MODULO 25 – Scrivere è…


 
Hai iniziato a scrivere senza sapere cosa stavi facendo. Non avevi capacità artistiche, allora. Ti bastava appagare la tua smania di renderti immortale, e come ogni principiante – privo di tecnica e fantasia, e sufficientemente egocentrico – scrivevi di te e della tua vita, sino a trasformare la scrittura in una dolce medicina, una terapia psicologica a costo zero, dove nessuno badava al tuo stile.

Al liceo, d’altra parte, i tuoi temi non strappavano nessun luccicone al professore d’italiano: non avevi inventiva, e non scrivevi nulla che non fosse la pura realtà, trasposta sulla pagina nei modi precisi con cui si era manifestata. Ancora non sapevi che solo inventando si possono scoprire cose straordinarie sulla natura umana e su sé stessi, ma alla fine non ti importava: tanto andavi forte nelle materie scientifiche.
 
I gusti cambiano, negli anni, e così ti chiedi se la scrittura cosiddetta “creativa” abbia davvero bisogno di  flashback e flashforward; cerchi risposte, e finisci con l’imbatterti nel pensiero indiretto libero e nello scoprire la necessità di disseminare indizi per sostenere i colpi di scena; ti dicono che non scrivi male, ma che puoi migliorare, e magari cimentarti con un argomento diverso dai soliti, a condizione – s’intende – che tu lo conosca a sufficienza.
 
Così immagini il pianeta Terra nell’anno 5092, descrivi la solita catastrofe provocata dalla follia umana e insinui una speranza di salvezza intorno a un nucleo familiare, a cui metti in bocca delle frasi riprese del tuo focolare domestico.

Ma non demordi. La vita offre nuovi spunti di continuo e tu credi di avere capito come rielaborare quel che ti accade.
 
Usi solo la prosa, la poesia ti terrorizza, e se ti scappa una rima te ne vergogni come fosse una scorreggia in pubblico. Applichi gli insegnamenti: mostri, non racconti; fai agire i personaggi rispettando la loro psicologia, come si conviene a un Dio creatore; eviti le spiegazioni, per lasciare che ogni lettore capisca da sé; ceselli le situazioni narrative, affinché suonino credibili. Rendi reale l’ambientazione andando oltre la vista e l’udito: tu i luoghi li annusi. Non scrivi tutto, hai il coraggio di tagliare. Assemblare belle frasi non assicura un risultato decente. Cerchi di far ridere, di far piangere e in ogni caso lasci il lettore in balia di un dramma. Realizzi la versione esatta della stupidata per cui non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla. Balle. Non sei fregato finché hai un arco di trasformazione, e, se lo hai, va da sè che ci sarà qualcuno a cui raccontarlo.
 
Ti impegni ogni giorno, per un tempo progressivamente maggiore, fino a ritrovarti a pensare a quel che stai scrivendo anche quando fai la spesa al supermercato. All’inizio ne sei spaventato, ma poi capisci che così dev’essere, che serve ragionare sul romanzo soprattutto quando non si ha il foglio davanti: arricchire la psicologia dei personaggi davanti al banco del pane, quando servono il numero 32 e tu hai il 48, rifinire le scene tra le carote e gli spinaci, abbellire le atmosfere durante la fila alla cassa.
 
Scrivi anche quando sei al gabinetto, per arrivare toccare le 1.000 parole quotidiane, lo standard a cui tutti dovrebbero tendere. Cambi ritmo e ti crei una routine. Diventi pignolo, fai le pulci alle virgole e scopri con piacere di sapere dove collocare il punto e virgola e i due punti.
 
Sei stato domato, ma rimani selvaggiamente esibizionista – lo eri già prima di scrivere – e così mandi i tuoi racconti in giro agli amici aspettandoti commenti articolati.
 
Non ti basta un “bravo”, non vuoi la piaggeria di un “bravissimo”, e ti serve a poco un secco “fa schifo”. Speri sempre che qualcuno ti dica il perché.

L’unico commento utile arriva da un amico artista: tu vuoi essere troppo bravo. Che se ci pensi è un colpo alla tua vanità, perché significa che la ricerca ossessiva della forma perfetta è andata a scapito dell’atmosfera, se mai eri riuscito a creare una.
  
Ti hanno insegnato a evitare i dialogue-tag sciatti, ad annullare la “d” eufonica tra vocali diverse e a scrivere l’incipit alla fine, affinché contenga la summa teologica del tuo romanzo; e però incappi in racconti che iniziano senza mordente, inciampi incredulo nei punti esclamativi, quando ti hanno assicurato che uno a capitolo è già troppo, e nei concorsi vieni superato da chi indugia in avverbi e aggettivi e scivola sugli infodump. Perché continuare a leggere libri simili?
 
