Modulo 24H – Analisi della serie tv “La regina degli scacchi”
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Sembra un’ovvietà, ai limiti del banale, ma l’illusione di imparare senza impegno, di crescere sani e forti andando avanti a pappine liofilizzate per tutta la vita, di approfittare della fatica degli altri per trarre un vantaggio personale a costo zero, questa illusione, dicevo, ha un fascino e un’attrattiva che solo una consapevole azione di contrasto può rivelare per quel che è: un’illusione, appunto.
La scelta non è peraltro penalizzante: una serie tv realizzata nel 2020 sarà con ogni probabilità migliore di un libro scritto nel 1983, quindi si concede un vantaggio all’opera, se la si considera nella sua versione moderna e cinematografica.
Perché "La regina degli scacchi"?
- i problemi degli incipit “in medias res”;
- le modalità (stereotipate) di costruzione dell’empatia;
- l’importanza del IV Comandamento (“non vedere archi ovunque”);
- la distinzione tra ciò che l’opera dice (tramite precise sequenze di scene) e ciò che sta solo nella testa dello spettatore (come pregiudizio o superstizione) e foss’anche nelle opinioni di chi la serie l’ha realizzata o interpretata;
- la centralità della conoscenza dell’argomento di cui si parla, per la buona riuscita dell’opera.
- i motivi per cui un’opera può piacere, anche in presenza di archi deboli.
Concluderò con un “controcanto” (rispetto a una delle tesi prevalenti sull’opera) e un “fuori programma” (col richiamo alle tecniche di scrittura).
Capiamo che si trova nella stanza di un albergo di lusso, ma non sappiamo cosa ci faccia né perché nella stanza regni il disordine.
Su una scacchiera, al posto dei pezzi, ci sono bottigliette di superalcolici, e accanto un piccolo contenitore di forma oblunga. La ragazza lo apre, tira fuori delle pillole verdi – che non sappiamo a cose servano – e le manda giù. Lancia un’occhiata al lettone, dove qualcuno – non si sa chi, non si capisce neppure se uomo o donna – sta ancora dormendo.
Si precipita in una sala dove c’è tutto un pubblico che la sta aspettando e la fissa stupito, oltre a numerosi fotografi, i cui flash la infastidiscono.
Si siede davanti a una scacchiera, e fronteggia un uomo ben vestito che non sappiamo chi sia.
L’unica cosa che capiamo – alla fine di tutta la scena – è che la protagonista è in forte ritardo per una partita di scacchi (ed “essere in ritardo” non è un atteggiamento che favorisce l’empatia, tanto più se il ritardo è dovuto a una probabile “notte brava” e non a impedimenti oggettivi).
Per i primi tre minuti non capiamo praticamente nulla di ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi.
E come possiamo mai interessarci a qualcosa che non capiamo?
Perché mai dovremmo sperare o temere per la protagonista, se di lei non sappiamo nulla?
E – più in generale – a cosa serve partire con una scena a elevato contenuto drammatico, se lo spettatore non è in condizioni di cogliere nulla del dramma in atto?
Possiamo ancora tollerare gli inizi “in medias res” nelle opere cinematografiche – film o serie tv – dove lo sforzo di fruizione è pressoché nullo, grazie alla presenza diretta dei sensi della vista e dell’udito; ma leggere è oggettivamente più faticoso, e andare avanti per tre o quattro pagine senza capire nulla di ciò che stiamo leggendo – vale a dire compiere uno sforzo ulteriore per farsi un’idea precisa di ciò che avviene nel mondo della pagina, in aggiunta all’ordinario sforzo di lettura – significa pretendere una tolleranza che nessun lettore tiepido sarà disposto ad avere.
Tutte le opere – se viste in modo asettico – hanno lo stesso obiettivo: passare informazioni al lettore-spettatore; un’opera – sul piano formale – è un flusso di informazioni che parte dalla pagina (o dallo schermo) e arriva al lettore; e la qualità dell’opera presume – prima di ogni altra cosa – la comprensione del flusso da parte del fruitore.
I vari “in medias res”, “flashback” e “flashforward” sono modalità di trasferimento delle informazioni il più delle volte subottimali, se non controproducenti, per la sciatteria con cui si attuano: ci si dimentica della loro funzione tecnica (passare informazioni significative), si trascurano le soluzioni alternative (è mai possibile che non vi siano modi più semplici e diretti per passare le stesse informazioni?) e se ne fa un uso “artistoide”, illudendosi di emozionare il pubblico (che il più delle volte viene solo mandato in confusione).
La "Cenerentola" Beth
La protagonista è una bambina, e i bambini sono i personaggi “buoni” per eccellenza, i “buoni” per definizione, che non richiedono nessuno sforzo aggiuntivo – da parte dell’autore – per convincere il lettore-spettatore della loro giustezza morale; a un personaggio “buono” si deve infliggere una sofferenza ingiusta, e per un bambino non ve n’è una più grande della perdita dei genitori.
Qui, rispetto allo “schema Cenerentola”, si è avuta se non altro l’accortezza di presentare un quadro familiare già deteriorato, che di per sé è una prima forma di sofferenza ingiusta.
La drammaticità della situazione familiare – ben comunicata sin dal principio – può giustificare la decisione estrema della madre di suicidarsi insieme alla figlia (Beth, la protagonista): è un evento di cui abbiamo diverse esperienze indirette, tramite notizie di cronaca, e che dunque riusciamo a capire (anche se forse non a giustificare).
Lascia però perplessi la dinamica della scena del suicidio: la madre provoca volutamente un frontale contro un camion, lei muore, ma Beth ne esce letteralmente illesa, senza neanche un graffio.
“Un vero miracolo”, sentiamo dire a uno dei poliziotti accorsi sul luogo dell’incidente. E a noi – spero lo ricorderai – i miracoli non piacciono: una storia non può andare avanti a “miracoli”; una storia va avanti – deve andare avanti – attraverso precisi nessi di causa ed effetto, di cause che provocano effetti che diventano le cause di altri effetti, e via così sino alla fine, secondo una cinghia di trasmissione percepibile al senso comune.
La vita di Beth nell’orfanotrofio è ben rappresentata.
La direttrice è severa, ma giusta; accoglie Beth con affetto, ma il suo compito le impone delle inevitabili rigidità; le proibisce di frequentare il custode nello scantinato (come darle torto) ma si mostra disponibile ad assecondare la passione scacchistica di Beth, quando si apre la possibilità di giocare in un club professionistico; e tuttavia è costretta a inibirgli il gioco, dopo che ha scassinato la stanza dove erano custodite le pillole verdi e se ne è addirittura ingozzata (e, di nuovo, come fai a darle torto?).
