Modulo 24O – Dare un senso alle cose: una lezione dalla serie tv “Squid Game”

 

I significati oltre il visibile

Entra il più rapidamente possibile nel giusto ordine di idee: non c’è niente che meriti, nulla ha senso, in questa vita e in quelle che verranno.

Tutto è vanità” – e cioè niente – è il ritornello di Qoèlet, nella Bibbia, a conclusione di ogni disamina di tutto ciò che si trova sotto il sole.

La vita è solo un’ombra che cammina” – fa dire Shakespeare a Macbeth – “la storia raccontata da un idiota, piena di frastuono e di foga, e che non significa nulla”.

E Guccini – a conclusione della sua meravigliosa Lettera – parla del “lento scorrere, senza uno scopo, di questa cosa che chiami… vita”.

Nulla ha senso di per sé, ma tutto acquisita valore e importanza in relazione ai significati che tu liberamente gli attribuisci.

Voglio trovare un senso a questa vita” – canta Vasco Rossi – “anche se un senso non ce l’ha”.

Saper dare un senso alle cose è tra i principali requisiti di ogni buona sceneggiatura.

Serve portare il lettore-spettatore oltre il visibile, trasmettergli la sensazione – anche solo al livello inconscio – che ciò che sta leggendo o guardando sia sorretto da una struttura ricca di significati, che qualifica e colora ciò che cade sotto le brute percezioni sensoriali.
 
E i giochi di Squid Game si prestano alla meraviglia a illustrare il concetto.
 

Analisi dei giochi in "Squid Game"

Cosa sono i giochi di Squid Game? Semplici passatempi da bambini, se ci si limita al loro aspetto meccanico, alle modalità di esecuzione. Ma perché, allora, ci sono rimasti così impressi? Solo per i loro esiti cruenti?

Squid Game non è certo la prima serie tv basata su un survival game. C’era già stata Alice in borderland – proposta sempre da Netflix – solo per dirne una. L’idea in sé non è quindi una novità – anche perché di totalmente nuovo, a rigore, non può esistere nulla – ma il modo con cui Squid Game l’ha messa all’opera ha fatto sì che la serie entrasse nella cultura di massa.

Gli spettatori – ovviamente – non sono esperti di sceneggiatura, ma non serve essere esperti per cogliere il senso generale delle cose – anche solo inconsciamente – quando le cose sono fatte a regola d’arte.

Qui faremo un passo oltre: andremo dietro le quinte, a scoprire la natura dei singoli giochi e delle loro connessioni – delle somiglianze e delle differenze – restando sempre ancorati a ciò che è oggettivo, a quel che si può osservare nelle scene, o che è implicito nelle regole del gioco, così da minimizzare i rischi di un eccesso d’interpretazione.
 

Il conflitto contro il tempo


Mi piace iniziare evidenziando un tratto comune a quattro giochi: il conflitto contro il tempo.

La bambola, le formine, il ponte di vetro e le biglie devono essere “risolti” entro un tempo limitato, perché altrimenti perderebbero di significato (bambola e formine) o rischierebbero di prolungarsi indefinitamente (ponte di vetro e biglie); e il vincolo temporale – per converso – conferisce drammaticità anche al più semplice dei giochi.

Il fascino del conflitto contro il tempo – qualcuno deve fare qualcosa, col ticchettio dell’orologio che gli gioca contro – sta nell’evocazione dello svolgimento della vita, nella sua interezza.

Tutta la vita – in definitiva – è un continuo conflitto contro il tempo, con un conto alla rovescia avviato dal primo vagito: da quel momento – non appena uscito dalla pancia di mamma – avrai a disposizione un tempo limitato per realizzare ciò a cui la vita ti chiama, per portare a compimento il tuo gioco. Ci riuscirai? O aspetterai troppo, prima di realizzare anche solo una briciola del tuo potenziale, come ammoniva il professor Keating nel film L’attimo fuggente?

Tutti i giochi “a tempo” riproducono la vita su una scala ridotta e semplificata, quindi più facile da cogliere; ci ricordano quel che già sappiamo, ma che spesso dimentichiamo, e cioè che il nostro tempo è limitato; e sono perciò un invito a sbrigarci, o almeno a evitare mosse inutili o controproducenti rispetto all’obiettivo, a non sprecare tempo.
 
Impara a far giocare i tuoi personaggi contro il tempo: potresti avere rivelazioni meravigliose su come funziona la vita.
 