La risposta te la dà un’amica, che alle tue dichiarazioni sulla supremazia dello stile (ammesso che tu lo abbia) e del linguaggio (ammesso che tu lo conosca) ti miagola l’importanza della storia. Hai voglia a citarle Queneau e il suo bottone perduto sul tram a mezzogiorno: non cambia idea.
 
E ha ragione. La storia per l’amor del cielo, la storia!
 
Tu, apocrifo di Voltaire, difendi il suo decalogo del lettore e ti arroghi il diritto di chiudere un libro alla prima pagina, se l’inizio non ti convince. Smetti di leggere appena ti accorgi che è scritto male, senza più badare alle vicende dei personaggi, anche se rubano l’anima sino alle lacrime, sino a offuscare la vista e nascondere gli errori. 
 
Ancora non hai capito, evidentemente: la tecnica è solo un mezzo, non il fine.
 
Leggere un romanzo significa passare dalla parola scritta alla materializzazione di una sensazione – un’immagine, un suono, un odore, un sapore, una percezione tattile o un rielaborazione psicologica – mediata dalle caratteristiche del personaggio, così da sperimentare la sua coscienza sino al punto da scalzare la tua, da rimpiazzare il tuo mondo col suo, sino a farti dimenticare di scendere alla fermata giusta della metro.
 
Tutto, in scrittura, viene filtrato dal personaggio, e nulla può apparire sulla pagina senza la sua mediazione: incarnarsi nel protagonista già dalle prime righe, ritrovarsi dentro la sua vita imperfetta, perciò affascinante e vera, e scoprire allora che non siamo i soli a essere fragili, ad avere paura, a sentirci combattuti e confusi, in preda a pensieri cattivi e amari rimpianti, talvolta con la sensazione di essere addirittura posseduti da spiriti maligni. 
 
Questo è scrivere, questo è fare narrativa, e il trasporto narrativo cambia dapprima le persone per poi cambiare il mondo, perché convinzioni e atteggiamenti diventano duttili, più facilmente alterabili, quando ci si ritrova immersi in una storia, e sono alterazioni che possono mettere radici e connettere due anime come nemmeno l’amore potrà mai fare.
 
Ti torna in mente che ancora nella prima metà del ’700 era virtualmente impossibile empatizzare con un individuo di un’altra classe sociale, di un’altra nazionalità o persino dell’altro sesso: Dio aveva messo ciascuno nel posto che gli spettava, e non vi era altro da aggiungere.
 
Poi arrivano i romanzi epistolari – Pamela (1740), Clarissa (1747-48), Giulia (1791) – e tutto cambia.

Piangevo e singhiozzavo con il cuore spezzato.
 
“Che sciocca sfrontatella sei!” ha detto lui. “Ti ho forse fatto del male?”
 
“Sì, signore” ho detto io, “il più gran male del mondo”
 
Lo sfogo della sedicenne Pamela – una  dama di compagnia,  molestata dal datore di lavoro – diventa uno stato d’animo universale: non si può più entrare in una casa senza incontrare una Pamela e sentirla vicina, di là di ogni convenzione sociale.
 
Sarebbe quindi meglio che la smettessi di fare lo schizzinoso, e imparassi a vedere quel che di buono può esserci in un’opera, perché non esiste un romanzo tanto brutto che non possa insegnarti qualcosa.

Sarebbe ancora meglio se la finissi di rileggere ciò che scrivi.

Sarebbe poi ottimo se ti chiarissi cos’è che desideri, perché se ti aspetti il consenso universale allora è meglio che tu smetta di scrivere.

Ma ami la coerenza e continuerai imperterrito scrivere quel che ti pare, anche se politicamente scorretto o fuori moda, perché nessuno può impedirti di essere e scrivere ciò che sei.
 

 
Scrivere non è un atto spontaneo, come non lo è nuotare: per scrivere bene, imparate a nuotare.

Scrivere è il frutto spontaneo di un lavoro serio, duro, sistematico.

Scrivere è diverso dal parlare: la parola entra nei due mondi con modalità e forme diverse, da non confondere tra loro.

Scrivere è saper modificare il proprio atteggiamento verso lo scrivere.

Scrivere si insegna e si può imparare.