Non ci vengono mostrati i rapporti con le altre orfane – che dobbiamo perciò presumere normali, ordinari – ma vediamo Beth stringere amicizia con Jolene (la ragazza di colore che, divenuta adulta, finanzierà il suo viaggio in Russia per sfidare Borgov). Non ci sono “bulli”, nessun equivalente di Irizia e Neil in Candy-Candy, nessun cattivo perché sì. L’orfanotrofio non sarà un parco giochi, ma non è neppure una sala di tortura. È quel che deve essere: un luogo triste, dove ci si sforza di vivere al meglio. Bene così.
Col passaggio dall’orfanotrofio all’affidamento alla famiglia adottiva si ha un po’ la sensazione di essere precipitati in Candy-Candy.
È ovvio che l’inserimento di una ragazzina orfana in un nuovo contesto familiare sia problematico (ho esperienza indiretta di tre casi, che inviano tutti lo stesso segnale: accogliere un orfano in famiglia è complicato, e tanto più complicato all’aumentare dell’età) ma la sensazione è che si sia giocato al limite del ragionevole.
Il marito – veniamo a sapere durante la storia – non aveva nessuna intenzione di avventurarsi in un’adozione; lo ha fatto solo perché pressato dalla moglie, che aveva un disperato bisogno di una figlia da accudire, dopo aver perso il figlio naturale. I rapporti tra marito e moglie sono già problematici – anche perché il marito è spesso fuori per lavoro – e l’arrivo di Beth li rende ancora più tesi, così si arriva alla rottura definitiva.
Beth ha migliorato la sua situazione personale, sicuramente sta meglio di prima (basta sentire il suo commento alla visione della sua stanza) ma altrettanto sicuramente non si trova nella famiglia del Mulino Bianco. Ha solo la madre, con cui peraltro fatica a entrare in sintonia: i rapporti iniziali appaiono formali, convenzionali, né tesi né distesi, ma privi di quel calore naturale tra una madre e una figlia.
Ancora una volta Beth subisce una sofferenza ingiusta, il rifiuto della madre di comprarle una scacchiera; ma, ancora una volta, la scelta è più che giustificata se osservata dalla prospettiva della madre, che non ha una sua indipendenza economica e deve amministrare con cura il denaro consegnatole dal marito; e per insegnare a Beth a fare altrettanto, le propone una paghetta mensile che, se non sperperata, le consentirà pian piano di raggiungere la somma necessaria ad acquistare l’agognata scacchiera; ti senti di biasimarla?
La sofferenza ingiusta prosegue a scuola, con la più stereotipata delle situazioni: le prese in giro delle compagne di classe. Tutto piuttosto scontato, direi.
Beth, poi, è competente. Cosa vuol dire essere competente, per una bambina o una ragazzina? Vuol dire andare bene a scuola, fondamentalmente. Ci si aspetta questo dai ragazzi in età scolare, che vadano bene a scuola, perché la scuola esaurisce gran parte dei loro doveri. E Beth è bravissima a scuola: lo veniamo a sapere quando la direttrice dell’orfanotrofio la presenta ai genitori adottivi, e ne abbiamo una conferma diretta quando – nella nuova scuola – alza la mano per rispondere alla domanda della professoressa di matematica sui binomi (beccandosi della “secchiona” dalle compagne di classe: ulteriore sofferenza ingiusta).
Beth, infine, è proattiva: prende l’iniziativa tutta le volte che può e non si lagna mai. Si avventura a scassinare la vetrata della stanza in cui si trovano con le pillole verdi; non si lascia scoraggiare dal rifiuto iniziale del signor Sheibel di insegnarle gli scacchi (e gli dimostra il suo reale interesse mostrandogli di aver dedotto le regole per muovere i pezzi dalla semplice osservazione ripetuta del gioco); non si scoraggia per la mancanza del denaro necessario a iscriversi al suo primo torneo di scacchi (rivolgersi alla madre non servirebbe, visti i chiari di luna) e ha l’intuizione di domandarlo in prestito al signor Sheibel.
Nel complesso – mi sento di dire – l’empatia è costruita in un modo piuttosto meccanico, senza particolare inventiva, avendo cura di preservare il senso del realismo, ma talvolta cedendo a delle soluzioni di comodo.
Fu vero arco di trasformazione?
Tutte le storie – quindi – orbitano intorno al difetto fatale e alla posta in gioco, e si può dire che una storia sia buona tanto quanto il suo difetto fatale e la sua posta in gioco, o meglio, che la narrazione è tecnicamente valida nella misura in cui il difetto fatale è d’ostacolo alla difesa della posta in gioco.
Quale difetto fatale?
Qual è il difetto fatale di Beth?La domanda è insidiosa, perché la storia sotto i nostri occhi suggerisce una risposta facile-facile (e sbagliata): il difetto fatale di Beth è – sarebbe – “la dipendenza” (prima dai farmaci, poi dall’alcol, infine da alcol e farmaci insieme).
Se lo hai pensato anche tu, se anche tu credi che il difetto fatale di Beth sia “la dipendenza”, allora abbiamo un problema: non hai capito cos’è un difetto fatale.
Sapresti proseguire? Sapresti aggiungere altri oggetti alla lista, in modo congruente? Espresso altrimenti: cos’hanno in comune tutti gli oggetti elencati?
Nessuno di noi può vedere un rettangolo in un tutta la sua purezza, ma nessuno di noi ha problemi nel vedere rettangoli ovunque, a ritrovare le sue proprietà generali in svariati casi concreti, per quel minimo di capacità di astrazione che possegga.
“… perché parlando di ellissi ottenute da sezioni oblique di un cilindro ci si dovrebbe inibire di dar corpo e sapore al concetto materializzandolo nell’immagine dell’affettare un salame? Dire «cilindro» è preferibile se ed in quanto tale termine astratto risvegli molte sensazioni concrete anziché una sola: oltre che salame anche colonna o tubo o torrione ecc., ma è esiziale quando in esso non si sia imparato a vedere né un salame né una colonna o tubo o torrione o null’altro salvo una figura che si trovi nei testi di geometria per servire di pretesto a interrogazioni e bocciature”.
Lo puoi vedere anche con i numeri, se preferisci.
Il numero 5 – per dirne uno – non esiste. Esistono semmai 5 penne, 5 mattonelle, 5 mele, 5 bottiglie; ognuno di questi insiemi reali – di penne, mattonelle, mele e bottiglie – può però esser messo in corrispondenza biunivoca con uno stesso insieme astratto – di puri segni – {1, 2, 3, 4, 5}; e si dirà allora che tutti quegli insiemi di oggetti reali, chiaramente diversi tra loro, sono accomunati da “essere 5”, dall’accogliere 5 elementi, perché collegabili in modo univoco all’insieme astratto {1, 2, 3, 4, 5}.
Bisogna sempre aver chiara la distinzione tra ciò che è “reale”, vale a dire osservabile, sperimentabile, percepibile con i nostri sensi, e ciò che invece è “astratto”, nel senso già chiarito di “multi-concreto”, di idealizzazione utile a cogliere in un sol colpo una realtà multiforme.