La bambola

 
 
Il gioco della bambola (“Un, due, tre, stella”) è elementare, il più semplice di tutti, nelle regole e nella strategia: se ti vedo fermo, rimani in partita; se ti becco in movimento, sei eliminato; e per non farsi beccare in movimento è sufficiente fermarsi al “tre” di “un, due, tre”, così da avere il tempo per immobilizzarsi mentre la bambola dice “stella” (come vediamo fare al giocatore 1 per ben due volte, in maniera anche piuttosto teatrale); dopo due giri si capisce pure la velocità da tenere nei propri passi, per essere ragionevolmente sicuri di arrivare al traguardo entro il tempo stabilito; e non serve una particolare furbizia per capire che conviene muoversi non appena la bambola si gira, così da guadagnare secondi preziosi.

Cosa c’è di difficile? Nulla. Devi solo seguire un semplicissimo protocollo di comportamento. E allora perché in tanti – più della metà – non l’hanno fatto? Per i motivi più svariati, troppi per elencarli tutti, ma in ultima analisi riconducibili – alternativamente – al panico o alla presunzione

Il panico è una paura sproporzionata rispetto all’entità oggettiva del pericolo incombente, ed è ciò che stermina gran parte dei giocatori.

Quale parte della frase “se ti vedo in movimento, sei eliminato” non ti è del tutto chiara? E se la frase è cristallina – come in effetti è – si può sapere perché ti muovi? Devi fare la cosa più semplice di tutte – restare fermo – e il panico, invece, ti spinge a farne altre n-mila, tutte sbagliate. Vuoi scappare? Ma – santo cielo! – è ovvio che non potrai andare da nessuna parte, per quel minimo di lucidità che puoi mantenere su ciò che hai appena visto accadere.

Quale parte della frase “ti puoi muovere liberamente finché la bambola è girata” non ti è del tutto chiara? E se la frase è cristallina – come in effetti è – perché rimani paralizzato anche quando la bambola non ti vede? Devi fare la cosa più semplice di tutte – un paio di passi in avanti – e il panico, invece, ti spinge a farne tante altre, tutte sbagliate. Cosa pensi che accadrà se rimani fermo a fissare l’orologio che scandisce il countdown

Il panico ne stermina la gran parte, e per il resto ci pensa la presunzione, quando la dinamica del gioco non è ancora conosciuta in tutte le sue conseguenze.

La presunzione è il convincimento di essere più furbi, intelligenti o scaltri degli altri, di poter “vincere a modo proprio”.

Il giocatore 324 è il primo a essere “eliminato” – quando ancora nessuno sa che “essere eliminato” significare morire – e viene eliminato a causa della sua presunzione, che lo porta a compiere azioni subottimali, se non proprio auto-lesioniste (correre anziché camminare). Perché vuoi sfondare una porta, se poco più in là c’è una finestra aperta? Dove sarebbe l’intelligenza?

Quante volte – nella vita – ti sei trovato in situazioni simili? Quante volte sapevi esattamente ciò che dovevi fare – e magari erano proprio atti meccanici, automatici – e tuttavia ti sei auto-sabotato, per panico o presunzione?

Pensa alla scrittura, giusto per restare sul tema del blog. Se chi ne sa più di te – perché ha studiato di più e si è tenuto al passo con gli sviluppi della materia – ti dice di scrivere usando solo i cinque mattoncini narrativi, da cementare secondo principi generali che riproducono il flusso della vita, avendo cura di mettere del conflitto in ogni scena, si può sapere perché non lo fai? Di cosa hai paura, esattamente? Di scrivere un buon testo? O ti credi superiore alla riflessione millenaria sull’argomento e alla sua migliore codificazione disponibile?

Un soldato è chiarissimo nel comunicare ai sopravvissuti ciò che è successo durante il gioco della bambola.
 
“È solo un gioco. Sono stati eliminati semplicemente perché hanno infranto le regole.
Se seguirete le regole, lascerete incolumi questo posto, con il premio in denaro che vi è stato promesso”
 
Spesso è sufficiente seguire poche e semplici regole, senza bisogno di inventarsi nulla, se si vuole arrivare a tagliare il traguardo senza affanni.

Non tutte le situazioni della vita sono così, ovvio, ma di bambole giganti fondamentalmente innocue, e tuttavia percepite letali, ce ne sono in giro molte più di quante ne immagini.
 