Scrivere è imparare a leggere, saper leggere, leggere con intensità, finezza di analisi, autonomia di giudizio, fiducia nel proprio sentire.

Scrivere è appropriarsi degli scritti degli altri, lasciarsene influenzare, e poi emanciparsene.

Scrivere è avere la consapevolezza di maneggiare uno strumento delicato.

Scrivere è mostrare un’attenzione millimetrica al linguaggio.

Scrivere è interrogarsi sulla cruciale differenza tra “Valeria ha regalato un gattino al suo papà” e “Valeria ha regalato al suo papà un gattino”.

Scrivere è dedicare la mattina a mettere una virgola e poi la sera a togliere la virgola messa la mattina.

Scrivere è rifuggire dai modesti trionfi di un linguaggio elitario, criptico, ermetico.

Scrivere è rinunciare a usare un lessico che non si possiede.

Scrivere è tenersi lontani dalle banalità che trasformano il linguaggio in un sedativo e ne fanno una via per eludere l’irriducibile complessità dell’esperienza.

Scrivere è smentire i luoghi comuni o reinterprtarli in un contesto infinitamente più ampio.

Scrivere è distinguere la creatività dalle efflorescenze verbali.

Scrivere è amare l’aver scritto tanto quanto l’atto di scrivere.

Scrivere è vivere di inquietudini, non di compiacimento.

Scrivere è avere coraggio.

Scrivere è attingere in sé stessi con energia.

Scrivere è la persistente percezione di un testo migliorabile.

Scrivere è acquisire una tecnica: solo la tecnica risolve i problemi reali e ne evita di inutili.

Scrivere è economicità dello stile, un rapporto equilibrato e funzionale tra fini e mezzi, tra l'effetto che si vuol ottenere e le parole e le costruzioni scelte per ottenerlo.

Scrivere è lavorare a una frase con la precisione di un orefice.

Scrivere è un puzzle, un gioco a incastro, arduo, coerente, avvincente e formativo.

Scrivere è insinuarsi senza destare sospetti, per poi colpire con forza, con una stoccata improvvisa.

Scrivere è saper scegliere le parole, giocare con le parole, sapere che le parole non esistono, se non in relazione al personaggio.

Scrivere è sapere che non esistono parole innocenti.

Scrivere è andare a caccia della parola giusta e insostituibile all'interno della frase.

Scrivere è un continuo variare di prospettiva, il permanere di una vitalità attraverso la molteplicità delle interpretazioni del mondo.

Scrivere è obbedire al precetto dello scrivere utile: dietro l’oggetto immediato, in primo piano, la mente del lettore sia guidata verso un secondo piano, e da qui verso prospettive ancora più distanti.

Scrivere è ribaltare l’idea che tutto è già stato detto: per uno scrittore niente è già stato detto, di quel che lui vuole scoprire attraverso il linguaggio delle parole.

Scrivere è uno stato di speculazione libera, senza freni ma non illogica, in cui la fantasia è coinvolta nel gioco con le idee.

Scrivere non è trascrivere quel che si è pensato, ma scoprire sulla pagina quel che non si sapeva di pensare.

Scrivere è pensare con la penna, perché la testa sa poco di ciò che la mano scrive, e deve scoprire quel che la penna vuol dire.

Scrivere è inventare – dal latino invenire, trovare – qualcosa che non si sapeva e che il testo svela.

Scrivere è creare un testo che ne sappia più dell’autore.

Scrivere è scrivere per un lettore esigente, severo e impaziente, di cui però si non conosce l’esatta identità.

Scrivere è la consapevolezza di sottrarre al lettore il suo bene più prezioso, il tempo.

Scrivere è sedurre il lettore, anche quando si parla di noia, di angoscia, di morte.

Scrivere è preservare la distinzione tra la vita e la scrittura: non importa aver vissuto un romanzo, serve piuttosto saperlo scrivere.

Scrivere è mantenere la distanza tra la pagina e la realtà: non importa che sia vero, se poi non gira nella pagina.

Scrivere è sapere che il mondo della narrazione non è il mondo reale: il caso domina la realtà, la necessità governa il racconto.

Scrivere è un rischio calcolato, un barcamenarsi tra programmazione ottimistica e ispirazione aleatoria.

Scrivere è sperimentare e accettare l’eventualità di una ricerca infruttuosa.

Scrivere è andare incontro a provvisorie esultanze e a depressioni ricorrenti.

Scrivere è dare più peso alle critiche che ai complimenti: nel classico bellissimo, ma valorizzare l’avversativa e dimenticare il superlativo.

Scrivere è…

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