Nessuno può vedere una figura geometrica (ad esempio un rettangolo) o un numero (ad esempio il 5); ma possiamo senz’altro riconoscere una figura geometrica o un numero in tanti oggetti o insiemi che quotidianamente cadono sotto le nostre percezioni sensoriali.
Anderssen diede scacco matto sacrificando un alfiere, entrambe le torri e la donna.
Lo stesso discorso possiamo clonarlo al difetto fatale.
Nessuno può osservare il difetto fatale in tutta la sua estensione e profondità. Quel che possiamo registrare sono le azioni e le parole del personaggio (e in scrittura anche i pensieri e le percezioni, se ci riferiamo al “Punto di Vista”) per poi risalire dall’osservazione di azioni e parole (e pensieri e percezioni) alla sua concettualizzazione mediante il difetto fatale.
Nulla di ciò che possiamo osservare è il difetto fatale (proprio come nessun oggetto è in sé un rettangolo e nessuna quantità è un numero) ma ne rappresenta piuttosto una manifestazione (come un quaderno è un esempio di rettangolo e cinque bottiglie sono una concretizzazione del “5”); e manifestazione dopo manifestazione, osservazione dopo osservazione (di azioni, parole, pensieri e percezioni) potremmo forse avere l’illuminazione decisiva.
Ehilà! Tutti i discorsi fatti dal personaggio, tutte le azioni che ha compiuto, tutti i pensieri e le percezioni che ha avuto, sebbene apparentemente disparati, sgorgano in realtà da una stessa fonte, hanno una matrice comune, esprimo sempre – sebbene in maniera diversa – uno stesso tratto caratteriale: l’egoismo (o la generosità, o l’invidia, o l’orgoglio o vedi tu che altro).
Nessuno può vedere “l’egoismo” nella sua totalità (come nessuno può vedere un rettangolo o un numero) ma tutti siamo in condizione di riconoscere l’egoismo quando osserviamo ripetutamente una serie di comportamenti e discorsi a esso conformi (come tutti scorgiamo rettangoli e numeri sotto gli oggetti reali).
Nulla di ciò che puoi osservare è il difetto fatale. Ciò che osservi sarà – al più – una sua manifestazione, e magari una manifestazione particolarmente rilevante, ma non è – non può essere – il difetto fatale in sé, perché il difetto fatale in sé non è mai osservabile.
Beth Harmon ha sviluppato delle dipendenze distruttive? La vediamo ingoiare pillole e ubriacarsi? Bene. Ma non può essere questo il suo difetto fatale, perché – non sarà mai ripetuto abbastanza – nulla di ciò che osserviamo è in sé il difetto fatale. Il suo ingoiare allegramente pillole e mandar giù alcol come fosse acqua saranno (se lo sono) manifestazioni del suo difetto fatale (ammesso che Beth ce l’abbia davvero un difetto fatale).
Quindi – in definitiva – la domanda è: qual è il tratto caratteriale tipico di chi sviluppa delle dipendenze distruttive?
E qui la faccenda si complica.
Il buon senso e l’esperienza ci dicono che una dipendenza distruttiva (farmaci, alcool, droga, sesso, …) è spesso collegata a una fragilità psichica, a una debolezza dell’animo, a un’insicurezza o uno squilibrio emotivo che si tenta di sovracompensare reiterando – a livelli crescenti, com’è inevitabile – delle sensazioni fisiche artificiali ad alta intensità, in grado di annichilire temporaneamente quel costante malessere spirituale.
Non sempre è così, ovvio, perché ogni caso ha le sue specificità; ma sicuramente questa chiave di lettura offre un primo inquadramento tendenzialmente valido e comunque utile per capire meglio.
Qual è il problema, nel nostro caso specifico? Che la tesi mainstream è fallimentare. Possiamo dire tutto di Beth, ma non certo che sia una ragazza fragile, debole o insicura. Al contrario. Ci viene costantemente mostrata forte, coraggiosa, intraprendente, decisa, determinata.
Non solo non versa una lacrima per la morte della madre naturale, ma la vediamo impassibile anche subito dopo l’incidente, per nulla sconvolta; non muove ciglio quando il padre adottivo si rimangia la parola e vuole indietro la casa (e si offre anzi di comprarla lei, trovando pure la forza di imbastire una contrattazione al vetriolo); tiene brillantemente testa alla prima giornalista che la intervista e che fa di tutto per metterla in difficoltà; quando la madre le propone timidamente di essere la sua agente, con una richiesta del 10% dei suoi guadagni, lei non si fa problemi a offrirle una quota del 15%; non si lascia intimorire dal rifiuto iniziale del signor Sheibel di insegnargli a giocare a scacchi; al suo primo torneo – da unrated, quando non sa neppure quale sia lo scopo dell’orologio e del taccuino – pretende di giocare subito contro gli scacchisti migliori; confida a Benny di avere in programma di andare in Russia per sconfiggere Borgov, e non gliela manda a dire quando Benny le fa notare che dovrà prima sconfiggere lui nel campionato americano (“ho in programma anche questo”); e non solo coltiva l’ambizione di battere Borgov, ma addirittura si iscrive a un corso di lingua russa, come se imparare il russo fosse un modo per attenuare la soggezione verso il campione del mondo; è a corto di denaro, non sa ancora come raggiungere la Russia, ma non si fa problemi rifiutare il finanziamento di una associazione religiosa che chiedeva in cambio di propagandare il cattolicesimo; non è minimamente turbata – ne accusa contraccolpi durante le partite – dall’essere andata in Russia da sola, senza amici, accompagnata solo da un funzionario americano per ragioni di sicurezza; e persino la morte della madre adottiva, la perdita della persona sentimentalmente più vicina – sebbene ovviamente la addolori – viene vissuta come una situazione che può capitare.
C’è un solo momento in cui la vediamo spaventata: all’inizio del terzo episodio, in un flashback, quando è ancora bambina e la madre naturale tarda a riemergere dal lago in cui si è tuffata; tutto qui; poco, oggettivamente.
Sicuramente si scontra con i problemi tipici dell’età adolescenziale senza una rete di protezione, passando da un orfanotrofio – dove sviluppa una dipendenza dai farmaci che la accompagnerà per gran parte della storia – a una famiglia adottiva alle prese con una crisi matrimoniale ormai prossima al collasso.
Le cose si complicano, quando cade l’ipotesi mainstream – dipendenze distruttive = debolezza, fragilità insicurezza – e non se ne hanno altre sotto mano.
Si potrebbe tentare di aggirare il problema, avendo presente l’espediente spesso usato dagli sceneggiatori per comunicare il difetto fatale del protagonista: esplicitarlo in una battuta di dialogo.
Forse, chissà, dobbiamo solo prestare attenzione a ciò che i personaggi si dicono, per sentirci rivelato il difetto fatale di Beth.
Quale posta in gioco?
Voglio sperare – arrivati qui – che non mi dirai “diventare la campionessa mondiale di scacchi”. Perché altrimenti abbiamo un problema, e pure parecchio grave. Torna al modulo 23 e ricomincia daccapo.
