Modulo 24F – Analisi del film “Codice d’onore”


Istruzioni per l'uso

Devi aver visto il film e provato ad analizzarlo da solo, in autonomia.
 
Non puoi pensare di capire le mie spiegazioni, se non ti sei già impossessato per tuo conto – con la tua sensibilità – dell’oggetto che io sto analizzando ora.

Sembra un’ovvietà, ai limiti del banale, ma l’illusione di imparare senza impegno, di crescere sani e forti andando avanti a pappine liofilizzate per tutta la vita, di approfittare della fatica degli altri per trarre un vantaggio personale a costo zero, questa illusione, dicevo, ha un fascino e un’attrattiva che solo una consapevole azione di contrasto può rivelare per quel che è: un’illusione, appunto.
 
Te lo ripeto: devi aver visto e analizzato il film, altrimenti perdi solo tempo.


Mi riferirò alla versione del film disponibile su YouTube, per l’indicazione del minutaggio.

L’intero video ha una durata formale di 2 ore e 18 minuti. Il film vero e proprio inizia dopo 35 secondi, ma inizierò a contare dall’inizio (dal minuto 0.00.00) per indicare i passaggi nodali (altrimenti dovrei sottrarre 35 secondi ogni volta, creando una difficoltà inutile a chi volesse ripercorrere in autonomia i segmenti della storia).

Tendenzialmente, i personaggi principali saranno chiamati con i nomi degli attori che li interpretano, quindi il tenente Daniel Kaffee sarà Tom Cruise, il colonnello Nathan R. Jessep sarà Jack Nicholson, il capitano Jo Anne Galloway sarà Demi Moore, e così via; gli altri personaggi saranno indicati con etichette auto-esplicative; così evitiamo di impiccarci con nomi di cui potrebbe sfuggire il correlato personaggio.

La storia in un guscio di noce

Un giovane avvocato militare con la fama di patteggiatore – mai entrato in un tribunale per un dibattimento – si vede assegnare la difesa di due marines accusati dell’omicidio di un altro marines. Lavora come ha sempre fatto, cercando un patteggiamento massimamente favorevole, e riesce pure a ottenerlo: da una condanna formale a 20 anni, si passa a soli 6 mesi effettivi di carcere.

Ma i due imputati rifiutano la proposta: accettare il patteggiamento significherebbe dichiararsi colpevoli (e loro si ritengono invece innocenti, sebbene abbiano materialmente ucciso l’altro marines) e dichiararsi colpevoli significherebbe essere congedati con disonore dal corpo dei marines, e questo non possono proprio accettarlo.

L’avvocato valuta seriamente l’ipotesi di abbandonare la causa, ma una concomitanza di eventi lo indurrà a cambiare idea all’ultimo momento.

È l’inizio di un percorso di cambiamento individuale che culminerà in un esito impensabile: i due marines saranno riconosciuti innocenti – anche se non riusciranno a evitare l’espulsione – grazie a una scelta straordinariamente coraggiosa dell’avvocato e alla sua capacità di attuarla al meglio.

Perché "Codice d’onore" ?

Ho scelto Codice d’onore perché l’arco di trasformazione del personaggio è cristallino (e quindi didatticamente è un esempio di grande efficacia) ma al tempo stesso presenta alcune peculiarità (rispetto allo schema base) con conseguenze tecniche di un certo rilievo (in termini di sviluppo della storia e costruzione delle scene).
 

Prologo e flashback


Il film si apre con una scena (l’aggressione di due marines a un altro marines) che in scrittura equivarrebbe al prologo: un evento – di regola temporalmente antecedente alla presentazione dello status quo del protagonista – necessario a capire gli eventi successivi o comunque a darne la chiave di lettura.

Nel prologo – in scrittura – non si è obbligati a rispettare l’ancoraggio al protagonista, e può anzi essere una buona idea prestare il “Punto di Vista” a un altro personaggio, così da veicolare al lettore informazioni altrimenti inaccessibili. In un’ipotetica versione scritta di Codice d’Onore, quindi, si potrebbe creare un prologo consegnando temporaneamente il “Punto di Vista” a uno dei due marines aggressori, oppure al marines aggredito, in funzione di ciò che si vuol far sapere al lettore, e poi iniziare la narrazione vera e propria restituendo il “Punto di Vista” al protagonista (cioè a Tom Cruise). Quindi l’opera scritta non potrebbe iniziare come il film (dove il primo personaggio che vediamo è Demi Moore).

Lo spettatore del film capisce dove si trova grazie a un’indicazione esplicita che compare sullo schermo. Se fossimo in scrittura si tratterebbe di un riferimento extra-testuale, che non sarà un errore in senso formale, ma sicuramente denuncia tutta la pigrizia dell’autore, e non lascia sperare nulla di buono sulla qualità del resto. Nei film lo possiamo tollerare perché fruiamo l’opera “dall’esterno”, e a ogni modo il senso della vista ci supporta nell’intuire l’ambientazione militare (che la scritta in sovraimpressione qualifica nel dettaglio); ma in scrittura, nel mondo della pagina, è bene non farsi illusioni di questo tipo (il lettore non verrà trasportato a Guantánamo, in una base militare, solo perché tu scrivi “Guantánamo, Cuba, Base Navale degli Stati Uniti”).

Dal minuto 15.36 al minuto 21.27 assistiamo a ciò che in scrittura sarebbe un flashback (beneficiando dell’assenza del concetto di “Punto di Vista” nel media cinematografico).

Ci troviamo nell’ufficio di Jack Nicholson, col suo vice e un tenente che ha la responsabilità operativa del corpo dei marines.

La scena serve principalmente a informare lo spettatore sulla verità delle cose, a fargli capire che il protagonista (Tom Cruise) si troverà indiscutibilmente dalla parte della ragione, e l’antagonista (Jack Nicholson) dalla parte del torto: non è vero – come sosterrà l’antagonista per l’intera storia – che era già stato predisposto il trasferimento del soldato aggredito, e che dunque la sua morte è sì un evento tragico, ma fuori dal controllo di chi ha la responsabilità della base militare. Grazie a questa scena, lo spettatore viene a sapere che Tom Cruise lotterà per affermare quella verità che l’antagonista vuole invece occultare.

Ma la scena viene abilmente sfruttata per far passare anche un altro messaggio fondamentale, in accordo col principio per cui è bene progettare delle scene multi-obiettivo.

Tutta la difesa di Tom Cruise è impostata sulla tesi che i due marines stavano “semplicemente eseguendo un ordine”, in un ambiente – una base militare nei pressi di Cuba – dove l’esecuzione degli ordini è meccanica, automatica, acritica e indiscutibile. “Noi eseguiamo ordini, altrimenti la gente muore”, sentiremo dire a Jack Nicholson sul finale del film, al minuto 2.03.58 (e il modus operandi era già venuto fuori nella deposizione del responsabile operativo della base, al minuto 1.34.38, dove la trasgressione del più banale degli ordini veniva paragonato a “un crimine”).

Ma per quanto la logica militare possa essere nota allo spettatore, per quanto si possa sapere che l’ambiente militare è fatto di capi che danno ordini e di sottoposti che li eseguono senza discutere, rimane comunque complicato – per il senso comune – accettare che un ordine si possa davvero eseguire in maniera cieca, senza neanche farsi pungere dal dubbio di aver capito bene ciò che è stato ordinato.

Lo spettatore deve pertanto entrare in una logica che non gli è propria, e che non è facile da interiorizzare, o anche solo da capire nelle sue linee generali.

E qui vediamo il colpo di gran classe, proprio nel punto da cui ho fatto partire il video qui sotto.
 
 
Il vice di Jack Nicholson ha proposto di trasferire il soldato Santiago perché la situazione si è fatta problematica, e potrebbe subire ritorsioni da parte degli altri marines.

Jack Nicholson mostra la sua contrarietà con un atteggiamento sarcastico e provocatorio: “mi è venuta un’idea migliore: perché non trasferiamo l’intera base?

E la provocazione viene spinta sino al punto limite: Jack Nicholson chiama il soldato adibito a fargli da segretario e gli comanda di comunicare al Presidente degli Stati Uniti la decisione di abbandonare Guantánamo. E il soldato cosa fa? Risponde con un “Sissignore”, senza un fiato, senza neppure tradire un’espressione dubbiosa per un ordine obiettivamente irreale. Perché se mi è stato detto di comunicare al Presidente l’abbandono della postazione, io comunicherò l’abbandono della postazione al Presidente, punto.

E quando Jack Nicholson lo richiama l’istante dopo per impartirgli il contrordine, per dirgli di non chiamare nessuno, il soldato risponde con un altro asettico “Sissignore”, ancora una volta senza fiatare, senza chiedere spiegazioni o mostrare sorpresa per un atteggiamento che – al senso comune – apparirebbe schizofrenico.

È una dinamica straordinariamente elegante: in modo naturale e accattivante viene fatto capire come si ragiona in quell’ambiente, e far capire le situazioni di vita – di là dei giudizi di merito che se ne vorranno dare, ma che ci si dovrebbe astenere dal dare, se ci si vuol gustare l’opera – è l’obiettivo principale di ogni sceneggiatura.

Siamo in un ambiente dove una persona trova naturale dover comunicare al Presidente degli Stati Uniti lo smantellamento della base, quando fino a quel momento non aveva avuto il minimo sentore di un evento così estremo e inverosimile, e dove la stessa persona trova naturale vedersi contestualmente bloccata nell’esecuzione dell’ordine dallo stesso superiore che glielo ha impartito.
 
