai a migliorare, e potresti addirittura ritrovarti paralizzato, se anziché accettare il disagio e impegnarti a uscirne – trovando l’idea giusta, la frase migliore, la parola più adatta – te la prendi con chi vuole aiutarti. 

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