Facciamo un breve ripasso. La posta in gioco:
- è ciò per cui il protagonista sta lottando;
- non è un oggetto, una persona, un fatto; la posta in gioco è l’insieme di significati che il protagonista carica su un oggetto, su una persona o su un fatto;
- si difende, non si conquista.
Beth vuole battere Borgov e diventare la campionessa mondiale di scacchi. Questo è il fatto osservabile, d’accordo.
Rispondere a queste domande significa trovare la posta in gioco di Beth.
E io – lo confesso – sulle prime non sono riuscito a trovare una risposta. O meglio: non sono riuscito a vedere nulla – nella storia, nelle singole scene e nelle loro sequenze – che mi potesse anche solo suggerire un principio di risposta.
Vogliamo dire che Beth sta inseguendo un “riscatto sociale” attraverso gli scacchi? Da orfana di una madre mezza matta e suicida a campionessa del mondo: un bel salto, sicuramente. Oppure vogliamo dire che gli scacchi sono il suo modo di auto-realizzarsi, indipendentemente dagli applausi del mondo, che pure inevitabilmente ne seguiranno? Va bene, diciamolo pure. Ma cos’ha a che fare tutto ciò con la posta in gioco?
La posta in gioco si difende, non si conquista, e se la storia implica una conquista – ad esempio il titolo di campione del mondo – è sempre una conquista strumentale alla difesa di ciò che già si possiede.
Non è così immediato – in effetti – capire cos’è che Beth già possiede, ma finirebbe col perdere se non accettasse di misurarsi con Borgov.
Dal dialogo tra Beth e il bambino russo traspare la potenziale inutilità di tutto lo sforzo, il suo essere fine a sé stesso, la mancanza di una visione più ampia, di un significato profondo.
Per fortuna ci pensa Borgov a tirarci via d’impaccio, con una battuta di dialogo che ha tutte le sembianze della dichiarazione della posta in gioco.
Altrimenti che avrebbe nella vita?”
Beth non vive. Beth sopravvive. Solo gli scacchi sono in grado di riportarla al mondo, di consegnare alla sua esistenza un significato che vada oltre la sopravvivenza, di farla appunto sentire viva. Se ci pensi, è la stessa situazione che si produce in Million dollar baby, quando la ragazza (che comunque non è la protagonista) dichiara ciò che la boxe rappresenta per lei: “se dovessi ragionare a mente fredda, dovrei tornare a casa, trovare una roulotte usata, comprarmi una friggitrice e dei biscotti. Il problema è che mi sento bene solo quando mi alleno”.
Beth sta bene solo quando gioca a scacchi, perciò smettere di giocare, o rinunciare alle sfide che gli scacchi le prospettano, significa smettere di stare bene, significa “morire”, non in senso fisico, ovviamente, ma in senso spirituale: significa smettere di vivere, per tornare a malapena a sopravvivere.
Diventare la regina di un mondo dominabile per preservare il proprio piccolo posto nel mondo reale, rinchiudere la propria esistenza nelle 64 caselle di una scacchiera per vivere al meglio nell’incerta scacchiera del mondo: gli scacchi come espediente auto-realizzativo messo in campo dal cervello per assicurarsi una pace interiore nella vita di ogni giorno.
Il test del finale
Il test del finale è il confronto tra l’inizio e la fine dell’opera, tra lo status quo e l’epilogo: l’accostamento tra il “prima” e il “dopo” dovrebbe rivelare in automatico – anche solo a livello inconscio – il cambiamento che si è prodotto nel personaggio.Non vi è dubbio che – a livello puramene estetico – La regina degli scacchi mostri una delle più belle accoppiate tra inizio e fine, tra status quo ed epilogo.
è minaccia di attuare (ancora bambina) in una delle sue prime partite.
E i pedoni, non a caso, aleggiano su tutta la serie:
Ma qual è la sostanza, dietro queste immagini?
Cos’è che Beth è in grado di fare, alla fine della storia, che non sarebbe mai stata capace di fare all’inizio?
Questo è il punto capitale: un’opera è tanto più riuscita quanto più il protagonista è capace, alla fine, di compiere azioni o vivere situazioni che mai ci saremmo immaginati potesse compiere o vivere quando lo avevamo conosciuto all’inizio, e quanto più il suo percorso di cambiamento risuona con la nostra anima.
Non ci saremmo mai aspettati di vedere Tom Anderson salire sul banco e chiamare a raccolta l’intera classe, con il suo “Oh capitano, mio capitano”; eppure è successo, ed è successo a seguito di un percorso di cambiamento credibile e verosimile.
Non ci saremmo mai aspettati di vedere l’avvocato Jan Schlichtmann perdere tutta la sua ricchezza materiale, e vivere con serenità una situazione sociale oggettivamente complicata e imbarazzante, pur di vedere affermata la verità; eppure è successo, ed è successo a seguito di un percorso di cambiamento credibile e verosimile.
Non ci saremmo mai aspettati di vedere l’avvocato Daniel Kaffee – un patteggiatore di principio, che non ha mai messo piede in un’aula di tribunale – incalzare il colonello Jessep (Jack Nicholson) col rischio di ricevere una corte marziale per accuse infondate a un alto grado dei marines degli Stati Uniti; eppure è successo, ed è successo a seguito di un percorso di cambiamento credibile e verosimile.
Non ci saremmo mai aspettati di vedere April – una ballerina tutta concentrata su sé stessa, refrattaria all’insegnamento – portare un gruppo di ragazzine goffe e insicure a vincere una competizione di ballo nazionale, e a voler essere la loro insegnante anche dopo, per permettergli di conquistare traguardi sempre più importanti; eppure è successo, ancora una volta in modo credibile e verosimile.
Se ci dicessero che una donna ha prima avuto una bambina con la sindrome di Rett (1 caso su 10.000 nascite) e poi un figlio con un tumore al cervello, la prima reazione sarebbe di incredulità e – dopo aver appurato che invece è tutto vero – penseremmo che la poveretta sia impazzita per il dolore; e invece ci viene presentata – in modo realistico e credibile – la storia di “una fottuta famiglia felice”.
Una storia ci impressiona tanto di più quanto maggiore è lo sbalzo del personaggio tra come lo avevamo conosciuto all’inizio e come lo ritroviamo alla fine, sotto un vincolo di realismo, credibilità e verosimiglianza del suo cambiamento.
E ora, dimmi, in che modo la storia di Beth ci sorprende? Cos’è che la protagonista riesce a fare, alla fine, che all’inizio non ci saremmo mai aspettati? In cosa consiste il suo cambiamento?
Potremmo dire – allargando massimamente l’angolo visuale – che non ci saremmo aspettati di vedere una bambina orfana (con tutti i problemi pratici e psicologici di un’orfana) diventare campionessa mondiale di scacchi. Ma capisci da solo – spero – che è una lettura debole e povera (e, diciamo pure, parecchio forzata).