Siamo in un ambiente dove può effettivamente accadere di tutto, senza che nessuno batta ciglio o emetta un sospiro.

Che personaggio è Tom Cruise?

 
Tom Cruise è un giovane avvocato, e la professione di avvocato – lo notavamo nel modulo 23B – viene spesso usata per conferire al protagonista un’intonazione neutra: lo spettatore “tifa per Tom Cruise” – empatizza con lui – più che altro per riflesso, perché ha in carico il destino di due marines sostanzialmente innocenti.
 
Ne facciamo conoscenza – al minuto 7.58 – in una situazione massimamente lontana da quella in cui ci aspetteremmo di trovare un avvocato: è su campo da baseball, abbigliato da giocatore, e preoccupato di colpire bene le palle e vagamente infastidito dal non avere un valido sparring partner.
 
Ma nella stessa scena lo vediamo all’opera anche come avvocato, in modo tanto irrituale quanto brillante.

La presentazione di Tom Cruise.

Un ufficiale si presenta sul campo da baseball, parecchio scocciato perché lo aspettava nel suo ufficio per discutere della risoluzione di un caso disciplinare; la discussione avviene di fatto ai bordi del campo, in un modo che preannuncia tutto ciò che verrà dopo.
 
Tom Cruise negozia la posizione del suo assistito senza smettere di giocare a baseball, e riesce a derubricarla a una violazione irrilevante.

Lo spettatore apprezza il suo eloquio informale e scintillante (quando l’ufficiale si chiede “perché ti do retta?”, la replica “perché la tua saggezza travalica gli anni che hai” fa decisamente il suo effetto) che rappresenterà una caratteristica ricorrente durante la storia; ma soprattutto intuisce di avere a che fare con un abile patteggiatore (come sarà poi confermato) e quindi, in un colpo solo, sono state veicolate sia l’attitudine che la competenza del protagonista.
 
Sfrutto l’occasione per una precisazione sulle modalità di presentazione di un personaggio.

Sei stato diffidato – quando scrivi – dallo stilare la carta di identità del tuo protagonista (questa diffida – arrivato qui – dovrebbe apparirti ovvia, al limite del banale: tutte le informazioni fornite “dall’esterno” del mondo della pagina sono veicolate in modo sbagliato, per definizione). Ma nessuno ti vieta di immaginare delle situazioni “interne al mondo narrativo” – la pagina o lo schermo – dove uno dei personaggi si ritrova a dover buttar giù il curriculum vitae di un altro personaggio.

Questa situazione l’hai già vista in 60 crazie, quando il capo del protagonista lo presenta al Governatore (una situazione massimamente verosimile: il Governatore non può conoscere ogni singolo funzionario dell’istituzione di cui è a capo) e presentandolo al Governatore lo fa conoscere un po’ meglio anche al lettore.

In Codice d’onore si usa lo stesso espediente. Per due volte (al minuto 13.02 e al minuto 23.05) vediamo un personaggio (prima il collega di Tom Cruise, poi Demi Moore) buttare giù un affresco di Tom Cruise.

Trovi di seguito l’estratto in cui Demi Moore snocciola tutta una serie di informazioni su Tom Cruise, e ti invito a notare come il flusso informativo – sebbene si configuri formalmente come una carta d’identità – è interno alla scena, viene fornito come esito naturale di ciò che è avvenuto in scena sino a quel momento, è la naturale risposta di Demi Moore a Tom Cruise a seguito di uno scambio di battute che aveva proprio l’obiettivo di condurre a quel punto.
 
E ti invito a notare anche la conflittualità, una costante dei rapporti iniziali tra Tom Cruise e Demi Moore, e più in generale dell’intero film (perché una scena è un’unità di conflitto e – in senso inverso – una sequenza di azioni, percezioni, pensieri e dialoghi senza conflitto non è una scena).
 
I conflitti tra Tom Cruise e Demi Moore.

Per chiudere: Tom Cruise è un personaggio “neutro”; l’empatia verso di lui viene generata per riflesso, perché si ritrova tra le mani il destino di due marines che – come precisato dal flashback – sono semplicemente rimasti invischiati in un evento più grande di loro; Tom Cruise ci viene poi presentato come una figura dai comportamenti sui generis rispetto all’ambiente militare, ma proprio per ciò attira l’attenzione dello spettatore e incuriosisce; e comunque, al di là della forma, è un personaggio altamente competente, come dimostra il suo curriculum (fornito in modo naturale) e come ogni spettatore può vedere da sé (un fatto tanto più apprezzabile vista la sua giovane età e una laurea conseguita da appena due anni).

Ce n’è abbastanza per “tifare” per lui.
 

Il difetto fatale

“Lei è un tale vigliacco… non è possibile che le lascino portare quell’uniforme”
 
Il difetto fatale viene dichiarato al minuto 54.07: Tom Cruise è un vigliacco.

Dopodiché, capiamoci.

Cosa vuol dire “essere un vigliacco”? Come si manifesta la “vigliaccheria” di Tom Cruise? Fondamentalmente in un modo solo: nell’evitare sistematicamente il dibattimento in aula (un atteggiamento che per converso l’ha portato ad avere la fama di un eccellente patteggiatore, e quindi ciò che ora, nel “nuovo mondo” chiamiamo difetto fatale, era un ottimo sistema di sopravvivenza nel mondo ordinario).

Ma perché Tom Cruise è vigliacco? Perché evita sistematicamente di assumere la difesa di un imputato in un’aula di tribunale? Da dove nasce questa sua paura?

Rispondere a questa domanda – da dove proviene il difetto fatale?  – marca una differenza notevole tra un’opera eccellente e una normale.

Non si tratta – al solito – di costruire una biografia del protagonista, ma di piazzare poche pennellate ad arte all’interno della storia, per creare un minimo di contesto intorno al difetto fatale.
 
“Suo padre, Lionel Kafee, avvocato generale della Marina e procuratore federale, è morto nel 1985.
Lei ha fatto legge ad Harvard, e poi si è arruolato in Marina,
probabilmente perché era suo padre che voleva così”
 
 
 
“Ho avuto il piacere di incontrare suo padre, una volta: tenne una conferenza al mio liceo
 
 
 


“John… suo padre, a suo tempo, si fece un sacco di nemici proprio laggiù dalla tue parti.
Jafferson contro il distretto scolastico della Contea di Madison:
dicevano che una ragazzina negra non poteva frequentare una scuola di bianchi,
e Lionel Kafee disse: ‘beh, questo resta da vedere’…”
 
 
 
“Perché hai tanta paura di fare l’avvocato? Le aspettative del papà erano così soffocanti?”

 
 
 

“Ti ci hanno spinto di prepotenza in quell’aula, tutti quanti… cazzo!
Sei stato spinto in quell’aula dal ricordo di un avvocato morto”
 
 
 
“Io credo che mio padre sarebbe stato molto contento di vedermi prendere la laurea in giurisprudenza.
Sono convinto che gli sarebbe piaciuto molto”
 
 
 
“Ti ho mai detto che feci una tesina su tuo padre, all’università? È stato un vero principe del foro”


Direi che è tutto piuttosto chiaro, almeno per chi fruisce delle opere – film, serie tv, libri – con il cervello su “on”.

Abbiamo un protagonista tormentato in vario modo dalla figura del padre (una situazione tipica, che possiamo capire); e forse – come sostiene Demi Moore – il protagonista si è iscritto a giurisprudenza solo per far piacere al genitore, e non per reale interesse (e chissà che non sia proprio così, visto che lui stesso si consola pensando al piacere che il genitore avrebbe provato nel vederlo laureato); sicuramente, però, la sua auto-realizzazione l’ha trovata altrove, nei patteggiamenti e non nei dibattimenti (“oggi serviva un vero avvocato da tribunale”, gli sentiamo dire al minuto 1.45.07, nel mezzo dell’esperienza di morte).

Ecco da cosa nasce la sua vigliaccheria: dal ricordo di un eccellente avvocato morto, di suo padre, che lo condiziona nel pensare e nell’agire.

Dovrà sottrarsi da quest’ombra che lo segue ovunque, o quanto meno riconsegnarle la sua giusta dimensione, se vorrà affermare la verità e trarre in salvo i due marines. Dipende solo da lui, dalla sua capacità di non temere più il confronto col padre, e l’esperienza di morte metterà la sua “vigliaccheria” davanti alla prova più sfidante, quella che richiede la massima dose di coraggio: chiamare Jack Nicholson a deporre, per fargli confessare di esser stato lui a ordinare il “codice rosso”.
 
La rimozione del difetto fatale dipende solo da lui.
 
Tom Cruise: “Tu chiameresti Jessep a deporre?” 
Collega avvocato: “Io no” 
Tom Cruise: “Secondo te, mio padre l’avrebbe fatto?” 
Collega avvocato: “Con le prove che abbiamo, neanche costretto con la forza.
Ma il punto è questo, e non c’è modo di eludere il problema:
né io né tuo padre siamo a capo del collegio di difesa
nel processo degli Stati Uniti contro Dawson e Downey.
Quindi tutto si riduce a una sola domanda: tu, cosa faresti?”
 

La posta in gioco

“Io voglio la verità!”
 
Nell’interrogatorio finale di Tom Cruise a Jack Nicholson viene dichiarato esplicitamente l’obiettivo da raggiungere – la verità – ma non serve certo arrivare alla fine per capirlo; è chiaro già nel momento in cui Tom Cruise dichiara “innocenti” i due marines (minuto 58.05); da lì in poi – è ovvio – bisognerà lottare per affermare una verità che l’antagonista vuol tenere nascosta.