Le formine

 
Il gioco delle formine è complementare al gioco della bambola: se in “un, due, tre, stella” si deve essere meccanici nell’esecuzione della procedura, le formine richiedono invece capacità di problem solving, presumono l’attitudine a esaminare i particolari della situazione per trovare il modo migliore di venirne fuori.

Il problema può pure essere lo stesso per tutti – estrarre la formina – ma le specificità dei singoli casi – le forme più o meno complesse – impongono approcci differenziati.

Con le forme più semplici – il triangolo o il cerchio – si può pure seguire la soluzione standard (puntellare lungo i bordi); ma con le più elaborate – la stella e l’ombrello – serve andare oltre la prima idea che è venuta in mente.

E così vediamo il giocatore 456 sfruttare le proprietà fisiche della formina (fatta di zucchero): la lecca per ammorbidirla, rendendola più facilmente puntellabile (e in tanti lo imitano in questa sua intuizione semplice e geniale); il giocatore 212 segue sostanzialmente lo stesso approccio (ammorbidire la formina) reso più efficace dall’avere a disposizione un accendino.

Chi rimane in gioco, alla fine? Chi ha avuto la fortuna di pescare le formine più semplici, con le quali si può procedere in modo meccanico, e chi, avendo pescato delle forme più complesse, ha saputo immaginare una via alternativa alla soluzione preconfezionata.
 
I giochi della bambola e delle formine si completano a vicenda, e simboleggiano la varietà delle situazioni di vita e dei modi più efficaci per affrontarle.

Il tiro alla fune

 
Il tiro alla fune segna una discontinuità.
 
La bambola e le formine mettevano ogni giocatore in conflitto con sé stesso (con le sue abilità nel venire a capo del gioco) e contro il tempo (il gioco andava risolto in un tempo limitato); superare il gioco non aveva quindi alcuna conseguenza negativa sugli altri giocatori, e anzi, volendo, il giocatore poteva pure essere altruista (aiutare gli altri a rimanere in partita) come in effetti vediamo fare ad alcuni di loro.
 
Il giocatore 199 trattiene il 456, che era inciampato in un cadavere lungo il cammino. 
 Usa tutta la sua forza per tenerlo fermo, impedendo alla bambola di vederlo in movimento.
 
 

Il giocatore 212 – la donna  lascia cadere il suo accendino vicino al giocatore 101,
e gli fa segno di usarlo per ammorbidire la formina, così da poterla puntellare più facilmente.
 
Col gioco della fune si cambia registro: se vuoi rimanere in gioco, allora devi eliminare (uccidere) il tuo avversario.
 
Il senso di colpa è attenuato da vari fattori – se ti rifiuti di partecipare, vieni eliminato dai soldati (clausola 2 del gioco); se non ti impegni, perché non vuoi uccidere gli avversari, metti comunque in pericolo la vita dei tuoi compagni (emblematicamente la puntata s’intitola “Non si abbandona la squadra”); e quindi non puoi che stare al gioco, ma il messaggio passa con chiarezza: mors tu vita mea, la tua morte è la mia vita, come avviene (in senso lato) in diverse situazioni reali.

A prova di scemo, lo switch nella logica del gioco viene dichiarato apertamente in una battuta di dialogo: il giocatore 240 zittisce le preghiere di perdono a Dio di un giocatore particolarmente religioso, sbattendogli in faccia la realtà delle cose.
 
“Tu li hai uccisi con le tue mani” 
 
Il messaggio viene ribadito in modo subliminale quando il 456 si sofferma a osservare le  sue mani escoriate.
 
Le ferite – fisicamente parlando – sono state provocate dallo sfrego della fune sulla pelle, ma quelle mani sporche di sangue trascendono la loro causa immediata ed evocano la morte dei giocatori dell’altra squadra, ricordano al vincitore che lui è vivo solo perché ha ucciso qualcun altro.
 
Il 456 osserva le proprie mani insanguinate, a conclusione del gioco della fune.
 
Nel segnare una discontinuità – rispetto alla bambola e alle formine –  il gioco della fune lancia anche un altro messaggio: l’importanza del “fare squadra”.

La forza di una squadra non è la semplice somma della forza dei singoli giocatori; la marcia in più sta nelle interrelazioni tra giocatori, con cui si può sopperire a eventuali mancanze individuali e creare addirittura un vantaggio competitivo.
 
Se il gioco è all’apparenza una questione di forza bruta  – “porca puttana, sono tutti uomini!” è l’esclamazione del giocatore 212, una donna, quando vede gli avversari – il saper “fare squadra” lo sposta su un altro piano, dove può essere più facile uscirne vittoriosi.
  