Potremmo dire – guardando alla superficie delle cose – che non ci aspettavamo di vederla avanzare per tutto il torneo in Russia, sino battere Borgov, con tanto di scacchiera immaginaria visualizzata sul soffitto, senza ricorrere a quelle pillole verdi che sino a quel momento avevano rappresentato una costante di tutte le sue partite vittoriose. Si, va bene, diciamolo se ci fa piacere dirlo, ma non è per nulla chiaro come si sia potuto produrre – pressoché all’istante – il passaggio da una dipendenza assoluta a un’astinenza totale, e più in generale quale sia il significato profondo di questa transizione.
La verità è che noi vediamo – per sette puntate – una Beth schiacciasassi, incredibilmente attratta dagli scacchi, pronta a tutto per assecondare al meglio la sua passione, con possibilità via via crescenti per affermarla, e infine – dopo una serie inarrestabile di vittorie, con due soli passaggi a vuoto contro Borgov (il primo quando non era ancora abbastanza esperta, e giocava coi neri; il secondo quando era sotto gli effetti di una nottataccia) – ecco che la vediamo trionfare e prendersi scettro e corona del regno degli scacchi.
Intendiamoci: non è che Beth non incontri ostacoli lungo il cammino – proviene da un ambiente familiare problematico, rimane orfana, si scopre donna in un mondo dominato dagli uomini, ha un carattere difficile che le gioca contro, e persino la sua nazionalità diventa alla fine una pregiudiziale – ma il punto è che nessun di questi ostacoli sembra creargli davvero problemi. Come a dire: se hai tutte le qualità per farcela, sei consapevole di averle, e non ti lasci mai scoraggiare dalle difficoltà, allora tu ce la farai sicuramente. Wow! Davvero? Ma non mi dire.
Ti faccio osservare come persino alla fine, durante la sospensione della partita contro Borgov, quando tutto il suo vecchio gruppo di amici si rifà vivo dall’America per aiutarla nella definizione di una strategia (il che è già buffo: prima mi abbandoni, e quando sono a un passo dal successo ti rifai vivo?), anche in questo passaggio, dunque, Beth è comunque sola con sé stessa, perché Borgov attuerà una mossa che sfuggirà a tutte le congetture del gruppo di scacchisti americani, cosicché sarà Beth, e solo Beth, a dover scovare la contromossa giusta per arrivare alla vittoria.
Possiamo girarci intorno quanto vogliamo, ma alla fine, dopo tanto filosofeggiare, saremo costretti a una conclusione inevitabile: l’epilogo è lo sbocco naturale dello status quo, e ciò che vediamo alla fine non ci sorprende per nulla, dato ciò che ci era stato mostrato all’inizio (e durante l’intera storia).
Per dirlo con uno slogan: il personaggio di Beth va incontro a una evoluzione (da promessa degli scacchi a eccellente giocatrice sino a campionessa del mondo) ma non mostra nessuna trasformazione.
Era un libro, d'altra parte
Quella che i più conoscono come una serie tv del 2022, col nome La regina degli scacchi, nasce come libro, nel 1983, con un nome decisamente più tecnico, La regina del gambetto, dalla penna di Walter Travis (scrittore americano le cui storie hanno spesso ispirato il mondo del cinema, con film come Lo spaccone e Il colore dei soldi).La regina degli scacchi è un libro prima che una serie tv, e i libri – lo abbiamo notato – sono di regola “scritti male”, nel senso che gli archi di trasformazione non ci sono, o, se ci sono, appaiono confusi e mal decifrabili.
Non c’è quindi da meravigliarsi se la trasposizione televisiva, nel voler restare fedele alla fonte originale, ne abbia recepito anche le manchevolezze.
Il talento non esiste
In linea di principio noi leggiamo – e più in generale fruiamo di storie – con l’obiettivo di vivere la vita di un altro, di simulare (sulla pagina o sullo schermo) un’esperienza che spesso ci è preclusa nel mondo reale, ma che può ancora restituirci una lezione, se realizzata secondo i canoni.
Per vivere la vita di un altro – per imparare indirettamente dalla sua vita qualcosa che non possiamo apprendere direttamente dalla nostra – dobbiamo prima di tutto rinunciare a noi stessi – alle nostre idee e convinzioni, alla nostra visione del mondo, sin anche alla nostra cultura – per tutto il tempo di fruizione dell’opera.
“Il sé, con tutti i suoi difetti e le sue peculiarità, impiega parecchio tempo per farsi strada nell’universo. Tutto ha inizio nel momento in cui riconosciamo la nostra immagine allo specchio. Gli adulti di riferimento ci raccontano storie sul passato e sul presente, su come dovremmo gestire il tutto. Iniziamo a dare il nostro contributo a queste micronarrazioni su noi stessi. Ci rendiamo conto di essere orientati a determinati obiettivi: puntiamo a qualcosa e cerchiamo di ottenerlo. Capiamo di essere circondati da altre individualità, a loro volta orientate a determinati obiettivi. Realizziamo di rientrare in una determinata categoria – maschio, femmina, classe lavoratrice – su cui gli altri coltivano aspettative ben precise. Potremo fare, e abbiamo già fatto, determinate cose. A poco a poco queste sacche di memoria storica individuale inizieranno a collegarsi fino a produrre qualcosa di coerente, dando vita a trame impregnate di una certa personalità, collegate da un determinato filo rosso. […].
Dopo aver affrontato questa fase adolescenziale di creazione narrativa, il cervello avrà sostanzialmente elaborato ciò che siamo, che cosa ci sta davvero a cuore e come dovremmo agire per ottenere ciò che vogliamo. Dalla nostra venuta al mondo la mente ha potuto contare su una condizione di estrema plasticità, che le ha permesso di plasmare i propri modelli. Adesso, però, risulterà meno malleabile, opporrà più resistenza. Gran parte delle caratteristiche e degli errori che ci rendono ciò che siamo risulta ormai assimilata. I nostri difetti e le nostre peculiarità sono ormai parte integrante di noi. Di fatto la nostra mente si è formata.
Da questo momento in poi il cervello entra in una modalità che varrebbe la pena comprendere, soprattutto se si è interessati al conflitto e al dramma umani. Dal ruolo di costruttori passeremo a quello di difensori di modelli. Ora che il sé imperfetto con il suo modello imperfetto del mondo è stato costruito, il cervello si trasformerà nel suo paladino. Quando ci imbattiamo in dati che rischiano di metterne in forse la validità, poiché altri percepiscono il mondo in un modo diverso dal nostro, potremmo sentirci profondamente turbati. Eppure, invece di modificare i nostri modelli tenendo conto anche del punto di vista altrui, il cervello farà di tutto per smentire ogni altra tesi. […].