Ma la verità in sé non è – non può essere – la posta in gioco di Tom Cruise, perché, banalmente, la verità non corrisponde a nessun livello o gradino della piramide di Maslow. Bisogna mettere la verità in prospettiva, capire cosa rappresenta questa verità per Tom Cruise, cos’è che Tom Cruise perderebbe se non riuscisse ad affermare la verità.
 
In linea di principio, è rilevante solo il significato attribuitole da Tom Cruise (il protagonista della storia) ma sarà utile allargare la visuale per capire come uno stesso fatto oggettivo – portare alla luce la dinamica degli eventi che hanno condotto alla morte di un marines – assuma significati valoriali differenti a seconda dei filtri a cui viene sottoposto.
 

L'importanza della verità, nella prospettiva dei due marines

I due marines appartengono – tautologicamente – al corpo dei marines, e l’imputazione non li ha privati del loro status; sono sotto processo, è vero, ma sono ancora due marines degli Stati Uniti d’America, e questo, per loro, è tutto ciò che conta.

Chi li osserva dall’esterno – chi non è un marines – può pensare che il loro sia solo un lavoro come un altro: c’è chi fa il pasticcere, chi l’impiegato di banca e chi il marines.

Ma per chi ci si trova dentro – per i marines – si tratta di una professione che crea uno speciale senso di appartenenza, impossibile da riscontrare altrove.

I due marines sotto processo – sentiamo dire da uno dei due, al minuto 28.21 – volevano solo addestrare il loro compagno “a pensare al Reparto prima che a sé stesso, a rispettare il codice”, e il codice da rispettare è nella gerarchia “Reparto, Corpo, Dio, Patria”, con la Patria – ti prego di notarlo – collocata più in alto di Dio.

Più in generale, si è alla presenza di un trittico di concetti militari (Reparto-Corpo-Patria) incastonato in una sfera valoriale a cui appartiene Dio, in una visione della realta che tornerà altre due volte: al minuto 39.35 (“Comandante, io credo in Dio Padre e in Suo Figlio Gesù Cristo… il soldato Santiago è morto perché non aveva un codice di condotta, è morto perché non aveva onore. E Dio lo vedeva”) e al minuto 1.32.34 (“Io ho due libri vicino al mio letto, tenente: il regolamento dei marines e la Sacra Bibbia, le uniche autorità che riconosco sono il mio ufficiale in comando, colonnello Nathan Jessep, e Nostro Signore Iddio”, con i riferimenti militariancora una volta anteposti a quelli religiosi).
 
Appartenere al corpo dei marines – per i marines – è una situazione che come minimo insiste sul gradino “amore e appartenenza” della piramide di Maslow (e precisamente su un senso di appartenenza difficilmente eguagliabile), ma che verosimilmente tocca corde ancor più sensibili, trasmette la convinzione di essere una persona straordinaria, “auto-realizzata”.
 
Qualunque sia la chiave di lettura – “appartenenza” o “auto-realizzazione” – siamo comunque parecchio in alto nella scala dei bisogni, e l’occasione è favorevole per riprendere un argomento già discusso – prima nel modulo 18A, poi nel modulo 23B – per vederlo nuovamente all’opera: la piramide si costruisce uno strato dopo l’altro, secondo una stretta gradualità (prima di tutto ti garantirai la sopravvivenza e i bisogni primari, poi penserai a raggiungere un livello sufficiente di sicurezza, quindi ti dedicherai a costruire la tua sfera affettiva, per passare dopo ai riconoscimenti sociali e infine all’autorealizzazione) ma non si smonta in modo speculare.

Quando ti trovi su uno strato elevato della piramide – com’è il caso dei due marines – sei disposto a rischiare anche le più elementari situazioni di sicurezza, pur di preservare ciò che possiedi.
 
Il marines “più sveglio” lo precisa in modo inequivocabile.
     
“Ci siamo arruolati nei marines perché volevamo vivere secondo un certo codice,
e nel Corpo lo abbiamo trovato. 
Ora ci chiede di firmare un pezzo di carta che ci dice che siamo senza onore,
ci chiede di dire che non siamo dei marines!
Se la Corte decide che abbiamo sbagliato, allora accetterò la punizione che mi daranno,
ma io sono convinto che ero nel giusto, signore, ritengo di aver fatto il mio dovere,
e non disonorerò mai me stesso, il Reparto o il Corpo,
per potermene andare a casa entro sei mesi… signore!”
 
Ai due marines non importa nulla di potersene “andare a casa entro sei mesi” grazie all’abile patteggiamento di Tom Cruise; vogliono affrontare il processo col rischio di perdere tutto – sia l’appartenenza ai marines che la loro libertà individuale – ma non saranno certo loro a dichiararsi colpevoli, e quindi ad auto-escludersi dal corpo dei marines (vedendo sgretolarsi sotto i piedi il gradino della piramide su cui si trovano) solo per preservare la libertà individuale (vale a dire la perfetta stabilità di un gradino più basso).

“Sono disposto a perdere tutto, pur di salvare quel che posseggo” potrebbe essere la divisa mentale con cui caratterizzare la decostruzione della piramide di Maslow.
 

L'importanza della verità per i due marines, filtrata da Tom Cruise

Per Tom Cruise – come per la stragrande maggioranza degli spettatori – i discorsi dei due marines sono pura follia.

Lo si intuisce sin dalle battute iniziali, e il primo tratto dei rapporti tra Tom Cruise e i due imputati sarà manifestamente segnato da un’incomprensione apparentemente irrisolvibile. A ogni modo – a prova di scemo – si è scelto di comunicare lo stato d’animo di Tom Cruise in modo esplicito, con una battuta di dialogo durante un incontro – a un pub – con l’avvocato dell’accusa. 

Anzi, si è fatto di più: sin da principio si è comunicata l’estraneità di tutti i personaggi alla logica dei marines, anche delle figure più ortodosse e convenzionali.
 
“Credevo che queste stronzate del codice rosso fossero finite”
 
 
 
“Dica al suo amico di non fare lo spiritoso laggiù:
i marines di Guantánamo sono dei fanatici… fanatici di essere marines”



“Hanno massacrato un debole, ecco che hanno fatto.
Insomma, tutto il resto della causa sono chiacchiere fumose da caffè.
Hanno torturato e perseguitato un ragazzo più debole.
Gli stava antipatico, e l’hanno ammazzato.
E perché? Perché non riusciva a correre più veloce”
 


Tom Cruise: “E io voglio dirti che voi marines siete una manica di matti da legare,
e che questo vostro codice d’onore mi fa incazzare da morire”
Pubblico Ministero: “Non ti permetto di accomunarmi a Jessep e Kendrick
solo perché portiamo la stessa uniforme”

A Tom Cruise – come a tutti i personaggi che lo circondando e alla stragrande maggioranza degli spettatori – non importa nulla se i due marines saranno congedati con disonore; a Tom Cruise – e alla stragrande maggioranza degli spettatori – sta a cuore che i due marines non trascorrano gran parte della vita in galera.
 
Il ruolo della verità – visto dall’angolo visuale di Tom Cruise, con riguardo alle sorti dei marines – è nell’assicurare ai personaggi (ai due marines imputati) il gradino della “sicurezza”.
 

L'importanza della verità per Tom Cruise

E siamo alla posta in gioco vera e propria, al significato che Tom Cruise attribuisce alla verità (riguardo al caso giudiziario che gli è stato affidato e di cui è responsabile), a ciò che Tom Cruise perderebbe se si tirasse indietro dalla storia (se affidasse la causa ad un altro avvocato) o se ne uscisse sconfitto (se i due marines fossero dichiarati colpevoli di omicidio).

Affermare la verità – in un caso così complesso, con tutte le probabilità contrarie – significa dimostrare di essere un vero avvocato, emanciparsi dall’ingombrante figura paterna e portare in salvo la propria auto-realizzazione.

Tutti – intorno a Tom Cruise – pensano che lui sia un avvocato eccellente, e non mancano di manifestargli la loro ammirazione.
 
“Per me, tu sei un avvocato straordinario.
Quando guardo i giurati, vedo che pendono dalle tue labbra, che gli piaci;
vedo che riesci a convincerli e penso che Dawson e Downey dovranno solo a te la loro vita”
 
 
 
“Se io fossi 
Dawson e Downey,
e potessi scegliere tra te e tuo padre per difendermi in questo processo,
sceglierei te tutti i giorni feriali e due volte la domenica.
Avresti dovuto vederti in aula, tuonare contro Kendrick”
 
Ora Tom Cruise deve solo dimostrare a tutti – e in primis a sé stesso – che l’alta considerazione di cui gode presso gli altri è lo specchio fedele del suo reale valore.
 

L'arco di trasformazione

L’arco di trasformazione di Tom Cruise ha le sue particolarità: il momento determinante arriva prima della vera e propria chiamata all’azione, e l’accettazione della chiamata – per come è impostata la storia – diventa un tutt’uno col midpoint.

Ne seguono conseguenze non banali sullo sviluppo del Secondo Atto, e in particolare sulla (bassa) intensità del triplice conflitto.
 
Il fatto che il film sia piaciuto a un pubblico così vasto, al punto da diventare un cult, conferma che l’appiattimento dell’arco può essere compensato da altre variabili – attrazione verso gli attori, abilità di recitazione o di doppiaggio, musiche e colonne sonore, scenografie, effetti speciali – che però sono assenti nel mondo della pagina, e nel quale, quindi, è bene preservare sempre la curvatura naturale.
 