“È presto, per scoraggiarsi: il tiro alla fune non è soltanto una questione di forza.
Con una buona strategia e un buon lavoro di insieme, 
anche la squadra più debole può vincere al tiro alla fune.
Fidatevi di me.
Da giovane giocavo molto spesso al tiro alla fune, nella mia città natale.
E vincevo praticamente sempre.
Non perdevo nemmeno quando nell’altra squadra c’era un lottatore,
cosa che metteva la mia squadra in grosso svantaggio.
Ascoltate attentamente, e vi dirò come facevo a vincere,
praticamente ogni partita quand’ero giovane.
Prima di tutto, il capitano della squadra è molto importante.
Questa persona si posizione proprio di fronte al capitano degli avversari
e il resto della squadra guarda la schiena del proprio capitano.
Se il capitano sembra debole, o scoraggiato, beh, la sfida è praticamente persa in partenza.
Poi, all’estremità della fune ci vuole una persona solida e affidabile come l’ancora di una nave.
Anche il modo in cui i giocatori si dispongono è importante:
si mette la fune al centro, e i giocatori si piazzano uno a sinistra e uno a destra;
i piedi devono essere paralleli; e la fune va tenuta salda, tra le ascelle;
così darete fondo a tutta la vostra forza.
E infine la cosa più importante di tutte:
a inizio partita, per i primi dieci secondi, bisogna solo resistere;
mettevi quasi sdraiati a terra e cercate di spingere il bassoventre verso l’alto,
con la testa indietro al punto da riuscire a intravedere l’inguine della persona che avete alle spalle.
Se fate così, i nostri avversari non ci smuoveranno.
Resistete in questo modo per dieci secondi.
A questo punto gli avversari si agiteranno e penseranno ‘perché non si muovono, cosa succede?’,
perché erano convinti di essere la squadra nettamente più forte.
Se resisterete così a lungo, arriverà il momento in cui il ritmo degli avversari comincerà a spezzarsi”
 
Ma “fare squadra” non significa solo mettere ciascuno nelle condizioni di rendere al meglio, in accordo con le sue qualità specifiche, così da creare il miglior amalgama possibile.

“Fare squadra” vuol dire percepire sé stessi come una parte del tutto, e quindi, in aggregato, sapersi muovere come un’unica entità, come se si fosse un corpo solo.
 
“Calmatevi e statemi a sentire: quando vi do il segnale, fate tre passi in avanti.
Dobbiamo farli cadere a terra. Fallo o morirai. Al mio tre: uno, due, tre!”
 
E ciò che vediamo nel momento in cui il giocatore 218 ordina alla sua squadra di fare tre passi avanti, una mossa innaturale e rischiosa – visto che il gioco è basato sull’indietreggiare – e tuttavia risolutiva per togliersi da una situazione di difficoltà, a condizione che tutti rispondano all’unisono (nell’avanzare prima, per far cadere gli avversari, e nel tornare a indietreggiare dopo, per mettere a frutto il vantaggio conquistato).

Ancora una volta – a prova di scemo – il messaggio viene ripetutamente esplicitato attraverso delle battute di dialogo.
  
“Se sei ancora in grado di respirare e di muovere quella tua lingua del cazzo
è grazie a quel vecchio e a quell’uomo laggiù che ha avuto un’illuminazione dell’ultimo minuto”



“Io credevo, davvero, che saremmo morti tutti.
Ma poi, in quella posizione, mi sono sentita potente, mi sono detta: ‘cosa? funziona?’.
Signore, come le è venuto in mente?
E tu, papino: ‘al mio tre, fate tre passi avanti’.
Oh, sei stato fantastico!
E come ti è venuto in mente, in quella situazione?”
  
Anche la vita reale ci mette spesso di fronte a situazioni dove non contano tanto o solo le nostre qualità individuali, ma soprattutto la capacità di miscelarle con le qualità degli altri, al servizio di un obiettivo comune che si potrà raggiungere solo se tutti si sentiranno parte di una squadra, se capiranno che non può esservi una vittoria individuale all’infuori di una vittoria collettiva, che volercela fare da soli equivale a condannare tutti alla sconfitta.

Le biglie

 
Siamo al gioco delle biglie, il più straziante.