Il cervello difende il nostro modello imperfetto del mondo trincerandosi dietro le più scaltre faziosità. Quando ci imbattiamo in un nuovo dato o in una nuova opinione, li passeremo subito al vaglio: se risultano conformi al nostro modello di realtà, risponderemo inconsciamente con un sì. In caso contrario, la nostra risposta inconscia sarà no. Tali risposte emotive precedono ogni ragionamento conscio. Ecco perché esercitano una così profonda influenza su di noi”.
Un bel casino, quello prospettato da Will Storr, non trovi?
Esiste una fase della vita in cui le nostre strutture mentali sono plasmabili e si riadattano di continuo ai segnali che provengono dalla realtà esterna; e però, via via che si riadattano, diventano anche meno flessibili, in alcuni punti si irrigidiscono, e rigidità dopo rigidità si solidificano; a questo punto non è più la realtà a determinare la nostra struttura mentale, ma il contrario; è il mondo a essere creato – compreso, filtrato, analizzato – attraverso una struttura precostituita; la realtà verrà incasellata – con più o meno naturalezza e se occorre a forza bruta – dentro categorie logiche non più in discussione, e se per avventura un elemento della realtà non dovesse incastrarsi, se proprio non si riuscisse a collocarlo nei nostri schemi, allora diremo – senza incertezza – che è sbagliato, errato, da emendare o rigettare.
Ora, c’è una vasta schiera di falliti cronici che si è formata l’idea di un talento naturale, di un insieme di capacità innate assimilabili a un diritto regale di nascita. E non gli è parso vero – a questi falliti cronici – di ritrovarsi davanti La regina degli scacchi, che hanno interpretato nell’unico modo con cui i loro bias di conferma gli consentivano: il talento naturale esiste, e Beth Harmon ne è la dimostrazione (sebbene simulata, all’interno dell’opera).
Peccato che La regina degli scacchi dica esattamente il contrario, a chiunque la approcci senza pregiudizi.
Sì, è vero: occasionalmente, qua e là, saltano fuori dei richiami al talento, a capacità straordinarie, ad abilità portentose, ma si tratta appunto di riferimenti sporadici, collocati in scene particolari, dove l’emotività dei personaggi prende il sopravvento e si manifesta con espressioni iperboliche. Al netto di questa frangia di casi – che volendo si potrebbero contare, per quanto son pochi – tutta l’opera si sforza di far passare il messaggio contrario: il talento naturale – ci dice La regina degli scacchi – non esiste.
Beth Harmon – questo sì – ha una passione smodata per gli scacchi, e la passione la spinge a voler eccellere.
Ma Beth non conosce certo “per diritto naturale” le regole con cui muovere i pezzi sulla scacchiera; le deduce dall’osservazione ripetuta delle partite che il signor Shaibel gioca da solo, senza farsi scoraggiare dal fatto che non vuole insegnarle il gioco, perché ne è attratta e vuole saperne di più (e vuole saperne di più perché sa di non saperne nulla).
La prima partita tra Beth e il signor Shaibel si conclude con un mortificante “matto del barbiere”: dov’è il presunto talento naturale di Beth, la sua capacità innata di giocare a scacchi, se poi viene sconfitta nel modo più banale?
C’è una partita in cui il signor Shaibel obbliga Beth ad abbandonare (e lei stessa la rievocherà nel primo scontro con Borgov) incontrando la sua opposizione; Beth vuole continuare a giocare, pensa ancora di poter vincere; non ha capito – non sa ancora – che gli scacchi sono un gioco deterministico, che a ogni momento – sin dalla prima mossa – la vittoria o la patta è con certezza nelle mani di uno dei due giocatori, a prescindere dalle mosse che farà l’altro (solo che l’intelligenza umana è limitata e non riesce a scorgere la dinamica di gioco vincente fin quando non rimangono pochi pezzi sulla scacchiera); Beth lo avrebbe senz’altro saputo, e si sarebbe accorta di essersi infilata in una traiettoria perdente, se avesse avuto un immaginifico talento naturale per gli scacchi (giacché parliamo del principio fondante dell’intero gioco).
Quando l’orfanotrofio sospende la distribuzione delle pillole verdi – che tanta importanza avevano e avranno nello stimolare l’inventiva di Beth – lei si consola pensando che ha ancora da studiare gran parte del libro sugli scacchi regalatole dal signor Shaibel. E che bisogno avrebbe di studiare, se lei c’è nata col talento per gli scacchi? E a cosa le servirebbe impasticcarsi prima di ogni partita, se Dio le ha già consegnato i suoi talenti?
La prima curiosità di Beth, una volta arrivata nella nuova scuola, è sapere se nella biblioteca c’è una sezione dedicata agli scacchi; la prima azione di Beth – dopo aver vinto il premio in denaro al torneo – è comprare una pila di libri sugli scacchi.
E comunque, per quanto Beth possa studiare, sembra che non studi mai abbastanza, a sentire il rimprovero che le rivolge Beltik: “leggi: leggi le partite di Leningrado del ’62, guarda come gioca i finali di pedone e torre… potresti imparare qualcosa”. Ma va là! Beth sa già tutto! Lei c’è nata col “talento per gli scacchi”.
Se possiamo davvero contare sulle dita di una mano le volte in cui vi sono dei riferimenti al talento di Beth, peraltro sempre vaghi e nebulosi, non si contano invece le volte in cui la vediamo con un libro o una rivista in mano, impegnata a studiare, e a studiare ancora, ancora e ancora.
Beth: “L’hai appena visto”
Beltik: “Qual era il tuo piano?”
Beth: “Per… batterti? In realtà non lo so”
Beltik: “Esatto: stai ancora improvvisando”
Beltik: “Puoi battere Borgov con molto più lavoro, con anni di lavoro”
Gli autori ordinari creano i personaggi e poi li fanno pensare, parlare e agire in coerenza con i tratti caratteriali con cui li hanno marchiati. Così, ad esempio, un autore può aver creato un personaggio “invidioso” e poi aver mostrato al pubblico – sulla pagina o sullo schermo – una varietà di situazioni in cui la sua invidia si manifesta.
Gli autori eccellenti fanno qualcosa in più: lasciano intravedere da dove proviene l’invidia, suggeriscono le ragioni per cui il personaggio è invidioso, forniscono quantomeno un principio di giustificazione all’invidia del personaggio, e così lo rendono “più vero”, maggiormente credibile, tridimensionale.
Ti invito a soffermarti sulle parole che ho usato: lasciare intravedere; suggerire; principio di giustificazione.
Non si tratta di spiegare tutto sin nei più minuti dettagli, anche perché sarebbe materialmente impossibile, tanto in scrittura quanto al cinema (si finirebbe, in entrambi i casi, con lo stilare la biografia del personaggio, in parallelo con l’opera che lo vede coinvolto).
Si tratta piuttosto di recuperare l’iceberg di Hemingway ed applicarlo al carattere del personaggio: 1/8 di cose ben scelte, presentate nel giusto ordine, per lasciare intuire i 7/8 di sommerso.