Prologo

Le due scene iniziali (dal minuto 0 al minuto 2.05 e dal minuto 2.06 sino al minuto 7.58) rappresentano un prologo alla storia: si mostra l’evento su cui si appunterà l’intera vicenda e si fa conoscenza di un personaggio (Demi Moore) che avrà un ruolo fondamentale nell’indirizzarla.

Ti invito a notare la presenza del conflitto in entrambe le situazioni: abbiamo un conflitto fisico nella scena iniziale (su cui non serve aggiungere altro) e un conflitto professionale nella scena successiva per l’assegnazione del caso (Demi Moore vorrebbe essere a capo del collegio di difesa, laddove i suoi superiori la ritengono “tutta passione, ma non abbastanza carogna”).
 
Osserva, in particolare, la presenza del conflitto anche nelle dinamiche più semplici.

Capo: “Non vuole sedersi?” 
Demi Moore: “Sto bene così, signore”
Capo: “Si sieda”
Demi Moore: “D’accordo…”
 
 
 
Capo: “Perché non si va a prendere una tazza di caffè?” 
Demi Moore: “Grazie signore, ma non è necessario”
Capo: “Vorrei che lasciasse la stanza per consentirci di sparlare di lei”
Demi Moore: “Agli ordini, comandante”

 

Status quo

Lo status quo è rapidissimo: dal minuto 7.58 al minuto 9.37.
 
Viene presentato il protagonista (Tom Cruise) in tutti e soli i suoi aspetti rilevanti ai fini della storia: è un avvocato, è un abile patteggiatore ed è decisamente unconventional (una caratteristica tanto più evidente se si tiene conto della rigidità dell’ambiente militare).
 
L’avvocato Tom Cruise mentre patteggia – su un campo da baseball – la posizione di un assistito:
riuscirà – tra una mazzata e l’altra – a fargli dare il minimo della pena.
 
Vediamo da subito un personaggio piuttosto singolare, su cui in seguito saranno caricati ulteriori elementi peculiari, coerenti con la presentazione iniziale. Solo per citarne alcuni:
  • arriva in (lieve) ritardo alla riunione con gli altri avvocati dell’ufficio e si becca un rimprovero (bonario) dal suo capo; ha difficoltà a seguire la riunione (perché non sa cos’è “la rete metallica”); non ha neppure una penna per segnare ciò che il capo gli dice, e non dissimula la sua insofferenza per dover prendere un areo alle 6 del mattino (dal minuto 9.54 al minuto 11.42);
  • si presenta nell’ufficio di Demi Moore mangiando una mela (e buona parte della conversazione la svolge masticandola); non ha idea di chi sia Jack Nicholson (il Colonnello Jessep, di cui parlano tutti i giornali); non ha neppure chiaro chi sia Santiago (il soldato ucciso) e non mostra nessun riguardo per il protocollo militare (dal minuto 11.46 al minuto 15.35);
  • ha paura di volare (minuto 34.01) e soffre addirittura il mal di mare (minuto 35.49).
Il quadretto si conclude con la battuta di Demi Moore, agganciata proprio al mal di mare, che di fatto riassume l’intero personaggio: “Insomma, santo cielo Kafee, lei è un ufficiale di Marina: glielo ha mai detto nessuno?

Osserva però come tutte le “stranezze” di Tom Cruise siano state ben calibrate e distribuite ad arte, per incuriosire e far amare il personaggio, senza mai pregiudicarne la competenza (ribadita anzi a più riprese) e senza mai trasformarlo in una macchietta.
 

Incidente scatenante

Sembra che tu stia facendo carriera: sei richiesto dalla Divisione
 
L’incidente scatenante  va dal minuto 10.02 al minuto 11.41: a Tom Cruise viene assegnato il caso dei due marines accusati di omicidio.

Per lui, per Tom Cruise, è un caso come un altro, forse un filo più complicato visto che c’è di mezzo un morto, ma nella sua percezione si tratterà solo di replicare uno schema già noto e perfettamente rodato: il patteggiamento.

Per togliere ogni dubbio – a prova di scemo – il mood generale è dichiarato in una battuta di dialogo: “Ma che farò? Kafee se la sbrigherà più o meno in quattro giorni”, sentiamo dire all’avvocato a cui è stato assegnato il compito di affiancare Tom Cruise (e la percezione diffusa di una causa risolvibile in poco tempo era già stata data nella scena iniziale con Demi Moore, quando il suo capo parla di “una storia che si ridurrà a cinque minuti di patteggiamento e a una settimana in mezzo alle scartoffie”).
 
Nessuno, in quel momento, può immaginare ciò che li attende. Men che meno Tom Cruise, il protagonista.
  

Momento determinante

“Lei è un tale vigliacco… non è possibile che le lascino portare quell’uniforme” 
 
Il film si caratterizza per una dichiarazione del difetto fatale che anticipa la chiamata all’azione. Al minuto 54.07 veniamo a sapere qual è il conflitto interno a Tom Cruise: la paura.

Sostenere una difesa probabilmente perdente – per lui che non è mai entrato in un tribunale –  quando è riuscito a derubricare l’omicidio a un reato da scontare con 6 mesi effettivi di carcere – “una stagione di hockey”, come dice a uno dei due marines sotto processo – è una prospettiva che lo terrorizza.
 
Il fatto è che al momento Tom Cruise non ha nessun obbligo ad agire, e quindi la sua paura – per quel che ne sappiamo – non è un problema: può chiamarsi fuori dalla storia senza avvertire nessun senso di colpa, senza sentire di aver “perso qualcosa” (la posta in gioco) per il suo rifiuto.
 
“Io non mi sentirò mai responsabile del tuo destino, ho fatto quello che potevo.
Passerai in prigione la maggior parte della tua vita, e ti dirò di più: non me ne frega un cazzo!”
 
 
 
“È incredibile, non è possibile! Vuole andare in galera solo per farmi un dispetto. Magnifico!
Se vuole buttarsi in un burrone, affari suoi. Ma non voglio essere io ad accompagnarlo fino al fondo.
Voglio trovargli un altro avvocato”
 
Ti senti di biasimare Tom Cruise? Se Tom Cruise abbandonasse il caso – ora, in questo momento – non saresti forse dalla sua parte? È vero, o no, che anche tu la pensi come lui?

Tom Cruise ha realizzato un miracolo (una condanna effettiva a soli 6 mesi – una stagione di hockey – per l’omicidio di un marines) e tuttavia gli imputati hanno scelto di infilarsi in una causa perdente in partenza, che con ogni probabilità li porterà a trascorrere gran parte della loro vita in carcere. E sia, se questa è la loro decisione, la scelta dei due marines.
 
Ma Tom Cruise – a questo punto – che c’entra? Può tranquillamente chiamarsi fuori, sentirsi a posto con la sua coscienza, e riscuotere l’approvazione di ogni spettatore, come viene peraltro comunicato espressamente all’interno dell’opera.

“… se si andrà al processo, io dovrò andare fino in fondo.
Si prenderanno tutto il pacco regalo: omicidio, associazione a delinquere e condotta disdicevole.
E anche se ora mi tiene per le palle, Denny sa che in tribunale questa causa la perde.
Denny è un avvocato straordinario
e non ci tiene che i suoi clienti si prendano una condanna a vita,
sapendo che possono cavarsela in 6 mesi”

Questa inversione – la dichiarazione del difetto fatale collocata prima della chiamata all’azione – non è un errore in senso proprio, perché ogni storia deve fluire con i suoi tempi e i suoi ritmi, e può ben accadere che vi siano degli sfasamenti rispetto a quanto prescritto dalla teoria, senza che in ciò si debba necessariamente registrare uno sbaglio. Sarebbe anzi un errore – un grave errore, lasciami dire – violare la fisiologia degli eventi solo per forzarla in uno schema predefinito. Quindi va bene così, ché in fondo gli schemi teorici servono a dare un riferimento, uno standard, per avere consapevolezza di ciò che si sta facendo e del perché lo si sta facendo.
 
Rimane un (piccolo) prezzo da pagare: un (lieve, momentaneo) allontanamento dello spettatore dalla storia, l’insinuarsi del pensiero “ma sì, mandali pure a fanculo questi marines del cazzo!”, che è straniante rispetto alla vicenda (perché la storia non parla della sorte dei marines, ma del cambiamento che Tom Cruise dovrà intraprendere per difenderli).
 

Chiamata all'azione, Primo punto di svolta e Midpoint

“Voglio che tu gli lasci avere un processo,
voglio che tu vada in tribunale e abbozzi una linea di difesa…
Un altro avvocato non gli servirà a niente, hanno bisogno di te: tu sai come vincere”  

Dal minuto 54.40 al minuto 59.31 assistiamo – in una sequenza serrata – alla chiamata all’azione, all’accettazione della chiamata, alla comprensione della posta in gioco e addirittura al midpoint.
 
Ci può stare che due punti nodali di uno stesso Atto finiscano col collassare in un’unica scena (o trovarsi comunque estremamente ravvicinati) ma è obiettivamente anomalo trovare eventi di Atti diversi concentrati in un unico passaggio.

Procediamo quindi step-by-step, per capire come sia possibile questa insolita rapidità di esecuzione.
 
Tom Cruise viene presentato – nello status quo – come un abile patteggiatore; per quanto il caso sia banale (un militare accusato di possesso di marijuana, che in realtà era origano) ne apprezziamo le doti di negoziatore, così come l’eloquio e la tranquillità, e ovviamente il risultato finale (il minimo della pena).