Il primo dramma si manifesta non appena viene svelata la dinamica del gioco: bisogna conquistare le biglie del compagno, secondo regole che ogni coppia di giocatori può concordare a propria discrezione (esclusa però ogni forma di violenza).
 
Si era scelto il proprio compagno convinti di “fare squadra” con lui, e quindi contro le altre coppie di giocatori, e invece lo si scopre come l’unico avversario.

Tanto basta a creare una destabilizzazione, nei giocatori come negli spettatori.

 Marito e moglie scoprono di essere avversari:
almeno uno dei due dovrà necessariamente morire.

E il dramma è appena all’inizio.
 
Le biglie sono state definite – alla perfezione – “il gioco dei dilemmi morali”.

Diventa anzitutto evidente ciò che nel tiro alla fune era rimasto sotto traccia, latente, oscurato dal trovarsi all’interno in una squadra: mors tua vita mea, la tua morte è la mia vita.

Ora non ci si può più nascondere dietro il gruppo, non è più possibile auto-giustificarsi invocando l’appartenenza a una squadra. Ora si è soli con la propria coscienza. Ora si avverte tutto il peso della responsabilità.

Non ci sono altre vite in ballo, oltre la propria e quella del proprio compagno: salvare sé stessi – e solo sé stessi – richiede di eliminare un giocatore preciso, e per di più un giocatore verso cui si presume un legame affettivo, se lo si era scelto nella convinzione di trovarselo alleato.

Però qui c’è una scappatoia, una via d’uscita, a differenza del gioco della fune: offrire la propria vita per salvarne un’altra.

E proprio da qui – da questa alternativa – nasce il primo dilemma morale, prospettato in un dialogo tra i giocatori 199 e 218.

Giocatore 218: “Giochiamo”
Giocatore 199: “Significa che uno di noi dovrà morire”
Giocatore 218: “Allora preferisci che non giochiamo e moriamo insieme?
Oppure, magari, pensi di morire al posto mio?”
 
Il tema ritornerà a gioco concluso, in un violento scambio di battute tra i giocatori 69 e 218.
 
 
Giocatore 69: “Perché non la finiamo qui? Io non posso andare avanti.
Possiamo fermarci se la maggioranza è d’accordo. Bastano nove persone e possiamo andare via.
Nessuno di voi vuole lasciare questo posto? Se volete andarvene, alzatevi vi prego…
Come fate a definirvi umani? Davvero volete continuare con questa follia? Soltanto per denaro?
Avete ucciso tutti la persona più cara che avevate in questo posto infernale… soltanto per denaro…” 
Giocatore 218: “E se te ne vai? Pensi che, una volta uscito, tua moglie tornerà in vita?
Che sarai perdonato per averla lasciata morire? Se ti fa tanto male perché sei tornato qui vivo?
Dovevi morire tu al posto suo!”

E il dilemma morale – salvare la mia vita o offrirla per l’altro? – darà lo spunto a una varietà di situazioni, tutte di elevato impatto emotivo, e ognuna per ragioni sue proprie.

Il giocatore 240 invita il 67 a giocarsi tutto in un colpo solo, sul finire del tempo, e di trascorrere la mezz’ora a disposizione a raccontarsi le proprie vite.


Giocatore 240: “Perché sei venuta dal nord?”
Giocatore 67: “Pensavo si vivesse meglio qui”
Giocatore 240: “E quindi? Si vive meglio?”
Giocatore 67: “…”
Giocatore 240: “E la tua famiglia? È venuta con te?”
Giocatore 67: “Il mio fratello minore”
Giocatore 240: “E i tuoi?”
Giocatore 67: “A mio padre hanno sparato mentre attraversava il fiume ed è affogato.
Invece mia madre è stata arrestata dalla sicurezza in Cina e rispedita a casa”
Giocatore 240: “Dov’è ora tuo fratello”
Giocatore 67: “In un orfanotrofio”
Giocatore 240: “Se te ne vai da qui con quel denaro, cosa ci fai?”
Giocatore 67: “Mi compro una casa per me e mio fratello, e poi porto qui mia madre dal nord”  
 
E a conclusione dello scambio di confidenze, il 240 perde intenzionalmente, offre la propria vita perché riconosce che non solo non vale di più di altre – e quindi non va difesa per principio, a ogni costo – ma addirittura, a un’analisi lucida e spassionata, la vita dell’altro vale più della sua – ha più valore, più senso – perciò è giusto che sia l’altro a proseguire nel gioco.