Tutte le 7 puntate contengono dei flashback che mostrano Beth insieme alla madre naturale, spesso impegnata a darle delle piccole lezioni di vita.
A cosa servono questi flashback? Qual è loro funzione all’interno della storia? O meglio – per essere più diretti – se ne rimuovessimo un paio, e al limite se li eliminassimo in blocco, la storia starebbe ancora in piedi o mostrerebbe delle crepe?
La risposta, sulle prime, sembra negativa: possiamo rimuove quasi tutti i flashback, e la storia non ne sarebbe pregiudicata, la sua impostazione e i suoi sviluppi continuerebbero a tenere. Però perderemmo una possibile spiegazione della grande passione di Beth verso gli scacchi.
Già. Perché Beth è così attratta dagli scacchi, sin dalla prima volta che li vede? Da dove proviene il suo interesse? Perché proprio gli scacchi e non le bambole o i libri o qualsiasi altra cosa?
Non possiamo certo far stendere Beth Harmon su un lettino e psicanalizzarla, per toglierci la curiosità; però possiamo ancora guardare con attenzione l’opera e cogliere i segnali che ci manda.
Quindi la madre di Beth è una dottorata in matematica e noi, grazie ai flashback, sappiamo che tra Beth e sua madre c’è stato a lungo un rapporto molto stretto, intenso.
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È solo una congettura, ma è la congettura massimamente congruente con tutto ciò che vediamo, dalla tesi di dottorato in matematica della madre di Beth fino alla stessa Beth particolarmente brava in matematica (è l’unica, nella sua nuova classe, a sapere cosa sia un binomio).
Il passaggio non poteva sfuggire a un matematico raffinato come Piergiorgio Odifreddi, e il suo articolo richiama – ancora una volta – tutto lo studio affrontato da Beth per arrivare sin dove è arrivata.
E se non sai fruire delle opere – se non sai leggere romanzi né guardare film e serie tv – come puoi pensare di scrivere?
Garri Kasparov vs Beth Harmon
La regina degli scacchi ha beneficiato della consulenza del celeberrimo giocatore russo Garry Kasparov, campione mondiale di scacchi dal 1985 al 2000, e protagonista della famosa e controversa sfida contro Deep Blue, un computer programmato per sconfiggerlo.Le 7 puntate mostrano – in tutto o in parte – circa 350 partite, che appartengono tutte alla storia degli scacchi, e messe insieme formano una sorta di florilegio del gioco.
L’incontro finale tra Beth e Borgov – in particolare – riproduce parzialmente la partita giocata nel 1993 da Vassily Ivanchuck e Patrick Wolff ai campionati internazionali di Biel, in cui la mossa di apertura è il cosiddetto gambetto di donna (che Beth gioca nell’occasione per la prima volta nella sua vita).
Per una sorta di contrappasso, il personaggio di Beth è invece ispirato a Bobby Fischer, che proprio nel periodo tra il 1958 e il 1968 in cui è ambientata la storia televisiva era stato decisamente trachant sulle abilità scacchistiche del sesso femminile. “Le donne non giocano bene. Posso concedere loro un cavallo, e continuare a vincere facilmente: anche con la campionessa mondiale. Sono tutte terribili, probabilmente perché non sono così intelligenti. Non c’è mai stata una buona giocatrice, non una che potesse competere con gli uomini, in tutta la storia degli scacchi. Credo che le donne non dovrebbero impicciarsi di cose intellettuali: meglio che stiano a casa, a fare le pulizie”.
E ora chiediamoci: era necessaria tutta questa precisione tecnica, se poi la stragrande maggioranza del pubblico non è stata in grado di apprezzarla?
La risposta è sì, era necessaria, assolutamente necessaria, per ragioni sia etiche che pratiche.
È un elementare forma di rispetto verso il lettore-spettatore – un dovere minimale – narrare solo storie di cui conoscono sufficienti dettagli, altrimenti è come dargli dello stupido, degradarlo a una figura passiva, senza nessuna capacità di discernimento, capace di bersi qualunque cosa.
E se – ovviamente – non si può già conoscere tutto ciò di cui si vorrebbe scrivere, allora è un obbligo etico documentarsi, se del caso chiedere il supporto di chi ha le giuste conoscenze, come avvenuto qui con la consulenza di Kaspary.
Ma ci sono anche motivi d’ordine pratico, oltre alle ragioni etiche, che spingono verso la precisione.
Anzitutto, una serie sugli scacchi si rivolge anche solo involontariamente a un pubblico di scacchisti, vale a dire a spettatori preparati e competenti, in grado di cogliere errori, incongruenze, sbavature, imprecisioni. E al giorno d’oggi è un attimo – con internet – a innescare un passaparola in grado demolire un’opera grossolana e approssimativa, a privarla di credibilità anche agli occhi del grande pubblico di non-esperti, e in definitiva a decretarne se non proprio il fallimento, di sicuro un modesto riscontro, oltre lanciare un’ombra sinistra su tutti coloro che l’hanno realizzata.
E a ogni modo – anche a prescindere dall’eventuale effetto stigma dovuto ai giudizi critici del pubblico informato – bisogna comunque fare i conti con il buon senso latente in ogni spettatore, anche non specialista.
Posso pure non sapere nulla di scacchi, ma una scacchiera l’avrò almeno vista una volta nella vita, e probabilmente avrò anche giocato qualche partita, e forse, chissà, avrò pure letto le prime pagine di un manualetto per principianti. E mi sembrerà allora ben strano che i personaggi della storia – tutti giocatori di livello, che arrivano a sfidarsi in gare progressivamente più difficili, sino a contendersi il titolo di campione del mondo – compiano mosse o dicano cose così simili a quelle che chiunque altro potrebbe fare o dire: ehi, sarà pure il campione mondiale di scacchi, ma parla proprio come parlerei io, e fa più o meno quello che potrei fare anch’io, che di scacchi so poco e nulla!
I lettori-spettatori non sono l’anello mancante tra la scimmia e l’uomo. I lettori-spettatori capiscono sempre tutto, anche se spesso solo a livello inconscio. Rispettali. Racconta solo storie di cui conosci abbastanza per poterne scrivere.
E pur è piaciuto
Non ho registrato neanche una voce contraria, per quanto flebile, neppure da chi si è costruito la fama di recensore severo e temibile.
Qui – in questo blog – si è sempre sostenuto che un’opera può piacere per un’infinità di motivi, alcuni connaturati all’opera stessa (endogeni alla storia) altri dipendenti dallo specifico media con cui è rappresenta o da elementi collaterali, se non direttamente dall’aggressività dell’azione di marketing (esogeni alla storia).
E vogliamo parlare poi dell’immersione negli Stati Uniti degli anni ’60? Oltre a una ricostruzione deliziosa del periodo, grazie all’ottimo lavoro di scenografia e costumi, viene riproposto il legame saldo tra gli scacchi e i russi – i grandi maestri del gioco – per evocare la cosiddetta Guerra Fredda, con l’ambizione americana di piantare la propria bandiera in un territorio esclusivamente appannaggio dei sovietici.