Il suo curriculum da patteggiatore viene poi mostrato nella scena in cui incontra Demi Moore per la prima volta. Il collega che lo assiste ricorda che “ha felicemente concluso per patteggiamento 44 cause in 9 mesi”, e alla domanda di Demi Moore se sia mai entrato in tribunale, Tom Cruise risponde – con la sua simpatica strafottenza – “una volta mi hanno sospeso la patente” (minuto 13.05 e seguenti).

E proprio nell’ufficio di Demi Moore lo si vede configurare l’ennesimo patteggiamento.
 
Tom Cruise: “Dodici anni”
Demi Moore: “Come, prego?”
Tom Cruise: “Farò derubricare l’associazione a delinquere e la condotta disdicevole: dodici anni”
Demi Moore: “Non ha ancora parlato con un teste né esaminato un fascicolo”
Tom Cruise: “Piuttosto in gamba, eh?”
 
Lo vediamo ancora negoziare con successo, in via informale, col pubblico ministero (dal minuto 29.43 al minuto 30.53): l’accusa propone una condanna ufficiale a 20 anni, col patto implicito di rimandarli a casa dopo 12 anni, ma Tom Cruise vuole una pena formale direttamente di 12 anni, così da poterla ribassare ulteriormente; i due avvocati discutono un po’, ognuno resta arroccato sulle sue pretese, ma quando Tom Cruise tira fuori l’eventualità di un “codice rosso”, ecco che il pubblico ministero indietreggia e accorda i 12 anni richiesti, pur di chiuderla lì.

Assistiamo a un’altra negoziazione col pubblico ministero (dal minuto 49.21 al minuto 50.59) in una situazione diventata massimamente favorevole a Tom Cruise, grazie alle informazioni che sono venute fuori nel frattempo, e il nostro protagonista  riesce a strappare una pena effettiva davvero minimale (6 mesi).

Com’è possibile, dunque, che si sia arrivati al processo? Cos’è che ha fatto cambiare idea a Tom Cruise? Perché Tom Cruise ha deciso di affrontare l’avventura?

Il fatto è che in un flusso di eventi apparentemente monocorde – che confermano la competenza di Tom Cruise, la sua abilità nel patteggiare – sono stati sparpagliati dei momenti di segno contrario.

Dal minuto 32.44 al minuto 34.51 assistiamo a un dialogo tra Tom Cruise e l’altro avvocato del collegio di difesa. Tom Cruise gli manifesta la sua intenzione di accettare la controproposta dell’accusa (condanna formale a 12 anni) e il collega lo conferma nella correttezza della decisione (“accetta i 12 anni: è un regalo”); ma lo stesso Tom Cruise è sorpreso dalla rapidità con cui il pubblico ministero ha accolto la sua richiesta, e non si spiega come mai – durante la negoziazione – gli siano state fornite informazioni su alcune figure militari di cui lui ignorava l’esistenza e che non riesce a collegare all’evento in discussione.

Pure, nella seconda negoziazione con l’accusa (quella in cui strappa una pena effettiva di 6 mesi) è presente anche Demi Moore, che prospetta la possibilità di spingersi oltre, di andare a processo per avere una sentenza di non colpevolezza.

C’è poi la mitica scena del pranzo a Cuba – seconda sola alla scena finale – in cui Tom Cruise chiede di avere l’ordine di trasferimento del soldato Santiago, il cui scopo implicito – come chiarirà Demi Moore durante l’esperienza di morte – era testare la reazione emotiva di Jack Nicholson.

Insomma, qua e là, di quando in quando, fa capolino l’eventualità di andare a processo, anche se poi ogni volta la cosa sembra morire lì.

Fino ad arrivare al minuto 54.42 (e seguenti).

Tom Cruise è riuscito a strappare un risultato insperato (solo 6 mesi di pena, sebbene ci sia in ballo la morte di un marines) e tuttavia i due imputati respingono la proposta, vogliono dichiararsi innocenti e andare a processo; Tom Cruise si sfoga col suo collegio di difesa e dichiara di volersi chiamare fuori (“avranno il loro processo, ma lo avranno con un altro avvocato”).
 
E qui entra in gioco Demi Moore, con una studiata alternanza di elogi misurati e critiche aspre, fino a un’aggressione esplicita.

Fa presente a Tom Cruise che lui è un avvocato eccellente, che i due marines hanno bisogno di lui, proprio di lui, perché solo lui può trarli in salvo, e gli fa notare che nel corso di quella stessa discussione, senza neppure accorgersene, ha sostenuto un avvio di difesa degli imputati. Ma di quando in quando cambia registro, gli evoca il suo timore del confronto con il padre, per schiaffargli infine in faccia la realtà più brutale, a onta di tutti i suoi successi nei patteggiamenti.
 
Tom Cruise: “Io conosco la legge!”
Demi Moore: “Tu non sai un bel niente della legge.
Tu sei un rivenditore di auto usate, un avvocato da pollaio, un mozzorecchi gallonato.
Non sei nessuno. Abituati all’idea”
 
La scena successiva è decisiva: vediamo Tom Cruise in un pub, da solo, appoggiato sul bancone, con una birra davanti; accanto a lui c’è una coppia di avvocati – un uomo e una donna – che si stanno raccontando le loro ultime avventure giudiziarie; e ciò che si dicono è il trigger che avvia la messa in ordine di un flusso di eventi sino ad allora caotico.
 
L’avvocato al pub usa la stessa espressione impiegata da Tom Cruise per liquidare il suo collega nello status quo (“e tu perderai la vista sulle scartoffie…”) e il cerchio si chiude. 
 
Tom Cruise [minuto 9.16]:
“… e tu passerai tre mesi a perdere la vista sulle scartoffie
solo perché un sottocapo segnalatore si è fumato un etto di origano”
 
 
 
Avvocato al pub [minuto 56.36]:
“Così ho detto: se porti questo caso in aula
mi costringi a presentare almeno nove diverse istanze di esibizione delle prove,
e tu passerai un anno a perdere la vista sulle scartoffie
solo perché un vecchietto di novant’anni ha male interpretato la legge assicurativa
  
Chi è Tom Cruise, alla fine dei giochi?

È solo “un avvocato da pollaio”, come gli ha rinfacciato Demi Moore? Sì e no. Tom Cruise è di per sé un grande avvocato, che però ha scelto – volontariamente – di ridursi a “un rivenditore di auto usate”, a una figura mediocre che conquista successi a forza di espressioni stereotipate (“e tu perderai la vista sulle scartoffie”); le 44 cause “felicemente concluse” per patteggiamento sono i miseri successi di “un mozzorecchi gallonato”, espressione di mediocrità, e non di quella bravura che pure possiede.

E sì che basterebbe poco per “essere quello che si è” e accettare la sfida.

Tom Cruise  –  con uno sforzo tutto sommato ordinario  –  è riuscito a passare da una condanna formale di 20 anni a una pena sostanziale di soli 6 mesi. L’accusa – una volta caduta la sua facciata di severità – sembra davvero disposta a concedere ogni cosa, pur di non andare a processo. Forse, di là delle apparenze, la prospettiva di entrare in tribunale è di gran lunga più inquietante per l’accusa che non per la difesa. Ad aver paura del processo devono essere gli altri, non Tom Cruise.

Sono questi – con ogni probabilità – i pensieri del Tom Cruise solitario, mentre fissa la città di notte (minuto 56.54).

Tom Cruise da solo, pensieroso, dopo tutto quel che è successo.

E nella scena successiva – in tribunale – Tom Cruise sorprende tutti: dichiara innocenti i suoi assistiti e dà ordini precisi agli altri due membri del collegio di difesa su come organizzare i lavori.

Si entra nell’avventura, nel “nuovo mondo”, il mondo sconosciuto, il mondo del dibattimento in aula: “quindi è così che è fatta un’aula di tribunale” è la battuta che suggella il cambio di mentalità, e che rappresenta non solo l’accettazione della chiamata all’azione, ma anche il midpoint, in una scansione degli eventi sicuramente singolare, rispetto allo schema teorico.

Il personaggio, di regola, accetta la chiamata all’azione per trarre in salvo la posta in gioco, ma lo fa nell’errata convinzione che non avrà problemi a conseguire l’obiettivo; perché non sa  ancora di avere un difetto fatale che gli sarà d’ostacolo; e la prima parte del Secondo Atto  (la fase ascendente dell’arco) è interamente dedicata a questa presa di consapevolezza, a prezzo di decisioni sbagliate, sin quando non si raggiungerà il midpoint, dove avverrà l’inversione di valori (nella scansione classica degli archi eroici).

Qui abbiamo una variante: l’accettazione della chiamata – per come è congegnata la storia – è un tutt’uno col midpoint, perché un patteggiatore seriale non può accettare di andare a processo se prima non si è prodotta in lui un’inversione di valori. Posso pure essere un patteggiatore di natura, ma se decido di accettare il dibattimento in aula, allora – per coerenza – non posso certo illudermi di affrontarlo con la mentalità del patteggiatore: il mio sistema valoriale deve cambiare radicalmente, se voglio avere una chance si successo.

Anche la posta in gioco è chiara, arrivati qui: abbiamo già avuto diversi richiami al padre di Tom Cruise (minuti, 23.15, 36.47, 55.35) e l’ultimo, in particolare, è ravvicinato ed esplicito (“Perché hai così paura di fare l’avvocato? Le aspettative del papà erano così soffocanti?”).