“Io non ho niente. Tu una ragione per vivere ce l’hai. Io no.
E, visto che me l’hai chiesto, ho pensato a cosa farei una volta uscita da qui.
Ma per quanto mi sforzi, non mi viene niente.
Dovrebbe uscire chi ha una buona ragione. È giusto così.
Fai in modo di uscire viva da qui.
E poi va da tua madre, riprenditi tuo fratello…”

Da una situazione in cui la logica di uno spirito puro e razionale sovrascrive l’emotività più violenta si passa a dinamiche in cui animi meschini ed egoisti non vedono nulla oltre sé stessi, a onta dei più elementari principi morali.

E così il giocatore 218 approfitta della buona fede del 199 per derubarlo di tutte le biglie.

Il giocatore 199 scopre di essere stato ingannato dal 218:
dentro il sacchetto non ci sono le biglie che lui, il 199, aveva conquistato nel gioco,
ma semplicemente dei sassolini che il 218 gli ha infilato di nascosto.

Lo stesso atteggiamento – sebbene con una diversa dinamica – viene tenuto dal 456 verso il giocatore 1, e qui l’inganno assume significati che oltrepassano il naturale desiderio di salvarsi a ogni costo.
 
È un peccato di hybris, perché il numero 1 è il padrone del gioco – anche se il 456 non lo sa – e provare a imbrogliarlo significa avere la sciocca presunzione di poter far cadere gli dèi in un tranello.

E il peccato è tanto più grave, perché per ben due volte al 456 era stata data la possibilità di redimersi: la prima quando il giocatore 1, fingendo di aver perso tutte le biglie – che peraltro gli erano state sottratte con l’inganno – gli aveva chiesto di prestargliene una; e la seconda quando gli aveva proposto di scommettere tutte le biglie in un’unica puntata.

“Ho finito le biglie. E ora che faccio?
Vorrei giocare ancora un po’.
Ehi, non è che potresti prestarmi almeno una biglia?”



Giocatore 1: “Perché non giochiamo ancora, e puntiamo tutto?”
 Giocatore 456: “Cosa?”
Giocatore 1: “Io punto tutto quello che ho, e tu punti tutto quello che hai”
Giocatore 456: “Ma che cosa intende dire?”
Giocatore 1: “Punteremo tutte le biglie che hai tu e allo stesso tempo tutte quelle che ho io.
Mi sembra una proposta giusta”
Giocatore 456: “Dovrei puntare tutto, per quell’unica biglia?
Ma che sciocchezza è questa? Non ha nessun senso!”
Giocatore 1: “Invece, secondo te, ingannarmi e prendermi tutte le biglie, avrebbe senso?”
 
A poco vale il rimorso del 456, una volta che il suo inganno è stato scoperto, e ancor meno vale il suo pianto ininterrotto e disperato, quando il numero 1 gli offre spontaneamente la sua ultima biglia: il male – ormai – è stato fatto.

Il gioco delle biglie – il gioco dei dilemmi morali – simboleggia tutte le situazioni di vita in cui le nostre scelte ci mettono a nudo, rivelano ciò che siamo realmente, di là di tutti i bei discorsi di cui siamo capaci, di tutti i nostri sofismi, delle nostre pur legittime giustificazioni, delle incessanti suppliche di comprensione e perdono.
 

Il ponte di vetro

 
L’ombra immensa del caso si stende su tutto l’universo, e nessun angolo per quanto piccolo ne va esente. Non vi è conoscere per cause da cui sia mai eliminabile un elemento o un momento di contingenza, di caso, di accidentalità pura. Nessun conoscere per cause si muove interamente nell’etere della necessità”.  

Le parole di Adriano Tilgher sono la migliore introduzione al gioco del ponte di vetro.

L’incertezza, la (s)fortuna, l’imponderabile sono una costante di tutte le situazioni di vita: il Demone del Caso, a volte sonnecchia, a volte spariglia le carte, altre ancora sovverte le gerarchie, ma la coda ce la mette sempre.

Pensa al gioco della bambola. In teoria, sì, è puramente meccanico (si avanza finché la bambola ha la faccia contro l’albero e ci si blocca prima che si giri) ma nell’avanzare si può inciampare in un cadavere, perché magari troppo concentrati nel fissare i movimenti della bambola. È un imprevisto, un evento non contemplato dal gioco in sé, che però può ben accadere – come in effetti accade al 456 – e causare allora l’eliminazione (perché la bambola percepirà il movimento della caduta). Ma fortuna vuole che accanto a 456 ci sia un cuore d’oro, il 199, con la prontezza di afferrarlo per giacca e la forza necessaria a tenerlo bloccato a mezz’aria per tutto il tempo che occorre a far voltare la bambola. La sfortuna toglie (l’inciampo del 456), la fortuna restituisce (il 199 accanto al 456).