Potrei proseguire ancora a lungo, sulla stessa intonazione, se il messaggio – come presumo – non fosse già chiaro: un’opera può piacere per n-mila motivi, ma il più delle volte (n-1)-mila sono dovuti a specifiche modalità di esecuzione che in scrittura sono inibite, a soluzioni realizzative che non puoi trasferire nel mondo della pagina.
Tutto ciò di cui disponi – da scrittore – è la storia, null’altro che la storia, e perciò – da scrittore – devi puntare tutto sulla storia. Non dimenticarlo.
Controcanto: talenti pianificati
E sì che numerose emozioni – a livello cinematografico – sono costruite sull’idea che il talento non esiste.
“Soltanto la perseveranza e la determinazione sono onnipotenti”, sentiamo dire in The Founder, e non il talento: “che c’è di più comune degli uomini di talento che non hanno successo?”
“L’ossessione batte il talento” è il mantra dell’allenatore di basket, in Hustle (e un richiamo esplicito all’ossessione lo ritroviamo anche nella serie La regina degli scacchi, quando Beltik rincontra Beth e le dice di non essere più coinvolto come una volta: “non è un’ossessione come dovrebbe essere, se vuoi vincere tutto”).
La perseveranza è quell’atteggiamento che ti porta a provare e riprovare, e a provare ancora, ancora e ancora, senza mai stancarti.
Però capisco pure che la linea d’argomentazione può avere un retrogusto accademico o filosofico, almeno per chi non ha mai avuto modo di sperimentare il potere della perseveranza e dell’ossessione, per chi, in definitiva, non è mai stato travolto da una passione.
Servono i fatti, si dirà. Serve qualcosa da poter “toccare e vedere”. Eccola qui.
Spesso si evoca “il talento” per giustificare il successo come gli antichi evocavano “l’etere” per spiegare la propagazione della luce: è una formula comoda, veloce e apparentemente risolutiva.
Chissà in quanti, semplicemente osservando le figlie di László Polgár, e non sapendo null’altro, avranno pensato a un talento naturale, e forse addirittura a una tara genetica, visto che la stessa caratteristica le colpiva trasversalmente.
È molto facile – direi banale – dimostrare una tesi trascurando tutto ciò che la contraddice; è facile sostenere l’idea di un “talento naturale”, senza guardare a tutto il sommerso – la fatica sorda, il lavoro oscuro – che ha portato un cosiddetto “talento” al livello a cui si trova.
Fuori programma: scacchi e srittura
In principio fu Chiara Gamberetta.
Prima di Marco Carrara (il Duca di Baionette), di Livo Gambarini (il Professore), di Alvin Miller (il Capitano), di Francesco Durigon (il Prof), e di tutti gli altri che vorrai aggiungere a tuo piacimento, prima di tutti loro, dicevo, c’è stata Chiara Gamberetta col suo blog Gamberi Fantasy.
Gamberetta è la pioniera di quella che alcuni chiamano scrittura immersiva, altri scrittura trasparente, altri ancora scrittura esperienziale, e che qui chiamiamo scrittura dei mattoncini.
La didattica della scrittura ha compiuto progressi notevoli, rispetto al blog di Gamberetta (che peraltro nasceva con l’obiettivo principale di recensire libri).
Ma all’epoca Gamberi Fantasy era tutto ciò che c’era, e a tutt’oggi rimane un valido punto di riferimento – al netto delle poche parti invecchiate un po’ male – a cui è sempre piacevole ritornare, non foss’altro per la spavalderia dello stile espositivo.
E sul blog di Gamberetta è disponibile un bell’articolo, a tema scacchi e scrittura, che per me fu risolutivo per entrare nel giusto ordine di idee.
“Quale delle due posizioni, delle due ‘rappresentazioni’ è più bella, emozionante, interessante coinvolgente? Per chi sa giocare a scacchi non vi è dubbio: la seconda; L’Immortale non ha questo nome a caso: è una partita piena di genio e brillantezza, un’opera d’arte. Ma per le persone che non sanno giocare? Be’, penso più di uno rivolgerebbe la propria attenzione alla faccina sorridente. In fondo quella è una faccina sorridente, è “carina”, sotto invece ci sono solo pezzi messi a caso.
Tuttavia le due valutazioni non sono sullo stesso piano. La faccina è appunto solo carina, lascia il tempo che trova, non può certo competere con un vero dipinto, non credo susciti alcuna particolare emozione. L’Immortale invece mette i brividi. L’Immortale è una storia, una narrazione, è come assistere allo scontro fra Napoleone e il Duca di Wellington a Waterloo. In altre parole la bellezza della seconda posizione non è nella disposizione dei pezzi in sé, ma in quello che significano.
Lo stesso, né più né meno vale per la scrittura. Il piacere che nasce dalla disposizione delle parole in sé, dal “bello stile”, è vacuo, effimero, non può assolutamente competere con l’emozione che scaturisce dal significato delle parole.
Avrei potuto forse disporre i pezzi della faccina in maniera diversa, migliore, più attenta, e la faccina sarebbe risultata un tantino più carina. Ma ne sarebbe valsa la pena? No. Per quanto possa rendere carina la faccina, rimane sempre e solo una stupida faccina, non riuscirà mai a trascendere oltre, perché non c’è nient’altro oltre, non c’è alcun significato.
Si possono limare e ricamare le parole finché si vuole, e non c’è dubbio che questo possa migliorare la qualità di uno scritto, ma è un miglioramento minimo, superficiale, non è lì l’emozione, non è lì il significato, non è quello lo scopo della narrativa.
Ma non si potrebbe combinare il bello stile con il significato? La faccina non potrebbe essere bella in sé e in più essere la posizione in una partita? E la risposta è NO. Certo, in linea del tutto teorica, una posizione potrebbe essere sia esteticamente bella sia significativa per il gioco, ma la probabilità è microscopica. Soprattutto, tale posizione sarebbe frutto del caso, perché nessun giocatore che muove in base a canoni estetici arriva molto in là nel gioco.
Quando diciamo che un giocatore gioca ‘bene’ non ci riferiamo alla sua abilità nel creare diorami sulla scacchiera, bensì alla sua capacità di vincere le partite; ‘bene’ vuol dire ‘efficace’. Così è quando parlo di ‘bene’ riferito alla narrativa: è la capacità di riuscire a comunicare in maniera efficace una storia al lettore, indipendentemente dall’uso delle parole in sé.
Non ho nulla da aggiungere alle parole di Gamberetta, se non raccoglierne l’ovvia conclusione.
Ogni azione ha uno scopo, un obiettivo, e la qualità dell’azione si misura con la sua efficacia nel conseguirlo.
La narrativa scritta ha l’obiettivo di far vivere al lettore un’esperienza di vita ricca di significati e che sembri vera: il lettore deve poter dire, alla fine, io c’ero, io ero lì.
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