Tom Cruise difenderà i due marines per salvarli da una detenzione ingiusta, ma salvare i due marines significa salvare sé stesso dall’ingombrante figura paterna, portare in salvo la propria considerazione di sé, sino a quel momento presente, anche se latente, e che sarebbe stata persa in caso di rifiuto, e  comunque ancora minacciata da un’eventuale sconfitta in tribunale. 

Il triplice conflitto

Il collasso del midpoint sulla chiamata all’azione ha conseguenze rilevanti per lo sviluppo della storia.

Il midpoint è il momento in cui saltano parecchi strati di difetto fatale, e il personaggio può così cominciare a vincere, e più in generale a vivere col giusto spirito tutto ciò che gli capita nella seconda metà del Secondo Atto (nella fase discendente dall’arco).

Ma se il difetto fatale è stato in gran parte rimosso in concomitanza con la chiamata all’azione, allora – per coerenza – bisognerà vedere un personaggio sostanzialmente vittorioso già nella prima metà del Secondo Atto (nella fase ascendente dell’arco). E infatti è proprio così.

Tom Cruise non riuscirà a mettere kappaò il pubblico ministero (e quindi a far crollare l’antagonista) ma ogni dibattimento in aula si concluderà invariabilmente con una sua vittoria ai punti, con una difesa che darà sempre la chiara sensazione di aver performato meglio dell’accusa.
 
Questa è una delle scene più celebri, in cui la linea argomentativa di Tom Cruise trova persino il compiacimento del pubblico ministero (manifestato con un malcelato sorrisetto di approvazione).
 
 
Ma voglio portare la tua attenzione anche sulla scena che va dal minuto 1.13.05 al minuto 1.16.39, poco citata perché meno scintillante, e tuttavia tecnicamente più rilevante.

Al banco dei testimoni siede il medico della base militare, e Tom Cruise lo mette all’angolo con una strategia d’attacco raffinata, apparentemente innocua, e alla fine risolutiva per far luce sui reali motivi della morte del marines: qui capiamo che lo straccio infilatogli in bocca lo ha ucciso non già perché avvelenato, ma perché il marines soffriva di una patologia che non era stata individuata dal medico.
 
Quindi i due imputati sono “doppiamene innocenti”: sono innocenti perché stavano eseguendo un ordine, in un ambiente in cui l’esecuzione meccanica degli ordini è uno standard indiscutibile; e sono innocenti perché il marines è deceduto per ragioni che oltrepassano un semplice straccio infilato in bocca. I due imputati sono rimasti vittime dell’esaltazione di alcuni (Jack Nicholson che aveva comandato il “codice rosso”) e della negligenza di altri (il medico che non aveva intercettato la patologia).

Un midpoint coincidente con la chiamata all’azione presenta però un inconveniente: l’attenuazione del triplice conflitto.

Ovvio, se ripensi al modulo 23C: la presenza di un conflitto interno (difetto fatale) produce sconfitte nel conflitto esterno (la sfida in cui è impegnato il protagonista) che a sua volta induce un conflitto di relazione (con i personaggi che a vario titolo interagiscono col protagonista) il quale si riverbera sul conflitto esterno (rispetto al quale il protagonista si ritrova isolato, non potendo beneficiare del contributo dei suoi alleati) e via così in una spirale di negatività destinata ad auto-perpetuarsi, finché non si agirà sul punto di innesco dell’intero meccanismo, sul conflitto interno, sul difetto fatale.

Ma se il difetto fatale è stato in gran parte rimosso già alla chiamata all’azione, allora viene meno (o comunque si attenua) la sorgente da cui tutto sgorga, e infatti il triplice conflitto è di fatto assente: non c’è un’articolata conflittualità interna alla storia, e le situazioni di contrasto sono per lo più estemporanee.

Vediamo ad esempio una ricorrente contrapposizione di vedute tra Demi Moore e il collega di Tom Cruise – la prima convinta della sostanziale innocenza degli imputati, il secondo invece persuaso dell’opposto – che occasionalmente è motivo di tensioni; vediamo il collega di Tom Cruise volersi tirare fuori (ma subito persuaso da Tom Cruise a rimanere); vediamo Demi Moore commettere un errore pacchiano in tribunale, e vediamo la conseguente presa in giro del collega di Tom Cruise (ma vediamo anche Tom Cruise mettere subito pace tra i due); e vediamo Tom Cruise a tratti sfiduciato sull’esito finale della causa (ma sempre di umore complessivamente alto).

Tutto qui, anche perché di più – viste le premesse – sarebbe stato difficile fare.

Le fasi del processo, a ogni modo, si seguono con interesse e curiosità, ma più per le qualità specifiche degli interpreti e delle potenzialità del particolare media utilizzato (il cinema), che non per le caratteristiche intrinseche alla storia.
 
Sicuramente, però, abbiamo modo di apprezzare il rigore argomentativo di Tom Cruise, il suo saper procedere dalle premesse alle conclusioni attraverso uno svolgimento perfettamente logico. È una costante del suo agire in tribunale, una sua qualità che si rivelerà determinante nel climax, e che giustamente è stata mostrata ogni volta che se ne aveva occasione, così da rendere massimamente plausibile il finale.
 

Esperienza di morte

L’ora più buia: il suicidio del testimone decisivo per la difesa.
 
Dal minuto 1.21.10 al minuto 1.22.51 viene mostrata una scena di minor tensione, con l’obiettivo di far rifiatare lo spettatore, dopo una sequenza incalzante di eventi drammatici.

Tom Cruise e Demi Moore sono al ristorante, parlano del loro lavoro, ma con serenità, e la scena si conclude con una battuta di Tom Cruise che fissa uno stato d’animo. “Continueremo a fare quello che stiamo facendo, e monteremo uno spettacolo, ma alla fine tutto quello che abbiamo è la deposizione di due persone accusate di omicidio: noi perderemo, e perderemo… alla grande”.

Questa è la sensazione prevalente anche tra gli spettatori: Tom Cruise – in effetti – riesce ogni volta a montare uno spettacolo, nell’aula di tribunale; si ha la chiara sensazione che ogni seduta si concluda con una sua vittoria simbolica; “ma alla fine tutto quello che abbiamo è la deposizione di due persone accusate di omicidio”, come a dire che quando si dovranno tirare le somme, quando servirà andare al di là delle pure deduzioni logiche e mostrare le prove, il gioco mostrerà la corda, si rivelerà per quel che è, e cioè un tentativo di prendere tempo o poco più.

Demi Moore replica a Tom Cruise in modo secco: “Troveremo Markinson”.

Markinson è il vice-capo di Jack Nicholson, è l’uomo che sa come sono realmente andati i fatti, o almeno è a conoscenza di una parte rilevante degli eventi; non sa nulla sul “codice rosso”, ma sa bene che non era previsto nessun trasferimento del soldato che sarebbe poi disgraziatamente deceduto a seguito del “codice rosso” (come lo sanno gli spettatori, grazie al flashback).

Solo che Markinson è sparito, più nessuno lo trova. “Sai che ha fatto Markinson per i primi 17 anni dei 26 che ha passato nei marines? Controspionaggio” – sentiamo dire al pubblico ministro, al minuto 50.02 – “Markinson è scomparso. Non esiste nessun Markinson”.

Brutta faccenda, ma Demi Moore resta ottimista – “troveremo Markinson” – e la realtà supera ogni migliore aspettativa: è Markinson a trovare loro.

Tom Cruise se lo ritrova all’improvviso in macchina, seduto nel posto di dietro (minuto 1.26.55). È lui, Markinson, che vuole parlare, dire tutto ciò di cui è a conoscenza, per far luce sull’accaduto e portare a galla la verità. Ma – ad arte – viene anche veicolato il dilemma morale vissuto dal personaggio: “non voglio immunità” – gli sentiamo dire al minuto 1.28.08 – “voglio solo che lei sappia che non sono fiero né di quello che ho fatto né di quello che sto facendo”.

Markinson – come dichiarerà nella lettera ai genitori del soldato morto (minuto 1.39.14) – si ritiene responsabile dell’accaduto, sente di non aver fatto tutto ciò che era in suo potere per evitarlo. E quindi non è fiero “di quello che ha ha fatto”, del suo comportamento nella base militare. Ma sente pure che testimoniare in tribunale vuol dire venir meno a quel “codice d’onore” – non scritto, ma cogente – che è la colonna portate dell’intero corpo dei marines, e perciò non è fiero “di quello che sta facendo”.

Rimanere in silenzio è sbagliato, ma anche parlare è sbagliato, e siccome non vi sono alternative – o parli o stai zitto, senza una terza possibilità – l’unica via per chiamarsi fuori è la morte, il suicidio: Markinson scrive la sua lettera di scuse ai genitori del soldato deceduto, si mette in alta uniforme e si spara un colpo di pistola in bocca, tormentato da quei sensi di colpa che non gli lasciano spazio.

La difesa perde così il suo testimone più importante, anzi l’unico vero testimone utile alla causa, e qui va notata una sottigliezza decisiva, relativamente all’animo umano. 

In fondo – si potrebbe obiettare – il suicidio di Markinson non ha fatto altro che riportare la situazione al punto di partenza: Tom Cruise non sapeva dove si trovasse Markinson, se l’è visto piovere in macchina, e poi, altrettanto improvvisamente, l’ha visto sparire. Non è cambiato nulla, in fondo, rispetto alla cena al ristorante tra Tom Cruise e Demi Moore, quando avevamo visto un Tom Cruise, magari sfiduciato, ma comunque complessivamente di morale alto. Perché il suicidio di Markinson è allora così devastante?