Puoi vedere all’opera la fortuna anche nel gioco delle formine: l’intuizione del 456 di leccare la formina, per renderla più facilmente puntellabile, non origina da un’accurata riflessione a priori sulla natura del problema, ma da un elemento contingente e casuale, una goccia di sudore che vi cade sopra e offre lo spunto per un ragionamento mirato.

Ritroviamo la (s)fortuna anche nel gioco delle biglie, quando l’esito del lancio del giocatore 101 beneficia di un rimbalzo involontario, che fa arrivare la biglia dentro la buca e gli permette così di conquistare la vittoria.
 
Ma è nel gioco del ponte di vetro che si viene messi faccia a faccia col puro rischio. La lastra prescelta sarà o no in grado di reggere il peso? È possibile trovare un elemento informativo (i riflessi di luce, ad esempio) che consenta di scegliere razionalmente? Quanto conta essere i primi a dover fare esperienza in un ambiente sconosciuto e quanto è vantaggioso poter imparare dall’esperienza degli altri?

Giocatore 456: “Mancano dieci lastre e siamo rimasti in undici.
Se scelgono tutti bene, una volta o due, riusciremo ad arrivare dall’altra parte”
Giocatore 218: “Non è proprio così.
Guarda che se quelli davanti si spaventano e continuano a perdere tempo,
noi qui in fondo saremo comunque in pericolo”
 
Il ponte di vetro è un invito a interiorizzare un senso estetico verso l’incertezza.

Vediamo il giocatore 62 cimentarsi in un veloce quanto rigoroso calcolo probabilistico, per poi concludere che sarà virtualmente impossibile raggiungere l’altra estremità del ponte: c’è 1 probabilità favorevole su 32.678 contrarie. Non rimane che sorridere – come lo vediamo fare – e poi lasciarsi andare, saltare da una lastra all’altra senza pensare troppo, ché tanto c’è poco da pensare, e vivere la situazione per quel che è, fino a quando il Demone del Caso vorrà concedere i suoi favori. E il suo approccio viene premiato da una discreta fortuna, che gli consente di avanzare di parecchie lastre, prima di incappare in quella sbagliata. Ma il suo comportamento rimane eroico  – a differenza di ciò che vediamo fare al 101, che minaccia di non muoversi e far morire tutti – perché velocizza una dinamica di gioco che procedeva a rilento (per la paura di tutti ad avanzare nell’incertezza).
 
Perché gli eroi non sono eroi in virtù della vittoria o della sconfitta, ma perché si comportano da eroi, e se l’incertezza è per definizione incontrollabile, si può ancora contrastarla con un protocollo di comportamento indipendente dalle circostanze più immediate.

Qualunque cosa accada, che la fortuna si conceda con la passione di un’innamorata, o si neghi con la fierezza di una donna bella e insensibile, cerca di non diventarne lo zimbello.

Non lagnarti per la cattiva stella, anche se avresti ragione per farlo, e nel successo pensa di esser stato più fortunato che bravo, per soffrire meno quando la sorte si riprenderà quel che ti ha dato.

A ogni modo, per non sbagliare, abituati a non affezionarvi a qualsiasi cosa ti possa esser tolta, fosse pure la tua stessa vita.

A te – esteta del caso – ogni guadagno in palio in un gioco, e tutto ciò che l’esistenza può offrirti in generale, apparirà come una posta da due soldi, insignificante davvero per meritare un’ansiosa preoccupazione.
 
La soddisfazione sarà nel giocare lealmente, con intelligenza e abilità, nel saper godere del piacere del gioco, nell’avere un metodo per giocare. La felicità non riposerà più sul successo, fuori dal pieno controllo, ma nell’appropriatezza della condotta, che con disciplina e istruzione potrà esser indirizzata e portata fuori dai dominî della fortuna.
 
Qualunque fatto accada, favorevole o contrario, il tuo comportamento è l’unica cosa su cui la Signora Fortuna non avrà l’ultima parola, anzi su cui non potrà mai metter bocca.
 

Il calamaro

 

Netflix classifica la serie Squid Game con le etichette “violenza” e “suicidio”, e ne suggerisce la visione a un pubblico di età superiore ai 16 anni.