Il punto è che l’aritmetica dell’animo umano non segue le regole dell’aritmetica ordinaria: aggiungere e togliere una stessa quantità potrà pure lasciare inalterata una somma matematica, ma provoca sconquassi nella percezione psicologica delle situazioni di vita.

Posso essere una persona come tante, con un vita normale, e sentirmi perfettamente felice. Poi, un giorno, vinco al superenalotto, e tutto un mondo di sogni e possibilità mi si para davanti all’istante. La mia felicità non ha eguali. Ma – ahimè – smarrisco la ricevuta, la perdo, non riesco più a trovarla. Piombo nella disperazione . Perché? In fondo – si dirà – sono semplicemente tornato alla situazione precedente,  anzi, a rigore, non mi sono mai mosso da lì, perché tutto quel denaro non l’ho mai visto. E io, in quella situazione, ero già felice. Perché mai ora sono disperato, visto che la situazione è la stessa?

Semplice: perché a volte le aspettative sul futuro prendono la stessa consistenza della realtà presente, vengono intese come elementi certi e già acquisiti, anche se di fatto sono ancora incerti e da acquisire. E il cervello contabilizza quindi una perdita, quando quegli elementi – di per sé incerti, ma non percepiti come tali – all’improvviso scompaiono.

Non sapere dove si trova Markinson è una cosa, anche perché si può sempre sperare di rintracciarlo. Vedere apparire Markinson, e poi vederlo sparire per sempre, è una cosa totalmente diversa, perché nell’intervallo tra l’apparizione e la sparizione ha preso forma e consistenza un vantaggio competitivo percepito (erroneamente) come definitivo, e che ora si scopre invece di non esserci né essere in alcun modo recuperabile.

Il contraccolpo psicologico è già devastante, ma nel film si è scelto di aumentare ancora la dose, di caricare un ulteriore evento drammatico sull’esperienza di morte (forse anche per compensare l’assenza di un vero midpoint).

Non solo Markinson si è suicidato, ma nell’ultimo dibattimento in aula (dal minuto 1.39.56 in poi) è venuto fuori che uno dei due marines imputati non ha mai sentito i responsabili della base militare impartire l’ordine di un “codice rosso”; è stato semplicemente l’altro marines imputato a riferirgli di averlo ricevuto, e quindi cresce al probabilità – già alta, nel sentire comune – che si sia trattata di una rappresaglia decisa in autonomia, all’insaputa dei capi. 
 
Il fatto sarebbe sorprendente – com’è possibile che un’informazione così rilevante sia stata nascosta così a lungo e salti fuori solo ora? – se gli sceneggiatori non si fossero curati di renderlo verosimile.

Il marines in questione viene presentato estremamente silenzioso, riservato, taciturno, e comunque “a rimorchio” dell’altro marines. In breve: non parla mai, se non viene interrogato.

E al solito, a prova di scemo, questa sua caratteristica viene subito palesata in una battuta di dialogo (minuto 26.35).
 
Tom Cruise: “Ma lui… ogni tanto parla?”
Marines: “Signore, il soldato scelto Downey risponde solo quando direttamente interrogato”  

Ma il fatto di “rispondere solo se interrogati” non è una solo una manifestazione di timidezza di un personaggio specifico: è una caratteristica intrinseca dei marines degli Stati Uniti d’America, come viene precisato in una scena successiva (dal minuto 47.45) quando Tom Cruise è entrato in possesso per conto suo di un’informazione determinante, che i due stessi marines sotto accusa gli avrebbero potuto dare subito.
 
Tom Cruise: “Hai sentito la domanda:
fu il tenente Kendrich a ordinarvi di fare a Santiago il codice rosso?” 
Marines: “Sissignore”
Tom Cruise: “È stato lui?”
Altro marines: “Sissignore”
Tom Cruise: “E… vi dispiace spiegarmi perché diavolo non me lo avete detto prima?”
Marines: “Lei non ce lo ha chiesto, signore”
 
Arriviamo così all’esperienza di morte (dal minuto 1.42.33 al minuto 1.47.15) e al correlato momento di trasformazione (dal minuto 1.47.16 al minuto 1.50.16).

Tom Cruise è ubriaco e ormai demotivato; Demi Moore gli suggerisce di chiamare direttamente Jack Nicholson a deporre, per fargli confessare di aver ordinato il “codice rosso”, una scelta che richiede un coraggio fuori dall’ordinario, sia perché fino a quel momento tutti i testimoni hanno negato che sia mai stato impartito un “codice rosso”  (e non si vede quindi perché mai debba essere Jack Nicholson ad ammetterlo) sia perché, in caso di insuccesso, sarà Tom Cruise a subire una corte marziale per le sue false accuse di concorso in omicidio e di spergiuro a dei marines pluridecorati e dalla carriera impeccabile; e a questo punto, comprensibilmente, Tom Cruise esce fuori di testa (“dobbiamo o non dobbiamo ascoltare i consigli della regina delle galassie della stupidità?”); Demi Moore va via, e Tom Cruise resta in compagnia dell’altro collega avvocato.

Fine dell’esperienza di morte: tutto, in questo momento, sembra perduto.

Momento di trasformazione

Si entra così nel momento di trasformazione, il dialogo tra Tom Cruise e il collega avvocato.

I toni si abbassano, la discussione è pacata e gli animi diventano più ricettivi.

Il collega tira di nuovo in ballo il padre di Tom Cruise (ma solo perché è stato Tom Cruise a offrirgliene occasione). Gli ricorda che, sì, suo padre era un grande avvocato, ma gli dice pure – in modo enfatico – che i due marines non potrebbero sperare in difensore migliore di quello che posseggono (“se io fossi Dawson e Downey, e potessi scegliere tra te e tuo padre per difendermi in questo processo, sceglierei te tutti i giorni feriali e due volte la domenica”); a domanda esplicita, e con grande onestà, fa presente che suo padre (il padre di Tom Cruise) non avrebbe mai chiamato Jack Nicholson a deporre (davvero troppo rischioso) ma “né io né tuo padre siamo a capo del collegio di difesa… quindi tutto si riduce a una sola domanda: tu, cosa faresti?
 
Non è vero che è tutto perduto. C’è ancora una possibilità, quella prospettata da Demi Moore – chiamare Jack Nicholson al baco dei testimoni – una scelta che presuppone un coraggio estremo, ma che se attuata con successo consentirebbe a Tom Cruise di scrollarsi di dosso l’ombra del padre (lui, Tom Cruise, ha compiuto un’azione dalla quale il padre si sarebbe astenuto, ed ha avuto ragione ad agire in quel modo).

“Chiamerò Jessep a deporre!

Climax

Siamo al minuto 1.52.50, all’inizio del climax, lo scontro tra il protagonista e l’antagonista, di cui stralcio la parte che rappresenta la scena “cult” dell’intero film.
 
 
Ci sono parecchie cose interessanti da registrare.

Tom Cruise – opportunamente indirizzato dal suo collega avvocato – ha rivalutato positivamente la proposta di Demi Moore di chiamare Jack Nicholson a deporre. In pratica ha completamente rimosso il suo difetto fatale: ora non ha più paura, ora è consapevole di tutte le sue potenzialità.

Lo si capisce chiaramente del dialogo con Demi Moore (dal minuto 1.53.07) e le parti, ora, sembrano invertite: ora è Demi Moore a temere che Jack Nicholson possa rimanere silente – con tutte le conseguenze negative del caso, se Tom Cruise insistesse nella sua linea – laddove Tom Cruise mostra invece un’apprezzabile saldezza di nervi.
 
Demi Moore: “Come ti senti?”
Tom Cruise: “Beh, credo che Jessep avrà del filo da torcere, oggi”
Demi Moore: “Senti: quando sei là fuori, se hai la sensazione che non succeda,
se hai la sensazione che lui non voglia dirlo, non spingere troppo. Potresti metterti nei guai.
Sono consulente speciale della Sezione Disciplinare, potresti metterti in un mare di guai”
Tom Cruise: “Ma… non mi starai suggerendo di tirarmi indietro con un teste materiale?”

Demi Moore: “Se non riesci a incastrarlo subito, sì”
 
E Tom Cruise, in effetti, non riesce a inchiodare subito Jack Nicholson. Arriva un momento in cui rimane in silenzio, quasi imbambolato (al minuto 2.01.29 nel video originale, e nei secondi iniziali in quello postato qui) manifestamente in dubbio se tenerlo ancora al banco dei testimoni o congedarlo; e il collega avvocato gli rivolge un’espressione con cui lo invita a piantarla lì, a non insistere (Jack Nicholson non ha confessato e non intende farlo, bisogna accettare la resa e farsene una ragione); lo stesso Jack Nicholson, visto lo stallo, decide di auto-congedarsi, si alza e fa per andare via. 
 
E invece Tom Cruise tiene il punto, riporta Jack Nicholson al banco, e dà un seguito eccellente al suo impeccabile ragionamento. È una sua qualità che abbiamo avuto modo di apprezzare durante l’intero dibattimento: la capacità di mettere in fila dei singoli fatti – tutti all’apparenza semplici o innocui – per poi far esplodere una conclusione puramente logica che non lascia scampo. Jack Nicholson si ritrova così in contraddizione con sé stesso, grazie all’abilità di Tom Cruise nell’orchestrare le domande e collegare le risposte.

Ma la pura logica non basta.

Non basta che Jack Nicholson sia caduto in contraddizione, una situazione che mette a disagio, sì, ma di per sé non risolutiva. Serve farlo confessare, bisogna agire sulla sua emotività, privarlo di lucidità, fino al punto da fargli ammettere la colpa.