Anche nel sentire diffuso, nella percezione comune, la serie è cruenta, sconsigliata ad animi delicati o impressionabili.

Non vi è dubbio che il mood sia violento, ma ora fermiamoci un attimo, e ragioniamo sulla natura dei giochi, sulle loro caratteristiche intrinseche.

Cosa c’è di violento in “un, due, tre, stella”, nelle formine, nel tiro alla fune, nelle biglie e nel ponte di vetro? Solo l’esito, e null’altro. Se non si supera il gioco, si viene eliminati, si muore, ma i giochi in sé sono assolutamente pacifici, e nella loro dinamica non c’è nulla di cruento.

Dalla bambola al ponte di vetro, noi vediamo giochi dall’esito estremo, ma innocui nel loro svolgimento.

Con il calamaro – lo squid game – abbiamo uno strappo: la violenza diventa parte costitutiva del gioco, e di nuovo – a prova di scemo – il cambio di logica è esplicitamente segnalato da uno scambio di battute.
 
Front-Man: “Tra tutti i giochi che facevano i bambini, questo era il più fisico e violento” 
VIP: “Quindi è permessa ogni forma di violenza?” 
Front-Man: “Certo. Non ci sono restrizioni”

La strutturale violenza del gioco del calamaro era stata peraltro comunicata già all’inizio, nella prima scena della prima puntata, mostrando i ragazzini che vi erano impegnati: si capisce chiaramente che l’unico limite alla violenza è nelle loro capacità fisiche, e ancora una volta – a prova di scemo – arriva la voce fuori campo a dichiarare la percezione psicologica dei giocatori coinvolti.

“Per vincere, gli attaccanti devono toccare col piede l’area all’interno della testa del calamaro.
Se però il difensore riesce a spingerti sulla linea, o fuori dal confine, beh, sì… sei morto”

Ci siamo ingentiliti, nel corso dei millenni, ma nessuno ha veramente rimosso la sua base animalesca, a cui talvolta ricorre – deve ricorrere – per tirarsi fuori da situazioni complicate: violenza fisica, violenza verbale, violenza psicologica, violenza esplicita, violenza passiva, ma pur sempre violenza. Ci sono ancora – ammettiamolo – molte situazioni che si risolvono così: con la violenza.

Persino l’arte delle persuasione, nell’immaginario invariabilmente collegata ad approcci soft, può contemplare interi capitoli “in cui si tratti della forca e del rogo come mezzi dal cui uso o dal cui abuso può dipendere il prolificare o il morire d’un sentimento o di una teoria”, scrive Prezzolini.

Uno degli scrupoli più gravi riguardo ai mezzi della persuasione è quello contro l’impiego della forza; e dico dei più gravi perché lo scrupolo è rivolto non soltanto alla legittimità morale del mezzo, ma anche alla sua reale capacità d’operare.
 
Pure un capitolo sullimpiego della forza potrebbe sfatare questo pregiudizio moderno. Si è venuto formando il luogo comune che le repressioni, le violenze, le minacele, la lotta valgano meno delle parole quiete e dei ragionamenti sensati ad ottenere la persuasione. Si citano anzi molti esempi di repressioni fallite.
 
Ma ciò è vero soltanto nel caso in cui le repressioni, le violenze, la lotta non sono complete o vengono troppo tardi.
 
L’esito della lotta contro gli Ugonotti in Francia, quello della lotta contro i Mori in Spagna dovrebbe convincere che le idee si possono uccidere non solo con sillogismi, ma anche con spade e con forca in persona dei loro sostenitori. La rivoluzione francese è riuscita perché la repressione fu debole e tarda; se questa fosse venuta prima e fosse stata eseguita con maggior rigore avrebbe soffocato la rivoluzione”.

La violenza fa ancora parte delle nostre vite, caratterizza il nostro agire nel mondo, sebbene proprio nel gioco del calamaro – l’unico realmente violento, perché violento in sé – si è scelto di dare un messaggio di speranza, di indicare la costante presenza di una via alternativa alla violenza.

Giocatore 456: “Clausola 3 dell’accordo: i giochi possono essere interrotti,
con un voto di maggioranza. Se ci ritiriamo tutti e due, il gioco si conclude”



Soldato: “Il 456 vuole fermare il gioco”



VIP: “Ma come? Sta per rinunciare al montepremi? Proprio adesso, a un passo dalla vittoria?”

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