E infatti Tom Cruise ha provveduto da prima a innervosire Jack Nicholson, prospettando la testimonianza di due avieri della torre di controllo che avrebbero potuto contraddire la sua affermazione circa gli orari degli aerei (dal minuto 2.02.46 al minuto 2.03.44; e si scoprirà dopo, alla fine, al minuto 2.13.39, che i due avieri in realtà non sapevano nulla, e la manovra di Tom Crusise aveva quindi il solo scopo di destabilizzare Jack Nicholson).
 
Si è dunque creato un’ambiente surriscaldato, e visto che Jack Nicholson è lì che cincischia, non rimane che essere espliciti e rischiare il tutto per tutto.
 
“Colonnello Jessep, ordinò lei il codice rosso? Io voglio la verità!”
 
Il giudice interviene all’istante, per informare Jack Nicholson che non è tenuto a rispondere; ma non rispondere significherebbe tirarsi indietro, mostrarsi paurosi, uno stato d’animo inconciliabile con il personaggio di Jack Nicholson.
 
Nella testa di ogni spettatore riecheggia ancora la frase del minuto 44.10 rivolta a Demi Moore (“io faccio colazione a trecento metri da quattromila cubani addestrati ad uccidermi, quindi non creda di poter venire qui a sventolare un distintivo nella speranza di farmi innervosire”) e in quella stessa scena anche Tom Cruise ne era uscito apparentemente malconcio (“quello che io voglio è che tu, con la tua uniforme bianca da frocetto, e la tua parlata da moccioso di Harvard, quando ti rivolgi a me, mi dimostri un po’ di cortesia”).
 
Un uomo così – ora – non può certo rifiutarsi di rispondere, e la sua risposta prende la forma di un’invettiva.
 
“Tu non puoi reggere la verità.
Figliolo, viviamo in un mondo pieno di muri
e quei muri devono essere sorvegliati da uomini col fucile.
Chi lo fa questo lavoro? Tu? O forse lei, tenente Weinberg?
Io ho responsabilità più grandi di quello che voi possiate mai intuire.
Voi piangete per Santiago e maledite i marines.
Potete permettervi questo lusso.
Vi permettete il lusso di non sapere quello che so io:
che la morte di Santiago, nella sua tragicità, probabilmente ha salvato delle vite.
E la mia stessa esistenza, sebbene grottesca e incomprensibile ai vostri occhi, salva delle vite.
Voi non volete la verità perché nei vostri desideri più profondi, 
che in verità non si nominano, voi mi volete su quel muro!
Io vi servo in cima a quel muro!
Noi usiamo parole come onore, codice, fedeltà.
Usiamo queste parole come spina dorsale di una vita spesa per difendere qualcosa.
Per voi non sono altro che una barzelletta.
Io non ho né il tempo né la voglia di venire qui a spiegare me stesso
a un uomo che passa la sua vita a dormire sotto la coperta di quella libertà che io gli fornisco,
e poi contesta il modo in cui gliela fornisco!
Preferirei che mi dicesse: la ringrazio… e se ne andasse per la sua strada.
Altrimenti gli suggerirei di prendere un fucile e di mettersi di sentinella.
In un modo o nell'altro io me ne sbatto altamente di quelli che lei ritiene siano i suoi diritti!” 

Ma è un’invettiva che si rivela controproducente, un autentico boomerang, perché lo autosuggestiona fino a privarlo della poca lucidità rimastagli, sino a illuderlo di poter dire qualunque cosa perché tanto si trova indiscutibilmente nel giusto (“Io ho responsabilità più grandi di quello che voi possiate mai intuire… Io vi servo in cima a quel muro! ) cosicché quando Tom Cruise rintuzza l’accusa (“Ordinò lei il codice rosso?”) la risposta di Jack Nicholson diventa inevitabile (“Certo che l’ho ordinato, che cazzo credi?”).
 
Tutta la vicenda viene messa sotto una nuova luce: la posizione dei due marines si ridimensiona, per Jack Nicholson si prospetta una corte marziale, e Tom Cruise può spiattellargli in faccia l’esito della sua trasformazione.

Jack Nicholson: “Tu hai messo l’intera popolazione in pericolo: sogni d’oro, figliolo” 
Tom Cruise: “Non mi chiami ‘figliolo’.
Io sono un avvocato e un ufficiale della Marina degli Stati Uniti”
 

Epilogo

 
L’epilogo (dal minuto 2.10.18 sino alla fine) ha l’obiettivo di riassumere – in una scena – il senso di tutta la storia (in definitiva della trasformazione a cui è andato incontro il personaggio durante la sua avventura).

Avevamo conosciuto Tom Cruise su un campo sportivo, a patteggiare per un caso ai limiti del ridicolo; lo ritroviamo in un’aula di tribunale, a conclusione di una linea difesa da manuale per un caso di massima gravità.

Lo avevamo visto abbigliato da giocatore di baseball; lo ritroviamo in uniforme militare da ufficiale.

Lo avevamo visto insofferente a ogni protocollo, e lo avevamo sentito ironizzare sul “codice d’onore” dei marines durante il primo incontro con i due imputati; lo ritroviamo a rispondere al saluto militare che gli rivolge uno dei marines.

Il Tom Cruise che ritroviamo alla fine del film, il Tom Cruise post-trasformazione, è un personaggio chiaramente distinguibile dal Tom Cruise che c’era stato presentato all’inizio: è riuscito a fare qualcosa che non ci saremmo mai aspettati.

E il cambiamento non tocca solo Tom Cruise, ma anche buona parte del mondo che gli è intorno.
 
Anche il marines più sveglio è cambiato. Quando il suo compagno non vuole rassegnarsi al congedo con disonore – “Io non riesco a capire: il Colonnello ha detto di aver dato lui l’ordine, noi che abbiamo fatto di male? Noi non abbiamo fatto niente di male” – lui dimostra di aver realizzato a fondo la gravità di ciò che è accaduto: “Sì, invece: era nostro dovere batterci per le persone che non possono difendersi da sole: era nostro dovere batterci per Willy”.
 
E questa trasformazione del marines induce il collega di Tom Cruise a rivalutarlo – come viene comunicato dalla sua espressione facciale al minuto 2.12.36 – quando per tuta la durata del processo lo aveva considerato solo un esaltato: anche il collega di Tom Cruise, quindi, è cambiato.

Si produce sempre un effetto molto bello quando la trasformazione del protagonista finisce con l’investire – in varia misura, per riflesso, per ricaduta – anche altri personaggi della storia.
 
Non è un effetto facile da ottenere, ma quando ci si riesce, l’opera scala una marcia.

Esercizio per casa: tema e premessa

Sembra facile, sulle prime, individuare il tema e la premessa di Codice d’onore. Abbiamo un difetto fatale esplicitamente dichiarato (“lei è un tale vigliacco”) e un obiettivo esterno cristallino (“io voglio la verità”). Verrebbe quindi da dire:

TEMA: Verità

PREMESSA: Il coraggio conduce alla verità (oppure: la verità si raggiunge col coraggio)

Non è una lettura formalmente sbagliata, ma di sicuro è insopportabilmente approssimativa, come abbiamo già avuto modo di notare.

La premessa – negli archi eroici – ci parla delle conseguenze del superamento del difetto fatale; il difetto fatale è ciò che ostacola la difesa della posta in gioco; e la posta in gioco è il significato profondo che il protagonista attribuisce agli eventi in superficie.

Dire “il coraggio conduce alla verità” ci fa sì intravedere il difetto fatale che il protagonista dovrà superare (abbiamo un vigliacco che deve diventare coraggioso) ma lo collega direttamente all’obiettivo esterno (la verità) e non a ciò che questo obiettivo rappresenta per l’interiorità del personaggio.

Si può fare (molto) meglio.

La ricerca della verità – nella prospettiva di Tom Cruise – è funzionale a tirare fuori il meglio di sé. Tutti gli ripetono che lui è un grande avvocato, lui stesso, nel profondo, sa di esserlo, e tuttavia l’ingombrante figura paterna finisce con l’esser d’ostacolo alla manifestazione del suo valore, spingendolo a patteggiare continuamente, per evitare il dibattimento in tribunale.

La storia – al fondo – non ci parla della ricerca della verità, ma di un personaggio che deve far venir fuori la parte più nobile di sé, che deve autorealizzarsi attraverso il conseguimento di obiettivi reali, solidi e duraturi (lui stesso sa bene che tutti i patteggiamenti vittoriosi sono fuochi fatui, e la battuta “ancora uno, e mi danno un tostapane” esprime proprio la consapevolezza dello scarso valore dei suoi successi, sino a quel momento).

Proviamo così:

TEMA: Autorealizzazione

PREMESSA: Il coraggio conduce all’autorealizzazione

Va già meglio, ma solo perché sono stati smazzati via gli elementi superficiali (nel senso di eventi che stanno in superficie) per dare risalto a quelli più profondi (relativi all’interiorità del personaggio).

Rimane però un modo debole di esprimersi, e non tanto per l’uso della formula stereotipata “X conduce a Y”, quanto perché troppo generica (come avviene spesso, peraltro, quando si usa l’espressione formulare “X conduce a Y”). Questa accoppiata tema-premessa va bene per un’infinità di storie, non contiene nulla di collegabile – anche solo per evocazione – alla specificità della vicenda a cui abbiamo assistito, alle sue dinamiche peculiari.

Ti lascio perciò come compito a casa il trovare delle formulazioni più raffinate per il tema e la premessa di Codice d’onore.
 
Buon lavoro!

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